di Luciana Viarengo |
Recensione di Piove all’insù di Luca Rastello
L’effetto è un po’ quello di un film per il quale il regista ha scelto una sperimentale soluzione di montaggio tra sequenze in super8, 35mm e frame digitali; oppure quello di un album fotografico nel quale non ci si è presi la briga di rispettare un ordine cronologico e le pagine sono state riempite con un collage di scatti, paesaggi ormai rossastri cristallizzati nell’obiettivo di una vecchia kodak instamatic, ritratti intensi in bianco e nero rubati dalla prima reflex, polaroid contrastate – tante e vive – e figure sgranate ritagliate dai quotidiani. La prima e l’ultima immagine, il protagonista che scrive una e-mail, sono rigorosamente in digitale.
E’ così che Luca Rastello, nel suo Piove all’insù, ci trascina in lungo e in largo per il ventennio che va dal ’58 al ’78 permettendoci soste più lunghe, per nulla riposanti, negli ultimi due anni. Lo fa giocando con i piani temporali, raccontando e ritornando su identiche sequenze, ma cambiando angolazione, luci, inquadrature e regalando così al lettore, di volta in volta, nuovi tasselli con i quali comporre la storia che Pietro Miasco, il protagonista, vuole raccontare – compresi quattro Urania, simboli di un clima psichedelico che va ben al di là della passione per la fantascienza – alla sua compagna, appena licenziata dopo 15 anni di lavoro.
E’ questa la foto digitale che inquadra immediatamente il punto di partenza dell’autore e la promessa implicita del suo libro: sondare e cercare di comprendere fino a dove affondano le radici della nostra critica situazione attuale.
Per fare questo, Pietro racconta qualcosa che ha finora taciuto anche alla sua compagna, racconta quegli anni, con gli amori, le amicizie, l’impegno politico, il chiodo del sesso, la famiglia, le crisi e i segreti celati sotto la superficie. Tutto strettamente intrecciato alla storia del paese. Ci sono pagine dove, con rimandi di poche parole, Rastello condensa eventi che costituiscono la memoria storica di tutti noi, e lo fa con tale abilità, da riuscire a strapparci un sorriso amaro.
“Certi giudizi mia madre li provava a cena, davanti alla televisione, poi li perfezionava e li lasciava andare in salotto, ovviamente un po’ smorzati. Mi ricordo il ballerino, quindi di certo omosessuale – che cosa vuol dire omosessuale? – e fra l’altro epilettico – mamma, cosa vuol dire epilettico? – che di sicuro era stato lui perché uno così che cosa può fare se non vendicarsi della vita con una bomba in una banca […] E quella faccia lì del ballerino epilettico (dev’essere una cosa che ha a che fare con la droga) sui giornali, con gli occhi sparati avanti a dire ‘Sono stato io. E allora?’, e la barba lunga e il taxista che diceva che era proprio lui, l’aveva portato fino alla banca con la borsa delle bombe. Come i Bassotti”.
E siamo tutti lì, davanti al piatto di minestra, riascoltando le parole con le quali i nostri genitori ci spingevano inconsapevolmente a far parte di quella immensa giuria nazionale che aveva già espresso la sua condanna, da subito e senza appello .
Pietro è troppo giovane per aver vissuto il ’68, la sua coscienza politica matura a Torino – seconda colonna del terrorismo rosso – a metà degli anni Settanta, quando ogni speranza e ogni entusiasmo appaiono illividiti e sembra sempre più difficile mantenere vivo l’ottimismo rivoluzionario della contestazione iniziale. Tuttavia, per questa generazione di mezzo, l’imperativo di costruire un mondo nuovo era ancora reale e credibile, così come reale e credibile era la certezza di farcela; per qualcuno, a ogni costo.
Impegnati con Pietro in questa missione impossibile, una girandola di amici, compagni di scuola, mentori, resi vivi e intensi dalla scrittura immediata, sensibile, ironica, capace di diventare intensa quando necessario.
Nella narrazione di un episodio, fra digressioni, pensieri e ricordi che si attorcigliano intorno al fulcro iniziale, Pietro ci regala la sensazione di essere davanti a noi, seduto a parlare di cose che conosciamo bene, perché tante di queste ci appartengono, se siamo nati biologicamente e politicamente in quel ventennio.
