di Sabrina Campolongo |
Recensione di Ognuno muore solo, Hans Fallada
Quando Rudolf Ditzen, meglio noto con il nom de plume di Hans Fallada, accettò la proposta, nel 1946, di scrivere un romanzo basato sulla vera storia dei coniugi Otto ed Elise Hampel (che diventeranno Otto e Anna Quangel), arrestati e giustiziati dal regime nazista per aver disseminato le scale dei palazzi di Berlino di cartoline anonime che invitavano i tedeschi ad aprire gli occhi e boicottare il Fuhrer, forse avrebbe preferito ritrovare, in quella coppia di individui, i tratti della grandezza e dell’eroismo, o nella loro squinternata impresa il germe di un imprevedibile cambiamento. Forse fu deluso, scoprendo che i due erano stati convinti sostenitori di Hitler fino al 1940 (fino alla morte sul fronte del fratello di Elise/Anna), molto probabilmente lo fu quando apprese che le cartoline scritte dagli Hampel (d’ora in poi li chiamerò Quangel, come nel romanzo) furono consegnate, praticamente tutte, alle autorità. I tedeschi che le incontravano sul loro cammino le portavano, con grande solerzia, al più vicino commissariato. Il loro potere rivoluzionario fu dunque nullo, o quasi.
Ciò nonostante, Hans Fallada scrisse, a partire da due individui così ordinari, e da una ribellione così poco significativa, quello che Primo Levi definì – e non mi sento di dargli torto – il più grande romanzo sulla resistenza tedesca al regime nazista, e lo intitolò: Ognuno muore solo. Uscito per la prima volta nel 1947, pubblicato in Italia da Einaudi ma ormai introvabile da qualche anno, oggi torna finalmente tra gli scaffali delle librerie grazie a Sellerio.
Forse perché la posizione di Fallada era stata, per tutta la vita, difficile e ambigua rispetto al regime, perché la sua resistenza – che pure fu sufficiente a metterlo nei guai più di una volta – non fu totale e decisa ma, anzi, frammezzata da momenti di collaborazionismo che lo macchiarono ai suoi stessi occhi di una colpa dura da cancellare, il suo ritratto dei Quangel, dipinto senza retorica e senza mistificazioni, appare incredibilmente vivido e potente.
Fallada riesce ad appassionare il lettore al destino di questi due esseri umani senza rivestirli di caratteristiche straordinarie, intellettuali o morali, e senza caricarli di altre motivazioni se non quella di voler restare persone perbene. L’unica modifica sostanziale che Fallada opera nell’esistenza degli Hampel, distillandoli nei Quangel, è il dono di un figlio, la cui morte sarà l’evento di svolta.
Quando Otto, padre poco presente e uomo poco incline al sentimentalismo, si sente rivolgere dall’adorata – a modo suo – moglie Anna, lo sguardo stravolto dal dolore e il dito puntato, la frase: «Il tuo Hitler!», la vita per lui non potrà più essere la stessa.
Come se già portasse scritta in faccia la decisione non ancora presa, poche ore dopo si vede confessare dalla mancata nuora Trudel la sua adesione a una cellula segreta comunista e, prima che venga notte, si ritrova nell’appartamento una vecchia ebrea da nascondere e proteggere. La sua esistenza, fondata fino a quel momento sul lavoro, sulla ripetizione delle consuetudini e sul rapporto esclusivo con la moglie, non rimane indenne, la spina nel fianco duole ancor più della perdita del proprio sangue.
Improvvisamente, Otto Quangel vede. Da uomo tutto d’un pezzo qual è, sa che gli sarà impossibile abbassare o distogliere di nuovo lo sguardo; d’ora in poi è condannato a vedere tutti gli errori e gli orrori messi in atto dal regime nazista, e vedendoli non potrà più tacere.
L’idea di proteggere Anna, a cui pur tiene più che a qualunque altra cosa, tenendola fuori dal suo progetto, non gli passa nemmeno per la mente. Il nucleo della loro coppia non è in discussione, non può esserlo e, oltretutto, Otto sa bene che lei non glielo concederebbe mai.
Ciò nonostante, la prima reazione di Anna, quando lui le rivela il piano, è venata di delusione. La stessa che può provare il lettore, dopo aver seguito Otto lungo tutta una difficile giornata trapuntata di dolorose riflessioni: alla fine, si tratta solo di seminare in giro cartoline che parlano male del regime?
Eppure, fa notare Otto (ad Anna ma anche al lettore), un atto del genere porta inevitabilmente alla forca. Si può immaginare un prezzo più alto della propria vita, per aver vo luto contrastare un’ingiustizia? E poi c’è il sogno – che si rivelerà un’ingenua fantasia – di altre persone che, trovando sulla propria strada quelle cartoline, possano sentirsi meno sole e che, forse, prendano a loro volta il coraggio di mettere in atto il proprio ‘no’ al regime; c’è l’ingenua speranza di una palla di neve che scivolando lungo il pendio si trasformi in valanga, una valanga in grado di far crollare Hitler e mettere fine alla guerra.
I coniugi Quangel si immaginano, nel silenzio domenicale della loro cucina, come i primi, quelli che soli sapranno di aver acceso la scintilla della rivoluzione. Questo pensiero esiziale cambia per sempre il sapore del loro presente, che scorre inalterato solo in superficie, e del loro futuro.
Ma non ci sarà nessuna rivoluzione, nemmeno una vera rivolta. La resistenza tedesca, nella Storia, come nel romanzo di Fallada, è destinata a un sostanziale fallimento. Le piccole cellule comuniste, così come i resistenti solitari alla stregua dei Quangel, come anche la più colta comunità di intellettuali ostili al regime, si troveranno isolati e inefficaci come piantine di grano in un campo invaso dal loglio. Ciò che impedisce alla buona semente di germinare è l’essenza stessa del nazismo: il veleno della paura.
