TTIP alla volata finale: dentro il Trattato di libero scambio Usa-Ue che nel silenzio dei media si vuole firmare entro l’autunno
Nel giugno del 2013, durante il summit del G8 in Irlanda del Nord, alla presenza di Barack Obama, David Cameron, José Manuel Barroso e Herman Van Rumpy (all’epoca rispettivamente presidente della Commissione europea e presidente del Consiglio europeo), sono iniziati i negoziati tra Stati Uniti e Unione europea sul TTIP (Transatlantic Trade and Investment Parternship).
Si tratta di un trattato di libero scambio il cui obiettivo è l’abolizione dei dazi doganali e l’armonizzazione (il termine è di Cecilia Malmström, commissaria al Commercio europeo) delle norme, che regolano la produzione e il traffico di prodotti e servizi tra le due sponde dell’Atlantico. Inizialmente i negoziati si svolgevano nella più totale segretezza (1).
Perfino i deputati europei potevano accedere ai documenti solo all’interno di una sala di lettura di sei metri quadrati, predisposta dalla Commissione, dove si era ammessi uno alla volta, con il divieto di portare con sé penna, block notes e cellulare. La possibilità di prendere appunti era limitata ad alcuni scarabocchi a matita su una carta speciale, non fotocopiabile.
Tale assenza di trasparenza ha determinato le proteste dei movimenti sociali, nonché di una parte degli stessi parlamentari europei, i quali il 9 ottobre 2014 sono riusciti a ottenere la declassificazione del mandato negoziale del TTIP. In altre parole, a partire da quel momento, le direttive sulla cui base viene discusso il negoziato sono rese note, e nel gennaio 2015 la Commissione europea ha pubblicato i suoi primi testi di posizionamento inerenti al TTIP. Tuttavia, restano segreti i risultati delle trattative – una situazione quantomeno paradossale in democrazia. A questo proposito, è bene notare come il Parlamento europeo non abbia, de facto, alcun modo di partecipare ai negoziati – può esprimere, cioè, il suo giudizio soltanto al momento del voto finale, senza la possibilità di intervenire sul testo.
Infatti, secondo il Trattato di Lisbona che, tra le altre cose, regola il funzionamento delle istituzioni europee, la gestione degli accordi bilaterali è esclusivo appannaggio della Commissione europea.
Ma facciamo un passo indietro: è bene ricordare, infatti, che quest’ultima è composta da individui non eletti direttamente dai cittadini. Alle ultime elezioni del 2014, per la prima volta il nome del presidente della Commissione è stato indicato nella scheda elettorale accanto al simbolo dei diversi partiti politici (oggi è presidente Jean-Claude Juncker), ma precedentemente era proposto dal Consiglio europeo; in accordo con gli Stati membri egli sceglie poi gli altri 27 commissari, uno per ogni Paese, e il Parlamento europeo è chiamato a esprimersi sulla Commissione nel suo insieme. Dunque un giro parecchio intricato, dove risultano evidenti i numerosi gradi di separazione tra le istituzioni e il cittadino.
Tornando al TTIP, gli europarlamentari possono formulare solo quesiti circostanziali, a cui chiaramente la Commissione è tenuta a rispondere – nel rispetto, però, della riservatezza. Insomma, la logica è: chiedimi pure tutto quello che vuoi, tanto posso decidere io se renderne conto o meno.
Ma cosa prevede esattamente il TTIP? La questione dei dazi doganali è, in realtà, di secondaria importanza essendo questi, in numerosi casi, già molto bassi. Il vero obiettivo del Trattato è imporre un’egemonia normativa sulla produzione e sul consumo di beni e servizi in tutta l’area atlantica. E poiché tale uniformazione si attuerebbe in nome di un aumento del commercio e degli investimenti, è ovvio che essa determinerebbe un livellamento al ribasso delle leggi e dei princìpi che regolano i mercati, influenzando, tra l’altro, la capacità degli Stati di legiferare nell’interesse dei cittadini.
A questo proposito è emblematica la questione relativa al meccanismo ISDS (Investor-State Dispute Settlement), già in vigore in numerosi trattati di libero scambio (anche intereuropei), che prevede l’istituzione di arbitrati internazionali per la risoluzione delle controversie tra Stato e investitore. Ciò significa, in altre parole, che se venisse firmato il TTIP, anche nel contesto dell’accordo bilaterale tra Europa e Stati Uniti le multinazionali sarebbero libere di far causa agli Stati promotori di politiche che possano intralciare gli interessi delle imprese.
