Studi che prefigurano una disoccupazione di massa (1,1 miliardi di lavoratori e 15,8 trilioni di dollari in salari a livello globale, 54 milioni di lavoratori in Europa), il rapporto Uomo-macchina completamente stravolto e la politica Ue del tutto impreparata a gestire il cambiamento della nuova automazione: cosa ci aspetta con i robot AI
“Negli Stati Uniti, la percentuale di occupazioni che può essere completamente automatizzata è molto piccola, meno del 5%, ma l’automazione influenzerà quasi tutte le occupazioni, non solo i lavoratori e gli impiegati di fabbrica ma anche giardinieri paesaggistici e tecnici dentistici, stilisti, venditori di assicurazioni e amministratori delegati, in misura maggiore o minore. Il potenziale di automazione di queste professioni dipende dalla tipologia di attività lavorativa che comportano, ma come regola di base circa il 60% di tutte le occupazioni hanno almeno il 30% delle attività che sono tecnicamente automatizzabili. Negli Stati Uniti, Paese per cui disponiamo dei dati più completi, il 46% del tempo trascorso in attività lavorativa in tutte le professioni e le industrie è tecnicamente automatizzabile con le tecnologie attualmente esistenti.
Su scala globale, l’automazione potrebbe interessare il 49% delle ore lavorative, che equivalgono a 1,1 miliardi di lavoratori e 15,8 trilioni di dollari in salari. Tra i diversi Paesi, il potenziale varia tra il 40 e il 55%, con appena quattro, Cina, India, Giappone e Stati Uniti, che rappresentano poco più della metà dei salari e dei lavoratori totali. Il potenziale potrebbe essere importante anche in Europa: secondo la nostra analisi, l’equivalente di 54 milioni di lavoratori a tempo pieno e più di 1,9 trilioni di dollari in salari nelle cinque grandi economie del continente: Francia, Germania, Italia, Spagna e Regno Unito. Questo allo stato attuale, ma poiché la tecnologia diventa sempre più avanzata, il potenziale crescerà”.
Questo il rapporto McKinsey “A future that works: automation, employment and productivity” del gennaio 2017, ma non è l’unico studio prodotto da società di ricerca sull’impatto della cosiddetta ‘intelligenza artificiale’ (AI) sul mondo della produzione manifatturiera e dei servizi, e dunque anche sul mondo del lavoro. Un impatto importante, che muterà completamente la realtà come oggi la conosciamo, e che non avrà nemmeno tempi lunghi se pensiamo che gli scenari parlano del 2055 come anno nel quale la metà delle attività lavorative potrebbe essere automatizzata – anche se gli studi sottolineano che ciò può avvenire vent’anni prima come vent’anni dopo, a seconda di diversi fattori: lo sviluppo costante delle capacità tecnologiche, il costo della tecnologia, i vantaggi sulla produttività delle prestazioni automatizzate, la concorrenza con il lavoro (ossia quanto saranno bassi i salari e docili i lavoratori, visto che, dal punto di vista del Capitale, una macchina ha anche il pregio di non rivendicare diritti né scioperare) e l’accettazione sociale (“Un robot”, scrive McKinsey, “può, in teoria, essere in grado di sostituire alcune funzioni di un’infermiera, per esempio. Ma per ora la prospettiva che questo possa effettivamente accadere in modo visibile potrebbe rivelarsi sconvolgente per molti pazienti che si
aspettano e si fidano del contatto umano”).
Come spesso capita – l’informazione italiana non brilla certo per qualità e ampiezza di sguardo – un tema che in molti Paesi è al centro del dibattito pubblico, qui trova ben poco spazio sui media mainstream (diversa è la rete): al più vengono spese le parole “automazione” e “Industria 4.0”, senza entrare nel merito del loro significato né delle conseguenze.
Difficile dare una definizione di AI, perché ne esistono diverse; semplificando, si può dire che è l’abilità di una macchina, sulla base di sistemi hardware e software, di svolgere funzioni e ragionamenti tipici della mente umana, che significa anche modificarli relazionandosi con l’ambiente e imparando dall’esperienza; robot che saranno anche interconnessi fra loro e alla rete.
McKinsey ha analizzato 2.000 attività lavorative all’interno di 800 occupazioni, iniziando la ricerca sul potenziale di automazione dei settori dell’economia statunitense, per stabilire il quadro metodologico, e poi ampliando l’analisi ad altri quarantacinque Paesi, utilizzando dati comparabili nazionali e internazionali. La conclusione è che a essere toccata dalla robotizzazione non sarà solo la produzione agricola e manifatturiera ma anche i trasporti, i servizi alberghieri e di ristorazione, il commercio al dettaglio, le attività d’ufficio e finanziarie, i servizi ospedalieri: in una battuta, “dal broker statunitense all’agricoltore indiano”.
