Cinema e letteratura come impegno sociale
(1ª parte) – Leggi la seconda parte qui
“Quei proletari che non hanno paura di prendere in mano un volume rilegato soffrono di certi svantaggi, rispetto ai lettori borghesi. Questi [...] possono, in un libro qualsiasi, veder specchiati se stessi o qualcuno che conoscono: nella letteratura contemporanea essi sono ampiamente rappresentati, mentre chi lavora a un tornio non lo è. Donne e uomini che lavorano non hanno il privilegio di vedersi rappresentati in maniera onesta e realistica nei romanzi.”
Alan Sillitoe, Times Literary Supplement, 1960
“Il popolo ha bisogno di una letteratura che non solo gli permetta di vedersi così com’è, ma che gli dia quel senso di dignità individuale che la cultura di massa, per sua stessa definizione, non è in grado di trasmettere. Marxisti e pubblicitari hanno questo in comune: per loro la gente è la ‘massa’, non gli ‘individui’ [...] I fondamenti delle storie sono gli individui, non i temi o gli eventi o i messaggi di vario tipo. Quelli che vivono e soffrono costituiscono l’unica totalità di cui valga la pena scrivere, per quanto superfluo possa essere affermarlo [...]. È solo con un simile atteggiamento che si può tentare di mostrare la loro intrinseca dignità e avvicinarsi ai loro problemi.”
Alan Sillitoe, Times Literary Supplement, 1960
Le acute riflessioni di Alan Sillitoe, nonostante siano state pubblicate nel 1960, sono più che mai attuali e invitano a verificare in che misura il cinema e la letteratura in Gran Bretagna abbiano affrontato il tema del lavoro e dato voce agli emarginati, ai diseredati, ai vecchi e nuovi poveri, a coloro che, dopo avere perso tutto nel proprio Paese, si vedono persino negare il diritto di esistere dai Paesi che dovrebbero accoglierli.
Già nel 1957 Lindsay Anderson, uno dei fondatori del British Free Cinema, lamentava che pochissimi film raccontavano gli operai e il loro senso di solidarietà collettiva e di appartenenza a un luogo. Oggi la tendenza non è cambiata e viene da pensare che nella critica di Anderson ci fosse anche il presentimento che i valori della classe operaia sarebbero stati spazzati via dal consumismo, dalle nuove dinamiche sociali nei rapporti interpersonali, dal mito del lavoro non come strumento di partecipazione sociale ma come mezzo per acquisire un prestigio personale basato sul successo economico.
Dagli anni ‘60 a oggi, invece di ascoltare la disperazione di chi non è riuscito a trovare una propria collocazione dignitosa nella società, la stragrande maggioranza di scrittori e registi (non solo britannici, ovviamente) ha preferito confezionare narrazioni accattivanti oppure nascondersi dietro a racconti fantastici o del soprannaturale. È stato facile dire che ciò è accaduto perché, essendo cambiato il mondo del lavoro (reso irreversibilmente precario dalle regole inique della globalizzazione), i cittadini non si riconoscono più in una classe sociale che li rappresenti e dunque non hanno più un’identità e un patrimonio di valori e, di conseguenza, film e romanzi hanno risentito di questo vuoto. Poiché qualche intellettuale si è costruito un proprio prestigio personale sostenendo che se non esiste più un’identità di classe con i suoi valori distintivi, allora è naturale che non esistano più nemmeno i problemi a essa legati.
Questa forma, più o meno occulta, di chiusura nei confronti di un’identità sociale evoca quello che è stato fatto con la scomparsa di centinaia di lingue. I Paesi occupanti, mentre prendevano possesso delle risorse naturali dei Paesi occupati, tendevano a sopprimere le lingue di quei popoli allo scopo di sottrargli l’arma di difesa più importante della loro ‘resistenza’: la comunicazione nella propria lingua. Si cancella una lingua per cancellare un’identità e, di conseguenza, un Paese. Qualcosa di analogo è accaduto quando è stata estromessa dalle narrazioni letterarie e cinematografiche un’intera fetta della società.