Per avere un’idea di come ciò possa avere ripercussioni tragiche sulla vita di ognuno, basti pensare al caso di Veolia contro Alessandria di Egitto. Nel 2011, in seguito alla primavera araba e al rovesciamento di Mubarak, il nuovo governo aveva portato il salario minimo da 41 a 72 euro al mese; Veolia, multinazionale francese che opera nel settore dei rifiuti, non volendo veder ridotti i propri profitti, ha fatto causa al governo egiziano per 70 milioni di euro. Ecco dunque che tematiche come il lavoro, ma anche l’ambiente e le politiche sociali, diventano appannaggio esclusivo dei maggiori gruppi imprenditoriali.
In cosa consiste esattamente il meccanismo ISDS è ben chiarito nel saggio TTIP. L’accordo di libero scambio transatlantico. Quando lo conosci lo eviti di Paolo Ferrero, Elena Mazzoni e Monica Di Sisto (uscito a marzo per Derive Approdi): “L’iter arbitrale può avvenire in luoghi del tutto informali, quali sale riunioni di grandi alberghi; manca palesemente di indipendenza; i giudici sono pagati dalle società private che ricorrono e il conflitto di interessi è macroscopico; i casi sono discussi da un numero molto limitato di persone, una casta di qualche centinaia di avvocati che guadagnano milioni di dollari con cause che essi stessi esortano a muovere contro gli Stati. Tutto questo in assenza di una regolamentazione chiara che definisca i loro ambiti di intervento: in un processo possono indossare i panni del giudice, in un altro rappresentare l’accusa, in un terzo la difesa”. Inoltre, “i mediatori hanno un loro tornaconto nel deliberare a favore delle imprese, in quanto, così facendo, le incentivano a promuovere nuovi ricorsi”.
Le numerose critiche inerenti all’inserimento della clausola ISDS nel TTIP hanno portato l’Unione europea a proporre una modifica nell’ambito del negoziato, chiedendo di istituire, al posto degli arbitrati, delle Corti specifiche, più simili a dei tribunali internazionali. Il 16 settembre 2015 Frans Timmermans, primo vicepresidente della Commissione europea, ha trionfalmente dichiarato: “La proposta relativa a un nuovo sistema giudiziario per la protezione degli investimenti rappresenta una reale innovazione. Questo nuovo sistema sarà composto da giudici pienamente qualificati, i procedimenti saranno trasparenti e le cause saranno giudicate in base a regole chiare.
Il tribunale sarà inoltre soggetto al riesame di un nuovo organo d’appello. Con questo nuovo sistema tuteliamo il diritto dei governi di legiferare e garantiamo che le controversie in materia di investimenti siano risolte nel pieno rispetto dello stato di diritto” (2). Peccato che, appena ventiquattro ore dopo la proposta europea, la Camera del commercio degli Stati Uniti, controparte della Commissione nel negoziato, l’abbia respinta in termini assoluti.
Il fantasma degli arbitrati internazionali continua, dunque, ad aleggiare intorno al Trattato di libero scambio tra Stati Uniti e Unione europea. Se si considera poi il fatto che nel TTIP viene aggirata la clausola contenuta nel GATS (Accordo generale sul commercio dei servizi), secondo cui sono esclusi da ogni processo di liberalizzazione quei servizi forniti dagli Stati nell’ambito della loro attività pubblica, si capisce come il Trattato pregiudichi la possibilità dei governi di promuovere politiche volte alla tutela del welfare o alla sostenibilità ambientale, andando a insidiare anche servizi quali la sanità, l’istruzione ecc. Perché basta restringere il concetto di servizio pubblico, non considerando tali quelli che possono essere offerti anche da soggetti terzi o per la cui erogazione è previsto un corrispettivo economico, e i giochi sono fatti.
Tuttavia la questione è trattata solo indirettamente dal TTIP, che la demanda al TiSA (Trade in Service Agreement), l’accordo sul commercio dei servizi reso noto ufficialmente il 10 marzo 2015, in seguito alle rivelazioni di Wikileaks del 19 giugno 2014, il cui obiettivo dichiarato è aprire al mercato il maggior numero di settori dei servizi pubblici (3).
