NELLO SCIAME. VISIONI DEL DIGITALE, Byung-Chul Han, Nottetempo, 105 pagg., 12,00 euro
In questi ultimi anni, sociologi e filosofi hanno cominciato a interpretare gli effetti della cultura digitale sulla società e sugli individui. Quel che ne emerge è uno guardo preoccupato sul presente che lancia ombre lunghe sul futuro prossimo. Nel caso di questo saggio, Han costruisce un percorso articolato, tra il filosofico e il sociologico tracciando una linea tematica molto originale. Partendo dall’idea che nel digitale il capitalismo abbia trovato la propria evoluzione ideale, Han inizia la propria riflessione mostrando come alcune definizioni, con le quali qualche anno fa si riassumevano determinati fenomeni legati alla sfera pubblica, oggi non siano più valide. Nell’era della rete e dei social network, la ‘folla’ è diventata uno sciame in balia di una miriade di informazioni, capace di minare nelle persone il piacere di indugiare in narrazioni dotate di quell’interiorità tipica della letteratura. Han guarda con preoccupazione filosofica la crescente fame di input del popolo digitale. Una sorta di Uroboro, una divorazione creatrice di danni psichici, quali la ‘sindrome da affaticamento informativo’ che paralizza la capacità di analisi. E, chissà, forse proprio l’assenza di capacità analitica sarà la vera carestia del secolo ventunesimo. (Gio Sandri)
CAPITALE DISUMANO, Roberto Ciccarelli, manifestolibri, 232 pagg., 16,00 euro
Fino a che punto è ancora possibile distinguere l’essere umano dal Sé lavoratore? La domanda impostasi sin dagli albori della lotta di classe e dell’emancipazione del proletariato, assume oggi un carattere di urgenza ancora maggiore di fronte al dilagare senza freni del lavoro precario. Il sottotitolo del saggio parla da solo: la vita in alternanza scuola lavoro. Quel che la frase vuol significare è che nella speranza di restare dentro una realtà lavorativa fatta di ricatti, più o meno impliciti, e perpetua discontinuità, oggi chi voglia continuare a galleggiare nel mercato dell’impiego, è costretto a riclassificare di continuo se stesso tra un corso di formazione e l’altro. In questo circolo vizioso di studi e aggiornamento (per i lavoratori), e di studio e lavoro gratuito (per gli studenti) il potere economico sta creando una nuova genia di disperati, privi di certezze, costretti a trasformarsi in un “Capitale umano” ambulante nel tentativo di rivendere se stessi a prezzi da fame. Questo saggio rileva la temperatura del mondo del lavoro oggi, e, nella sua analisi (forse, al di là delle stesse intenzioni dell’autore), non lascia molte speranze. (Gio Sandri)
L’OPERAISMO POLITICO ITALIANO, Gigi Roggero, DeriveApprodi, 150 pagg., 9,00 euro
L’intento è quello di ripercorrere la storia e ragionare su quell’unicum che è stato l’operaismo politico italiano: la sua diversità dall’operaismo consiliarista e da quello staliniano, che l’hanno preceduto, la sua nascita e conclusione intorno alla figura dell’operaio massa. Roggero l’affronta toccando le riviste che ne sono state il perno, Quaderni rossi e Classe operaia, le figure di Alquati, Panzieri e Tronti, il concetto di composizione di classe, nel rapporto tra composizione tecnica e composizione politica, la soggettività, la conricerca come “inchiesta a tiepido […] che si muove con il tempo dell’anticipazione […] giocando la possibilità di combinare produzione della conoscenza, produzione di organizzazione, produzione di controsoggettività”. È seguito l’operaio sociale e il lavoratore cognitivo – o meglio, come sottolinea l’autore, la “cognitivizzazione del lavoro” – e soprattutto il post-operaismo, “un’ideologia” buona per l’accademia e di cui liberarsi, un “tentativo di catturare la potenza dell’operaismo, depoliticizzarlo e astrarlo dal conflitto e dalla composizione di classe”. “Cosa è rimasto? Per alcuni, nulla. Per altri, il post. Per noi, un metodo e uno stile” conclude Roggero; con l’esortazione a ritornare all’operaismo contro il suo ‘post’. (Gio Sandri)
Politicamente corretto, Jonathan Friedman, Meltemi, 345 pagg., 20,00 euro
Una delle armi di ogni regime è l’uso del vocabolario, ovvero il potere di definire i comportamenti per costruirvi sopra un regime morale. Come recitava un famoso spot degli anni Sessanta: Basta la parola! Questo saggio analizza il fenomeno del politicamente corretto in quanto strumento politico delle nuove élite. Il trattato è ampio e rigoroso, e pur tenendo come centro d’interesse la società svedese, riesce a mettere a fuoco problematiche vive in tutto l’occidente. Per dirla in sintesi e stimolare la curiosità: il politicamente corretto è un modo di cancellare il libero pensiero in una società in cui la paura sociale e il conseguente conformismo annullano ogni tentativo di comprendere gli spaventosi cambiamenti in atto oggi. Ciò che illustra l’autore è come la costruzione di paradigmi storici venga facilmente adottata per creare paradigmi politici di comodo attraverso l’uso elastico e in malafede di determinati vocaboli, come è lì a dimostrare la pronuncia disinvolta in Italia di parole quali: comunista e terrorista (oggi un’altra etichetta potrebbe essere rossobruno) per delegittimare in un attimo agli occhi della massa, un rivale politico o studiosi più rigorosi nelle proprie ricerche di quanto non siano molti giornalisti da salotto nostrani. (Gio Sandri)