Quando si parla di globalizzazione dell’economia, raramente si pensa che quel processo non è nato per caso e non è iniziato nel momento in cui erano state perpetrate arbitrarie occupazioni di territori sovrani ma era già iniziato molto tempo prima costringendo determinati popoli ad abbandonare la loro lingua per parlare quella dei Paesi dominanti. Se dunque sono scomparse tante lingue nazionali, perché stupirsi se oggi spariscono dai dibattiti su temi sociali intere categorie di lavoratori e, con loro, tutti i diritti che quelle categorie difendevano? L’omologazione del mondo intero a un modello unico si è ormai quasi completata e, spesso, il cinema e la letteratura – che in realtà avrebbero il compito di esplorare tematiche sempre nuove – diventano strumenti per intrattenere e distogliere l’attenzione da quelle determinate tematiche. È tuttavia abbastanza rassicurante che, nel panorama del cinema e della letteratura in Gran Bretagna, emergano due nomi che in modo autorevole hanno saputo raccontare il mondo del lavoro: il regista inglese Ken Loach e lo scrittore scozzese William McIlvanney.
Quando ci avviciniamo alle storie e ai personaggi che prendono vita nelle loro opere, abbiamo la sensazione di essere testimoni partecipi di una nobile impresa di dimensioni epiche che si manifesta in una loro personale forma di resistenza contro l’annientamento della dignità umana, del valore del lavoro inteso come contributo che ogni individuo offre alla crescita e allo sviluppo di una comunità. Stiamo perdendo la percezione del lavoro come cemento di una società che ha bisogno delle abilità e delle competenze di ogni singolo individuo per progredire e rafforzare la consapevolezza di essere una collettività ma, per fortuna, Loach e McIlvanney hanno sostenuto questa visione del lavoro opponendosi all’ingannevole teoria secondo la quale, per risolvere la crisi del sistema industriale capitalistico, era necessario spostare il lavoro in Paesi in via di sviluppo (dove la mano d’opera costava molto meno) e convincere i lavoratori, con la favoletta che quello era l’unico modo di difendere l’occupazione, a rinunciare ai loro diritti perché erano diventati un ostacolo alla crescita economica.
Loach e McIlvanney, pur rifiutando questa assurda teoria, avevano capito subito che rimanere legati alla concezione delle classi era come finire in un vicolo cieco in quanto non era più sufficiente tutelare i diritti della classe operaia per difendere il mondo del lavoro nella sua complessità. Il vero pericolo era, e continua a esserlo oggi più che mai, la perdita totale della visione sociale e politica del lavoro come forma di partecipazione di ogni individuo alla vita collettiva. Alla luce dei più recenti passaggi legislativi verificatisi nel nostro Paese (vedi il famigerato Jobs Act), l’epoca della cosiddetta concertazione tra lavoratori, imprenditori e sindacati oggi ha un sapore nostalgico e ci porterebbe a rimpiangere un’epoca che certamente non è stata ideale ma, rispetto al presente, proponeva un modello che poteva essere perfezionato – non smantellato. Oggi, attraverso la restaurazione di un rapporto lavorativo di stampo medievale, è in corso una vera e propria guerra per la supremazia di pochissimi individui sul destino esistenziale della quasi totalità dei lavoratori.
Detto ciò, viene quindi spontaneo vedere i film di Loach e leggere i romanzi e i racconti di McIlvanney come ‘appelli’ a giovani registi e scrittori affinché si dedichino a fornire accurate rappresentazioni dei conflitti sociali e denuncino i modi in cui i dogmi dell’economia mondiale, con i suoi traumatici cambiamenti, hanno modificato i profili delle classi. Sarà fuorviante interrogarsi sull’esistenza o meno di una classe operaia così come si era sviluppata nella lunga fase dalla Rivoluzione industriale a oggi, però dobbiamo domandarci qual è il nuovo rapporto tra i padroni e tutte le più diverse categorie di lavoratori che sono nate nell’attuale mondo globalizzato, non hanno né un passato né un futuro e possiamo solo definirle, con un pizzico di romantica amarezza, il ‘nuovo lumpenproletariat’ in quanto, in effetti, qualsiasi lavoratore sotto la minaccia di una disoccupazione senza speranza non potrà mai più concepire il lavoro come mezzo di partecipazione alla vita collettiva ma lo vedrà solo come strumento di ricatto sociale e politico.
Siamo all’inizio del terzo millennio e le condizioni dei lavoratori, rispetto ai periodi di grandi crisi economiche del Novecento, non sono affatto migliorate. Chi racconterà questa sofferenza che, purtroppo, l’arte e la cultura stanno evitando di rappresentare? È tuttavia confortante vedere che Loach e McIlvanney – coerenti nel raccontare storie poco trendy per il mercato cinematografico ed editoriale, storie popolate di operai, disoccupati e perdenti di ogni tipo – osservano la società occidentale per capirne le mistificazioni mascherate da finto benessere e individuare i profili caratteriali, culturali ed economici dei nouveaux pauvres. La loro difesa della dignità dell’individuo rappresenta la barriera ultima da erigere per organizzare una ‘nuova resistenza’.