Il suo modo di parlarne è un codice che ci attiene; l’involontario affetto che traspare nel suo raccontarsi lungo il corso degli anni Sessanta, mentre gioca a pallone nel corridoio di casa e origlia dopo cena i discorsi degli adulti, è lo stesso che ciascuno di noi prova nei confronti del proprio io bambino; il suo senso di inadeguatezza fisica e intellettuale, di fronte alle istanze rivoluzionarie, riporta inevitabilmente molti di noi alla paralisi provata negli anni di liceo davanti al desiderio, frustrato dal terrore, di intervenire ai collettivi o all’immenso bianco di un tazebao da riempire a colpi di rabbia e lampostil, affidandosi alla rassicurante retorica rivoluzionaria; il suo accettare/subire un particolare ménage a trois con due coetanee consenzienti non può non ricordarci i rapporti di quegli anni, un misto di sperimentazione e di furioso desiderio di uscire dagli schemi salvo accorgerci, come lui, che l’Uomo Nuovo era ancora di là da venire.
L’identificazione da parte di un lettore coetaneo è resa ancor più facile dal ruolo di gregario che questi ricopre nel suo attivismo politico, dalla sua partecipazione un po’ marginale che ha accomunato i più; dalla presa di coscienza che la scelta delle P38 non poteva essere condivisibile, nonostante il fascino della “geometrica potenza, e come puoi resistere a una formula che dice che la forza che senti scorrere nelle tue braccia nelle gambe e nell’asfalto della strada che si alza sotto le tue scarpe di gomma è forza lucida di metallo, coerente e meccanica e che può spaccare il mondo? Come si fa a resistere al fascino di una potente intuizione geometrica?”
Uno dei pregi del romanzo, nel quale l’ambiente familiare è tuttavia portante sia dal punto di vista strutturale che di trama, è quello di non inquadrare il conflitto generazionale come una causa, ma semmai come un effetto di quello politico e sociale.
Lo scandaglio di certe situazioni conflittuali genitori-figli non appare mai come un tentativo di ridurre a privato l’esperienza collettiva di quegli anni – come ben sappiamo “il privato è politico”! – né di stemperarne l’asprezza.
Causa di disagio profondo è piuttosto lo scontro generazionale in campo politico, quando i padri della sinistra parlamentare – quella che ha scelto “il governo dell’astensione. Uno strano sapore di sacrestia, ma faccio confusione con l’astinenza, credo: il generoso dono dei comunisti al paese” – si rivelano assolutamente incapaci di comprendere i propri figli e viceversa, e il risultato di questa crisi ha un respiro ben più epico di un dramma familiare piccolo-borghese.
“Viene, la mattina del 15 febbraio. Con un servizio d’ordine di operai veri, nervosi, giganteschi. C’è calca elettricità, emozioni, gente che piange mentre quello parla della sua democrazia da fatica, atterrato là in mezzo con la sua enorme astronave, e il mito operaio, il mito di tutti che ti cala sul collo e ti spezza le vertebre. Gli altoparlanti rombano talmente forte che anche se gli studenti volessero ascoltare quel padre enorme che urla, non riuscirebbero: è il rumore che conta, il muro di suono che indica, oltre sé stesso, un principio d’ordine. Grandi operai si staccano dal servizio d’ordine, hanno pennelli e secchi di vernice bianca e coprono le scritte nei corridoi, nei cessi, sui muri esterni, i graffiti colorati che avevano trasformato in conversazione le pareti di quel santuario, e mentre quelli verniciano via, Lama dice che bisogna salvare le università come gli operai del 43 salvarono lo fabbriche, ehi mi stai dando del nazista […] In fondo a quella folla colorata saltano i nervi degli operai, tic tac, si sentiva lo schiocco, e il primo è uno con un estintore: preme la leva, si alza la nuvola bianca in avanti, come un segnale di carica, il servizio d’ordine del Pci parte all’attacco, volano assi, si vedono le mazze mulinare, si spezzano ossa, teste persino. Poi si fermano spaventati di sé, davanti a studenti spaventati dalla rabbia che sentono salire dentro il petto, dalla forza che sentono salire dalla rabbia. C’è un istante sospeso. Un silenzio selvatico nel mezzo d’un mattino di furia, nel mezzo d’una città velenosa. […] Dura un momento soltanto, poi è un’onda immensa, sacrilega, l’onda dei figli che travolgono i padri”.