Una paura endemica, totale, solida come una pietra che ogni tedesco si porta appesa al collo. Nessuno può sentirsi davvero al sicuro, nessuno può considerarsi immune, come mostrano le alterne fortune dei simpatizzanti del regime, reali o presunti, che si incontrano nel romanzo: l’attore ex pupillo di Goebel (difficile non vedervi il volto del Mephisto di Klaus Mann), il capofamiglia nazista Persicke, condannato a morte dal suo stesso figlio, e soprattutto il commissario Escherich, l’ufficiale della Gestapo incaricato di indagare sul caso delle cartoline. La sua vicenda (totale frutto della fantasia di Hans Fallada) è esemplare.
Quando il lettore lo incontra per la prima volta, Escherich si presenta come un tecnico, un professionista dalla testa fina, che non agisce spinto da motivazioni etiche e, allo stesso tempo, non è ostacolato da alcuno scrupolo di coscienza. L’ambizione lo supporta, ma la vera forza che lo muove è il piacere, scientifico si può dire, di venire a capo del mistero. Come un bravo giocatore di scacchi (e il riferimento agli scacchi tornerà prima della conclusione del romanzo, grazie al personaggio del direttore d’orchestra Reichhardt che Otto Quangel incontrerà in prigione), non ha fretta di arrivare alla vittoria, trova anzi gusto nel mettersi in gioco, nel prevedere le mosse dell’avversario, di cui sa anche apprezzare l’inventiva. Il suo lento e sistematico procedere nelle indagini subisce una brusca svolta allorché i gerarchi sopra di lui, esasperati dall’impotenza del Sistema contro un piccolo uomo, pretendono una immediata quanto impossibile soluzione al caso. Escherich reagisce proprio come un giocatore a cui viene chiesto di concludere una partita giocata solo a metà: appoggiando le carte sul tavolo e chiamandosene fuori. Il suo errore, che gli risulta quasi fatale, sta nel credere di poterlo fare, nel pensare cioè di essere all’interno di un gioco con regole condivise e pertanto al sicuro. Solo ritrovandosi a sputare i propri denti, nel buio di una cella, la vita appesa davvero a un filo invisibile, Escherich farà conoscenza con la vera paura, quella che congela il sangue, rendendosi conto che gli può succedere davvero di tutto, per qualunque o nessuna ragione. Quella paura, Escherich non riuscirà più a levarsela di dosso, nemmeno quando riavrà il suo incarico e il discutibile prestigio relativo, persino quando riuscirà a vincere la sua partita, ad arrestare il “pilota fantasma”. Anzi, trovarsi finalmente di fronte Otto Quangel sarà per Escherich una prova terribile. Leggergli in viso la sua integrità, sentirsi dire senza nessun timore che cosa è diventato lui, l’uomo di legge ora sgherro di un assassino, porterà il suo disgusto di sé oltre il limite del tollerabile. Forse potrebbe ancora mettere a tacere la voce della coscienza, se non portasse incisa nella carne la consapevolezza che nemmeno il fatto di essersi sporcato le mani con il sangue di innocenti gli potrà offrire una qualche garanzia di non ritrovarsi ancora, un domani o il giorno stesso, sbattuto in una cantina con le ossa rotte. Di fronte a questa prospettiva, quella di una vita nel terrore, Escherich si spara alla tempia.
Altri personaggi tenteranno vie diverse, ma altrettanto perdenti, per provare a dimenticare la paura. La strada sarà quella del torpore, dell’anestesia, cercati spesso con aiuti artificiali come l’alcool o la morfina, per Persicke e per il medico con la moglie dall’aria non particolarmente ebrea e il passaporto falso; sarà la fuga in campagna e l’isolamento nel mondo degli affetti per Trudel Baumann e il nuovo marito Hergesell; sarà il lavoro a testa china per la vedova Haberle, l’egoismo predatorio delle spie per Emil Borkausen, le scommesse e le donne per Enno Kluge. Ma nessuno si salverà, tutti verranno raggiunti e ghermiti.
L’ampio affresco dipinto da Hans Fallada porta fino a noi l’immagine vivida di un girone infernale che mantiene soltanto l’apparenza di una struttura civile, una maschera che non convince più nessuno. A quel punto ogni tedesco dovrebbe aver compreso che non basta salire sul carro dei potenti, come non serve allontanarsene: non c’è scampo per l’individuo isolato, solo l’unione potrebbe forse fare una differenza, eppure tutti hanno troppa paura anche solo per leggere fino alla fine le cartoline di Otto Quangel. La paura ha creato un popolo di disillusi e di delatori. La valanga non ci sarà, la piccola palla di neve continuerà a rotolare solitaria fino a precipitare nel burrone, accompagnata da ben pochi sguardi benevoli.
Eppure. Se oggi possiamo leggere e comprendere la Germania nazista attraverso un romanzo della potenza di Ognuno muore solo, è grazie al fatto che un giorno due individui non particolarmente brillanti né carismatici, un certo Otto Hampel e la moglie Elise, hanno deciso di usare la penna contro il regime; forse non del tutto consapevoli che le cartoline imbastite faticosamente sul tavolo della cucina avrebbero firmato la loro condanna a morte, forse mossi soltanto dal pensiero che qualcosa si doveva pur fare.
Può darsi, si domanda Fallada nella postfazione, che la loro lotta non fosse del tutto senza speranza? Può darsi che non sia successo del tutto inutilmente?
Ognuno muore solo, Hans Fallada, Sellerio, 2010