Per apprezzare la tensione intellettuale di Loach e McIlvanney è doveroso chiedersi se l’attuale scarso interesse del cinema e della letteratura per il mondo del lavoro sia davvero dovuto al fatto che non sia trendy parlare di fabbriche, tute sporche, processi di lavorazione o se, piuttosto, scrittori e registi siano troppo attenti a non irritare editori, produttori e pubblico con tematiche che costringono a riflettere.
Tra i primi anni Settanta (al tempo degli scioperi dei portuali) e la fine degli anni Ottanta (quando si completò il disegno di restaurazione voluto dai vari governi Thatcher) ci furono aspri conflitti sociali e politici in Gran Bretagna che sfociarono anche in atti di guerriglia urbana (Brixton, per citare l’esempio più clamoroso). In quel clima di tensione, pochissimi intellettuali, scrittori e registi si interrogarono sul fatto che non esisteva più una classe operaia britannica esclusivamente bianca e maschile bensì una galassia multietnica di lavoratori e lavoratrici che, provenendo da situazioni assai diverse, nutrivano un senso di solidarietà meno forte e possedevano una capacità collettiva meno incisiva nel far valere le loro rivendicazioni.
Prima di entrare nel merito di alcune opere di Loach e McIlvanney, proviamo a definire i termini di impegno civile da parte di scrittori e registi (in generale, non solo in relazione alla cultura britannica). Si potrebbe dire che l’impegno non riguarda tanto i contenuti delle opere e la libertà creativa quanto, piuttosto, un forte senso di responsabilità civile che spinge l’autore a essere partecipe della vita collettiva. La qualità dell’impegno civile si evidenzia nel livello di coinvolgimento personale, prima di tutto come cittadino e poi come scrittore o regista, nelle questioni concrete della vita quotidiana.
Lasciamo da parte l’impegno fondato su presupposti ideologici (nel qual caso, allora, sarebbe più corretto parlare di militanza). Parliamo di impegno civile che implica una sensibilità e una disponibilità a esaminare situazioni sempre nuove che la società non è ancora preparata a metabolizzare (si veda, per esempio, le nuove frontiere del pensiero sociale sui problemi del nucleare, delle energie alternative, dell’ambiente, della fecondazione assistita).
L’universalità di un tema viene determinata dalla capacità di scrittori e registi di contestualizzare storicamente sentimenti e comportamenti: in quel caso un’opera, sia letteraria sia cinematografica, diventa un documento utile per comprendere lo spirito dell’epoca in cui quell’opera è stata concepita e realizzata. I film di Loach e i romanzi e racconti di McIlvanney sono, appunto, documenti illuminanti dell’epoca in cui sono stati prodotti. Gli eroi di Loach (vedi Raining Stones o Ladybird Ladybird) e McIlvanney (vedi Docherty o The Big Man) sono, in sostanza, figure tipiche del loro tempo in conflitto con il thatcherismo ma sono destinati a diventare universali.
L’impegno, in sostanza, viene definito dai rapporti che lo scrittore e il regista intrattengono con i loro colleghi, con il loro pubblico, con la società, con i rappresentanti del Potere, rispetto alle questioni di politica economica, sanitaria, ambientale, giudiziaria, internazionale, e da quanto essi siano compromessi, o non, con il Sistema. Dico questo perché vi sono, infatti, artisti e intellettuali che proclamano di combattere contro qualsiasi forma di ingiustizia e si ergono a paladini dei diritti civili ma in realtà godono dei privilegi derivanti dalla loro professione e il loro impegno, inevitabilmente, assume connotazioni ambigue.
In altre parole, l’impegno non sta nelle parole o negli scritti o nei film ma nel reale coinvolgimento, come cittadini, nelle problematiche sociali.
Sartre distingueva tra coinvolgimento e impegno. Il coinvolgimento, di natura prevalentemente emotiva, è innato in tutti gli artisti. L’impegno, invece, comporta una scelta razionale e la creatività dell’artista diventa strumento consapevole di crescita collettiva. Il puro e semplice coinvolgimento emotivo senza l’impegno rischia di essere un atteggiamento fine a se stesso. In Loach e Mcllvanney coinvolgimento emotivo e impegno coincidono e diventano un tutt’uno in nome del rispetto di un codice deontologico non scritto che condanna le mistificazioni di quegli scrittori e quei registi che si proclamano impegnati ma non lo sono affatto. Si pensi al pericolo di creare opere che Baudrillard chiamava ‘simulacri’, ossia rappresentazioni letterarie e cinematografiche della realtà che dovrebbero avvertirci di un pericolo e invece ci spingono morbosamente a infatuarcene (vedi certa letteratura e certo cinema che, con il pretesto di raccontare gli orrori del nazismo o di qualsiasi guerra, ne hanno fatto un’ambigua apologia).