Ci si potrebbe dilungare ancora molto sugli effetti che produrrebbe la firma del TTIP. Si pensi, per esempio, al principio di precauzione adottato, fino a questo momento, dall’Unione europea, che prevede di non immettere sul mercato alimenti, farmaci o altre merci di cui non si abbiano a disposizione dati scientifici conclusivi, concernenti la loro sicurezza o nocività per l’uomo e l’ambiente. Negli Stati Uniti questo non esiste, ma vige la consuetudine di ritirare prodotti dal mercato solo dopo che sia stata assodata la loro nocività e abbiano, dunque, già avuto modo di provocare danni. Una differenza notevole che, nel contesto del TTIP, cesserebbe di esistere in quanto, come già accennato, uno degli obiettivi principali del Trattato è l’armonizzazione (al ribasso) delle norme.
O ancora si potrebbero accennare gli sconvolgimenti a cui sarebbe soggetto il settore agroalimentare. Sempre il libro di Ferrero, Mazzoni e Di Sisto cita l’elenco stilato dal ministero dell’Agricoltura statunitense che individua le ‘regole’ da eliminare, secondo il punto di vista dei maggiori esportatori americani ed europei. In pratica, bisognerebbe “rendere legale il lavaggio del pollo col cloro per disinfettarlo; rendere legale l’allevamento di suini manzi e bovini ricorrendo a ormoni della crescita; rendere legale l’utilizzo di ormoni che compromettono il sistema endocrino umano per selezionare le specie; consentire la permanenza di alti residui di pesticidi dentro frutta e verdura; porre fine al bando degli Ogm; limitare i controlli sanitari e fitosanitari lungo tutta la filiera; limitare la protezione di quei prodotti legati ai territori che li producono così indissolubilmente da assumerne il nome: le cosiddette indicazioni geografiche, tra cui doc, dop e così via”.
Se il Trattato Transatlantico trovasse applicazione, si ultimerebbero così i piani dei teorici del neoliberismo, secondo cui l’azione dello Stato deve avvenire lungo tre assi gerarchizzati, nei quali il potere legislativo e quello esecutivo vengono subordinati al livello ‘meta legale’, che è la massima libertà delle imprese e della concorrenza. Verrebbe inoltre a crearsi un’enorme area geopolitica, estesa dal Canada al Messico e dall’Europa al Giappone, fino all’Australia, con gli Stati Uniti al centro. Gli effetti del TTIP andrebbero infatti a sommarsi a quelli degli altri due grandi trattati di libero scambio voluti dagli Usa: il TPP (Trans-Pacific Partnership), firmato nel febbraio 2016, e il NAFTA (North America Free Trade Agreement), firmato nel dicembre 1992.
Va poi ricordato il CETA (Comprehensive Economic and Trade Agreement), tra l’Europa e il Canada, la cui rifinitura legale è stata annunciata il 29 febbraio 2016. A questo punto ci si dovrebbe pure chiedere quali rapporti intendano mantenere gli artefici di tali manovre con i Paesi esclusi – Russia e Cina in primis – ma è già abbastanza chiaro che si tratta anche di strategie volte a far fronte a una guerra economica sempre più aspra, sorella gemella della guerra guerreggiata (basti pensare ai campi di battaglia di Siria e Ucraina).
Insomma, il discorso è ampio – e ciò che finora è stato citato basta a rendere un’idea dell’enorme portata del TTIP. Com’è possibile, dunque, che la stragrande maggioranza dei cittadini europei – e in particolare quelli italiani – non l’abbia mai nemmeno sentito nominare? La risposta è semplice: basta leggere i principali quotidiani, guardare i telegiornali o ascoltare le maggiori radio per rendersi conto che nessuno ne parla. Non è certo una sorpresa, purtroppo: lo stretto rapporto tra potere economico e politico da una parte e informazione dall’altra non dovrebbe essere ormai un mistero per nessuno.