L’intelligenza artificiale permetterà poi l’automazione non solo dei lavori pochi qualificati e a basso reddito, ma anche di quelli che richiedono medie ed elevate competenze, a cui corrispondono quindi buoni salari: McKinsey calcola che negli Usa le occupazioni sotto i 15 dollari l’ora possono essere automatizzate al 51%, mentre quelle tra i 15 e i 30 dollari l’ora al 46%; la differenza quindi è minima. Si pone dunque il problema di una fuoriuscita dell’elemento umano dal lavoro, con conseguente crescita di disoccupazione.
Qui gli scenari dei diversi studi vanno in direzioni opposte: chi prefigura una disoccupazione di massa, non più assorbibile in alcun modo, perché le nuove figure professionali create dall’automazione non saranno mai in misura superiore ai posti di lavoro eliminati, e chi, come McKinsey, si dice convinto che dopo un’iniziale fase di destabilizzazione le persone licenziate troveranno un’altra occupazione. Quale non è dato sapere, poiché l’affermazione resta sul vago, ma è significativo il fatto che lo studio non si sottrae a una riflessione sull’istituzione di un possibile reddito di base erogato dallo Stato, anche se lo considera una soluzione temporanea che dovrebbe sostenere il lavoratore mentre, riqualificandosi, passa da un tipo di lavoro a un altro.
La prima considerazione che si fa strada leggendo questo genere di studi, riguarda il divario tra realtà economica e realtà politica: la prima, appoggiandosi a tecnologia e scienza, corre veloce all’inseguimento della produttività e dei profitti, non preoccupandosi di altro; la seconda resta indietro, arranca, cercando di comprendere le conseguenze di tale mutamento e di ipotizzare come regolarlo.
Emblematica la relazione presentata il 27 gennaio scorso al Parlamento europeo da parte del Working group on robotic and artificial intelligence istituito dalla Commissione Legal Affairs. Ne hanno fatto parte anche rappresentanti di altre tre commissioni – Industria Ricerca ed Energia, Mercato interno e Protezione dei consumatori, Occupazione e Affari sociali – e il gruppo di lavoro ha consultato esperti di ambiti diversi, ricevendo contributi inclusi nella relazione. Una lettura da cui si riemerge con una sola certezza: non abbiamo la più pallida idea di che cosa abbiamo e avremo davanti né dove stiamo andando.
Innanzitutto, le conseguenze sull’Uomo: la relazione sottolinea “che lo sviluppo della tecnologia robotica dovrebbe concentrarsi sul complemento delle capacità umane e non sulla loro sostituzione” e deve “garantire che l’uomo abbia sempre il controllo sulle macchine intelligenti”; invita poi ad avere “particolare attenzione al possibile sviluppo di una connessione emotiva tra esseri umani e robot, in particolare nei gruppi vulnerabili (bambini, anziani e persone con disabilità)”, sotto forma di “attaccamento emotivo e conseguente grave impatto emotivo o fisico”.
Poi la questione della privacy dei dati, visto che le macchine AI sono interconnesse fra loro e alla rete: “Occorre prestare particolare attenzione a robot che rappresentano una minaccia significativa alla riservatezza per il loro collocamento in aree tradizionalmente protette e private, e perché sono in grado di estrarre e inviare dati personali e sensibili”.
C’è anche il risvolto legale, che può sembrare marginale ma se ci sofferma a ragionare, non lo è affatto: chi sarà responsabile di eventuali danni causati da un robot AI? “Nell’ambito dell’attuale quadro giuridico” scrive la Commissione, “i robot non possono essere ritenuti responsabili di per sé per atti o omissioni che causano danni a terzi: le norme esistenti in materia di responsabilità coprono i casi in cui la causa del comportamento o dell’omissione del robot può essere ricondotta a un determinato agente umano, come il fabbricante, l’operatore, il proprietario o l’utente, e dove tale agente avrebbe potuto prevedere ed evitare il comportamento nocivo del robot. Secondo l’attuale quadro giuridico quindi, la responsabilità del prodotto – se il suo produttore è responsabile di un malfunzionamento – e le norme che regolano la responsabilità per azioni dannose – dove l’utente di un prodotto è responsabile di un comportamento che porta a danni – si applicano ai danni causati da robot, anche AI. Ma nello scenario in cui un robot può prendere decisioni autonome, le regole tradizionali non bastano a dar luogo a responsabilità legali per i danni causati da un robot, in quanto non consentirebbero di identificare il soggetto responsabile a cui richiedere l’indennizzo per il danno causato; è dunque necessario un chiarimento delle responsabilità per le azioni dei robot e, infine, della capacità giuridica e/o dello status dei robot”.
Ci sono poi le conseguenze nel lavoro.
Anche la relazione europea pone l’attenzione, come il rapporto Mc-Kinsey, sul rischio di disoccupazione di massa dovuto all’automazione, e rivolge diversi inviti ai governi dei Paesi: avviare un’analisi e un monitoraggio per settori della tendenza del mercato del lavoro; sviluppare sistemi di formazione e di istruzione in linea “con le future esigenze dell’economia del robot”; aprire un dibattito “sulla sostenibilità dei sistemi fiscali e sociali sulla base dell’esistenza di redditi sufficienti, compresa la possibile introduzione di un reddito di base generale”; e infine esaminare l’eventualità di istituire una tassa per l’utilizzo e il mantenimento di un robot, che potrebbe essere finalizzata al “sostegno e riqualificazione dei lavoratori disoccupati i cui posti di lavoro sono stati ridotti o eliminati”.