Baudrillard sosteneva inoltre che la percezione di registi e scrittori degli anni Ottanta aveva generato una iper-realtà in cui l’immagine immediata, esteriore, evocava soltanto un’ingannevole profondità che era invece totalmente assente. Le immagini non avevano un contenuto interiore e le coscienze individuali non avevano un punto di riferimento certo, affidabile. Nella sua visione profetica, il sociologo francese avvertiva il rischio concreto di un futuro virtuale in cui il Potere sarebbe stato saldamente nelle mani di chi poteva cancellare il senso delle origini e dell’autenticità e avrebbe avuto i mezzi per sfruttare il presente a proprio totale vantaggio come, per esempio, quello di cancellare – come si diceva prima – una produzione letteraria e cinematografica che parla del lavoro (ossia, estremizzando, basta dire: il cinema e la letteratura non parlano del lavoro perché non esistono tematiche del lavoro). Forse è proprio a causa di un diffuso senso di rassegnazione e di rinuncia a svolgere un ruolo di osservatori e commentatori della società che molti scrittori e registi si sono affannati a escogitare nuovi generi narrativi per esprimere il loro sbigottimento senza dover raccontare la realtà. Ma questa rassegnazione, per fortuna, non è nelle corde di Loach e McIlvanney.
Il puro e semplice buon senso ci dovrebbe spingere a prendere atto che qualsiasi ideologia ha intrinseche contraddizioni ineliminabili a causa dell’evolversi imprevedibile delle società contemporanee e che pertanto l’impegno dello scrittore e del regista deve dipendere esclusivamente dal loro percorso di esperienze personali, da confronti e scontri con l’ambiente. Il loro compito è di rappresentare la realtà al fine di impedire che chi detiene il potere politico, economico e finanziario, alteri la realtà per controllare e pilotare l’opinione dei cittadini. I registi del British Free Cinema e gli Angry Young Men erano polemici e critici anche quando indulgevano nella retorica della cultura operaia e non hanno mai generato un senso di appagamento consolatorio.
Nel cinema britannico degli anni Cinquanta-Sessanta non è successo quello che temeva Walter Benjamin (il quale anticipava i timori di Baudrillard) parlando della fotografia: “È sempre più moderna, sottile, sofisticata, ma il risultato è che non riesce più a ritrarre un condominio o un mucchio di calcinacci senza trasfigurarli. Di fronte a foto del genere, si può dire che bello! È riuscita solo a trasformare la miseria e la povertà in immagini tecnicamente perfette e a trasformare la lotta contro la miseria in un oggetto di consumo.”
I registi del Free Cinema erano liberi perché erano fuori dalla logica dell’industria cinematografica e nei loro film il mondo operaio non si è mai trasformato in vuota retorica che evoca immagini prive di significato. Loach e Mcllvanney non hanno mai ceduto alla nostalgia per un mondo i cui valori si sono perduti. Il loro grande merito è stato di esprimere giudizi con misura seguendo il principio che, nell’osservazione della società, non è importante il come la si rappresenta ma il perché lo si fa. Questo principio spiega efficacemente che cosa dovrebbe significare ‘impegno’ per uno scrittore o un regista o chiunque abbia la responsabilità (e il privilegio) di esprimere ufficialmente opinioni e sentimenti per un pubblico che ha bisogno di una guida. Molti artisti, purtroppo, rinunciano a raccontare la vita di coloro che non hanno il potere di far sentire la loro voce e accettano di spacciare una rappresentazione della realtà che fa comodo al sistema.
L’impegno, dunque, implica una lotta immane contro coloro che vogliono imporre l’inganno di una realtà virtuale consolatoria. Il merito di Loach e McIlvanney sta proprio nel non essersi rassegnati e nel continuare a raccontare storie ‘reali’ a dispetto di ciò che potevano dire i critici. Nel caso specifico di Loach, spesso i suoi film vennero giudicati “esteticamente scadenti e discontinui nella costruzione narrativa”. (Anche il lavoro del critico ha i suoi lati oscuri, soprattutto quando le categorie dei valori estetico e strutturale servono astutamente per non mettere in risalto il contenuto sociale e politico più profondo di un romanzo o di un film.)
(1ª parte) – Leggi la seconda parte qui