Si tratta di una storia antica, che risale agli albori del giornalismo nostrano. Sono numerosi i documenti che, fin dall’Unità d’Italia – e anche prima, nel contesto dei vari Regni – attestano l’esistenza di fondi segreti da destinare alla sovvenzione di quelle testate impegnate nella celebrazione e legittimazione del neonato governo. In una relazione dell’ottobre 1871 redatta dal segretario generale del ministero dell’Interno Gaspare Cavallini al ministro Lanza, si legge: “Il lavoro che mi hai affidato è compiuto colla maggiore diligenza. Tutte quante le carte dal 1862 sino al giorno d’oggi furono da me esaminate, niuna eccettuata. Risulta che tutti i Gabinetti sussidiarono, chi più, chi meno, la stampa, ma soprattutto i Gabinetti Rattazzi, Cantelli e Ferraris; […] Risulta che i Ministri Ricasoli, Chiaves, Cadorna e Lanza non rilasciavano alcun Buono in proprio capo; risulta invece che altri ne prelevarono per somme enormi; accennerò solo che nel 1862 vi sono Buoni firmati da Rattazzi per £. 209.450 e Capriolo [Vincenzo] per £. 99.310 Totale £. 308.460” (4).
Ma naturalmente non era solo il governo a finanziare la stampa. Già allora il controllo di aziende e banche era una pratica diffusa. Risale al marzo 1886 la fondazione a Genova del Secolo XIX, grazie alle sovvenzioni del gruppo siderurgico Ansaldo; sempre a marzo, ma del 1885, il Corriere della Sera ottenne generosi investimenti da parte dell’industriale cotoniero Benigno Crespi, a cui poi si aggiunsero quelli di Giovanni Battista Pirelli ed Ernesto De Angeli. E ancora: tra il 1888 e il 1892 la Banca Romana pagò oltre 765.000 lire a diversi giornalisti e una decina di testate, ponendo le basi per uno scandalo che coinvolse nomi allora di spicco quali Costanzo Chauvet, Giuseppe Turco e Carlo Levi. Fino ad arrivare a oggi, con le principali imprese manifatturiere e finanziarie che si spartiscono quote azionarie dei grandi quotidiani e i processi di accentramento proprietario a cui assistiamo.
A fronte di ciò, è impossibile non andare con la mente ai due grandi romanzi distopici di Aldous Huxley e George Orwell, nei quali il rapporto tra potere e informazione ha un’importanza centrale. Spesso 1984 è citato come metro di paragone della realtà odierna. In effetti qualche somiglianza c’è – e riguarda soprattutto, oltre a quello del controllo sociale, l’aspetto relativo alla propaganda. All’epoca – il romanzo è scritto nel 1948 – Joseph Goebbels nella Germania nazista aveva fatto scuola (una per tutte, la famosa frase: “Ripetete un bugia cento, mille, un milione di volte e diventerà una verità”), ma la successiva società dei consumi ha perfezionato il marketing agendo sulle emozioni, il concetto di status symbol e i desideri indotti. Proprio per questo il parallelismo con 1984 risulta obsoleto: nel libro di Orwell la dittatura è dichiarata, il nemico ben visibile, nonostante i tentativi di manipolazione mentale della popolazione, e il regime si regge ancora, in gran parte, sulla repressione violenta dei dissidenti.
Pur essendo stato pubblicato sedici anni prima, è decisamente più attuale lo scenario de Il mondo nuovo di Huxley, in cui la società è regolata dal principio della produzione in serie (applicato anche agli esseri umani) e la popolazione sa nulla del proprio passato, se non che era caratterizzato dalla barbarie. Le persone sono soggette a ciò che nel romanzo viene chiamato condizionamento (termine che sostituisce educazione), che le rende gioiosamente inconsapevoli, vivono e consumano felici e assumono regolarmente una droga euforizzante, il soma. “La dittatura perfetta avrà sembianza di democrazia, una prigione senza muri nella quale i prigionieri non sogneranno mai di fuggire. Un sistema di schiavitù dove, grazie al consumo e al divertimento, gli schiavi ameranno la loro schiavitù”. Questo scrive Huxley, e in questo spostamento dell’attenzione, in questa incoscienza felice sta la terribile preveggenza della sua opera.