Ma c’è un altro aspetto su cui riflettere, e riguarda la mutazione del lavoro di chi un impiego l’avrà, a contatto con i robot AI. Se, come scrive McKinsey, nel 60% delle occupazioni a essere automatizzate saranno solo alcune singole attività, significa che le persone completeranno il lavoro svolto dalle macchine. Dunque, per prima cosa, la relazione Uomo-macchina muterà radicalmente. Non sarà quella dell’operaio con la catena di montaggio, per intenderci: con la AI parliamo anche di dispositivi che l’essere umano indossa per collaborare con un robot che ha la capacità di ragionare e dialogare con l’ambiente circostante.
A questo si aggiunge la possibilità, secondo la relazione europea, che l’automazione possa portare a un aumento dei rischi per la salute e la sicurezza dei lavoratori: “Mentre la tecnologia robotica indossabile, come gli esoscheletri volti a proteggere dalle lesioni sul posto di lavoro, potrebbero aumentare la produttività, potrebbero dare origine ad aspettative più elevate dei lavoratori umani e, a loro volta, a maggiori rischi di lesioni”; in più, se “la robotizzazione può, da un lato, ridurre l’onere fisico sui lavoratori, può anche portare a una maggiore tensione mentale tenuto conto della crescente responsabilità dell’individuo in processi produttivi più complessi”; senza dimenticare la necessità di fissare “regole di responsabilità che assicurino che i danni causati da robot autonomi possano essere chiariti in favore dei dipendenti”.
Infine, scongiurando uno scenario, la relazione fa intravedere un possibile orizzonte: “La decisione individuale di scegliere o rifiutare un impianto, la protesi o l’estensione a un corpo umano non deve mai portare a un trattamento o a minacce sfavorevoli riguardo all’occupazione, all’istruzione, all’assistenza sanitaria, alla sicurezza sociale o ad altri vantaggi, e si sottolinea che tutti i cittadini devono avere accesso uguale e privo di barriere a beneficiare di nuove tecnologie”.
L’automazione quindi potrebbe avere carattere coercitivo nel mondo del lavoro, ed è più che probabile che l’avrà, arrivando a obbligare un essere umano a impianti tecnologici pena il licenziamento – e la stessa imposizione potrebbe verificarsi nella scuola, nella sanità, nella sicurezza sociale (previdenza, welfare ecc.). E sarà anche fortemente concreta la possibilità che si sviluppi una nuova forma di diseguaglianza: cittadini di serie A, che potranno accedere (economicamente, lo snodo è sempre quello) a protesi tecnologiche, aumentando così in qualche modo le proprie capacità, e cittadini di serie B che ne saranno esclusi.
C’è chi, a sinistra, saluta l’avvento dell’intelligenza artificiale e dell’automazione, scorgendovi la possibilità di vedere realizzata l’utopia della liberazione dell’Uomo dal lavoro sfruttato e alienante; una visione nella quale si inserisce, come cardine, l’istituzione di un reddito universale di base. Difficile però credere che il futuro possa essere questo. La maggior parte delle istituzioni politiche ed economiche – e non fanno eccezione il rapporto McKinsey e la relazione approvata dal Parlamento europeo – parlano di un “reddito di inclusione sociale”. Al di là della confusione mediatica nata sulla definizione, il modello, di fatto, è quanto già esiste in Gran Bretagna – che l’ultimo film di Ken Loach, “Io, Daniel Blake”, mostra nei suoi meccanismi oppressivi e violenti – e implementato anche in Germania con il Piano Hartz (1): sussidi sociali al limite della sopravvivenza collegati a un lavoro coatto gratuito o che paga un salario miserevole – per inciso, anche la proposta presentata dal Movimento 5 Stelle va in questa direzione.
Come evidenzia McKinsey, l’applicazione dell’automazione nella sfera produttiva dipenderà anche dalla concorrenza con il lavoro. È molto più probabile quindi che il futuro vedrà una larga parte della popolazione, quella che non avrà accesso, per impossibilità economiche, alle migliori scuole che creeranno le nuove figure professionali, più schiava che libera: persone destinatarie del reddito sociale e che andranno a creare quel settore del lavoro i cui salari saranno talmente bassi – o addirittura inesistenti – da far risultare il lavoratore umano più conveniente di una una macchina; e in quanto a docilità, la perdita del sussidio in caso di rifiuto a farsi sfruttare, la renderà estrema.
Non si tratta di condannare la tecnologia a priori, ma il punto è che il suo sviluppo si inserisce in un sistema capitalistico. Se non si tiene nel dovuto conto questo che è un dato fondamentale, si rischia di perdere la visione d’insieme.
1) Cfr. Collettivo Clash City Workers, La Germania incantata, Paginauno n. 53/2017