La scelta di trama di coinvolgere il padre di Pietro, militare di carriera, in una delle pagine nere della storia italiana – il tentato golpe Borghese – poteva rappresentare un’irresistibile tentazione a riportare tutto sul piano della crisi interiore e interna alla famiglia, una scorciatoia imboccata da altri scrittori. Ma Rastello non ne approfitta; in ogni scorcio di vita familiare si incrociano sempre sguardi più ampi sul mondo esterno e sui protagonisti della storia di quegli anni, attraverso le conversazioni origliate da Pietro o la presenza invasiva del telegiornale, prologo della più massiccia invasione mediatica degli anni a venire.
Questo ponte con le vicende paterne servirà, alla fine della narrazione di Pietro, a dimostrare come certi uomini siano in grado di fare i conti con un passato difficile, senza tradire i propri valori e senza rinnegare gli errori che, secondo la propria etica, è stato inevitabile se non necessario commettere.
E così nel suo racconto, Pietro non elude nulla, né la lotta armata, né la deriva dell’eroina di massa, e non cade neppure nella tentazione, comune a molti protagonisti di allora, di rimuovere l’esperienza di quegli anni come un incubo o di assolversi con la sua riduzione a “errore di gioventù”. E va ancora oltre, arrivando al punto di leggerla come estremo tentativo di arginare l’onda torbida e avvelenata che ci ha spiaggiati su questo presente, fatto di incertezza e disimpegno, in cui sono crollati due capisaldi della rivoluzione di quegli anni, il corpo e il lavoro, oggi sviliti rispettivamente dalla compulsione dell’apparire e dalle secche del precariato, liturgie del Moloch al quale tutto e tutti sono stati e sono costantemente sacrificati.
Proprio a metà di quegli anni Pasolini, precisamente nel novembre 1974 dalle pagine del Corriere della Sera, lanciava il suo messaggio sul post ’68, impossibile da ignorare per chiunque abbia voluto o voglia scrivere di quegli anni.
“[…] Io so, perché sono un intellettuale, uno scrittore, che cerca di seguire tutto ciò che succede, di conoscere tutto ciò che se ne scrive, di immaginare tutto ciò che non si sa o che si tace; che coordina fatti anche lontani, che rimette insieme i pezzi disorganizzati e frammentari di un intero e coerente quadro politico, che ristabilisce la logica là dove sembrano regnare l’arbitrarietà, la follia e il mistero”.
La sensazione è che Luca Rastello condivida e trasformi in atto pratico questo sentire. Lo dimostra il desiderio di liberare quegli anni dall’etichetta di “anni di piombo”, che ha finito per schiacciarli sotto il piombo di una condanna tout-court. Lo dimostra la convinzione di Pietro Miasco: negli anni Settanta, il vuoto di potere lasciato dalla politica di astensione e di compromesso della sinistra ha permesso la gestazione dell’attuale situazione politica, economica e sociale italiana, perché i giovani rivoluzionari degli anni Settanta sono “corpi nudi, scossi da un moto di angoscia, come di partorienti fecondate da un mostro […] Quel paradiso flessibile, questo paradiso flessibile in cui ora vivi, una massa dei miei coetanei l’ha smascherato fin dal principio, anzi l’ha smascherato a priori, semplicemente annegando, ed è per questo che i morti di quella generazione sono i più dimenticati: sono morti di parto”.
Rastello ce lo racconta con passione, tenerezza e disperazione per quel che poteva essere e non è stato, offrendoci in molte belle pagine l’opportunità di riflettere, una volta di più, sui rischi di una politica che si allontana dalla parte più viva e partecipe della società, che resta sorda al dissenso e disconosce la forza delle manifestazioni popolari o, peggio, ascrive le divergenze a “schegge dell’estrema sinistra che rifiutano la politica e la non-violenza”.
Il rebus finale proposto da Pietro Miasco alla sua compagna è un piccolo sigillo che sembra volerle (volerci?) indicare un percorso ideale e salvifico.
Piove all’insù, Luca Rastello, Bollati Boringhieri, 2006