Oggi il funzionamento della censura non implica necessariamente l’utilizzo di pratiche repressive (per quanto mai abbandonate e ancora adoperate all’occorrenza), ma si struttura nel non dare visibilità a questioni essenziali, saturando l’etere di inessenziali, mentre l’antipolitica e l’imbarbarimento culturale fanno il resto. Si assiste così a fenomeni grotteschi, come i dieci chilometri di coda sull’autostrada A8 il 17 aprile – giorno del referendum sulle trivelle – causati dall’inaugurazione del centro commerciale più grande d’Europa ad Arese, e alle due ore di coda che quelle stesse persone sono state disposte a fare una volta raggiunta la meta per accaparrarsi il pollo fritto di una catena di fast-food.
Individui che, se anche leggono i quotidiani, non hanno la più pallida idea di cosa sia il TTIP e non sanno che i membri della Commissione europea stanno facendo di tutto per giungere alla firma del Trattato entro l’autunno di quest’anno, mentre ancora gli Stati Uniti sono retti dall’amministrazione Obama; perché tutti i candidati alle presidenziali americane si sono dichiarati contrari e, anche se resta poi da vedere cosa farà realmente il vincitore della corsa una volta eletto, ciò lascia supporre un interessamento alla questione da parte dei mezzi di informazione, anche mainstream, d’oltreoceano, cosa che è mancata – e continua a mancare – in Italia.
Di fronte a questa situazione, è normale per chi ancora conserva un atteggiamento critico sentirsi sopraffatto. Tuttavia può essere di aiuto ricorrere al concetto greco di parresia, iniziato a circolare intorno al V secolo a.C. Secondo la definizione data da Michel Foucault, “la funzione della parresia non è dimostrare la verità a qualcun altro, ma è quella di esercitare una critica: una critica dell’interlocutore, o anche di se stesso. […] La parresia è una forma di critica verso gli altri o verso se stessi, ma sempre in una posizione in cui colui che parla o che confessa è in una condizione di inferiorità rispetto all’interlocutore. Il parresiastes è sempre meno potente della persona con cui sta parlando. La parresia viene dal basso, ed è diretta verso l’alto” (5).
Nonostante la mancanza di trasparenza e le attuali forme di censura praticate dall’informazione ufficiale, in Europa è riuscito a svilupparsi un ampio movimento Stop TTIP, e il 7 maggio scorso si è tenuta a Roma una manifestazione di protesta che ha portato in piazza 30.000 persone provenienti da tutta Italia. Inoltre, la Francia si è già dichiarata contraria alla firma del Trattato, ed è del 2 maggio la notizia che Greenpeace Olanda ha pubblicato online il testo di consolidamento del TTIP, che inquadra la situazione dei lavori ad aprile – 248 pagine in linguaggio legale, tecnicamente complesso, più una nota interna dell’Unione europea (6).
Finché resteranno gruppi di persone consapevoli e decise a porsi in maniera conflittuale rispetto al potere, la parresia sarà sempre possibile – e con essa, forse, il cambiamento.
1) Per tutte le informazioni inerenti al TTIP, rimando al saggio di Paolo Ferrero, Elena Mazzoni e Monica Di Sisto, TTIP. L’accordo di libero scambio transatlantico. Quando lo conosci lo eviti, Derive Approdi, 2016, nonché al sito web del movimento Stop TTIP Italia https://stop-ttip-italia.net e a quello della Commissione europea http://ec.europa.eu/index_it.htm
2) Commissione europea, Comunicato stampa “La Commissione propone un nuovo sistema giudiziario per la protezione degli investimenti per il TTIP e altri negoziati commerciali e d’investimento dell’Ue”, 16 settembre 2015
3) Cfr. S. Maurizi, WikiLeaks: ecco l’accordo segreto per il liberismo selvaggio, L’Espresso, 19 giugno 2014. Il negoziato è ancora un corso e riguarda Australia, Canada, Cile, Colombia, Corea, Costa Rica, Giappone, Hong Kong (Cina), Islanda, Israele, Liechtenstein, Mauritius, Messico, Nuova Zelanda, Norvegia, Pakistan, Panama, Perù, Stati Uniti, Svizzera, Taiwan, Turchia e Unione europea
4) Mauro Forno, Informazione e potere. Storie del giornalismo italiano, Laterza
5) Michel Foucault, Discorso e verità nella Grecia antica, Donzelli
6) https://www.ttip-leaks.org/