Recensione dei film The dinner, Oren Moverman (2017) e I nostri ragazzi, Ivano De Matteo (2014)
Difficile pensare di poter trarre un film da un romanzo complesso come La cena di Herman Koch. Eppure ben due registi hanno deciso di cimentarsi in questa prova (1), ottenendo risultati molto distanti tra loro, frutto di differenti scelte stilistiche e accenti tematici. Sì, perché The dinner (2017) di Oren Moverman non può assolutamente considerarsi una sorta di remake de I nostri ragazzi (2014) di Ivano De Matteo. Al centro ci sono sempre due coppie di genitori altoborghesi, imparentate in quanto gli uomini sono fratelli, sconvolte dalla scoperta che i rispettivi figli, ragazzini di sedici anni, hanno ucciso una senzatetto al ritorno da una notte di bagordi. Una telecamera di sicurezza ha ripreso il fatto, e il video è stato mandato in onda da un programma televisivo, ma le immagini non sono nitide, c’è ancora la possibilità che i responsabili non vengano identificati. Si impone allora il dilemma se denunciare o meno i due giovani, dove la morale entra in conflitto con la componente più atavica dell’amore che si prova verso i propri figli.
A differenza di De Matteo, Moverman ricerca una fedeltà pressoché totale al libro, tanto che alcuni dialoghi sembrano riportati direttamente nel film dalla pagina stampata. E proprio qui sta il problema. Ciò che funziona in narrativa non sempre ha lo stesso effetto nel cinema. Sicché la scelta di ambientare tutta l’azione nel ristorante di lusso in cui le due coppie dovrebbero giungere a una decisione in merito ai propri figli – fanno eccezione dei flashback attraverso cui vengono descritti l’omicidio della senzatetto e alcuni eventi cardine nella vita delle due famiglie – finisce per esasperare lo spettatore.
Questo non significa che non sia possibile realizzare ottimi film girati interamente o quasi in un unico ambiente, anche molto ristretto. Si pensi a L’angelo sterminatore (1962) di Luis Buñuel, con cui l’opera di Koch ha molto da spartire nella sua denuncia dei vizi e delle ipocrisie della classe borghese. Ma anche al più recente Il colpevole (2018) di Gustav Möller, vincitore dell’Audience Award al Sundance Film Festival. In questo caso, in particolare, risulta evidente come sia possibile mantenere un altissimo livello di tensione anche solo mostrando il protagonista chiuso in una stanza per circa un’ora e mezza – più precisamente, un poliziotto che tenta di soccorre l’apparente vittima di un rapimento, dialogando telefonicamente con lei, il suo aguzzino e alcuni colleghi – in un’applicazione meticolosa delle unità aristoteliche di spazio, tempo e luogo. La stessa tensione caratterizza il romanzo di Koch, ma è assente nel lavoro di Moverman, che si trascina stancamente da uno all’altro dei capitoli atti a scandirne la visione: Aperitivo, Antipasto,
Primo piatto, Secondo piatto, Dessert, Digestivo, Mancia. Un’identica suddivisione in parti si ritrova nell’opera di Koch. Ma allora sorge spontanea una domanda: se ci sono tanti punti di contatto tra la struttura del film e quella libro, com’è che i due lavori risultano essere così diversi sul piano qualitativo? Fermo restando quanto accennato in precedenza – ciò che funziona in narrativa non sempre ha lo stesso effetto nel cinema – i problemi maggiori si riscontrano soprattutto nelle piccole/grandi differenze, le quali si ripercuotono negativamente non solo sulla forma, ma anche sul contenuto.
A questo proposito, basti pensare alla lettura che Moverman dà del personaggio di Paul (Steeve Coogan). A uno sguardo superficiale, sembrerebbe coincidere col narratore – molto spesso inattendibile – di Koch. Entrambi i Paul hanno difficoltà a relazionarsi con gli altri, giudicati, in generale, privi di intelligenza e meschini, con la sola eccezione della moglie Claire (Laura Linney) e del figlio Michael (Charlie Plummer). In particolare, Paul non sopporta suo fratello Stan (Richard Gere), candidato alle elezioni, al quale rimprovera soprattutto la falsità e l’ipocrisia. È questa una delle assi portanti dell’opera di Koch – il rapporto tra verità e apparenza – presente anche nel lavoro di Moverman, dove, tuttavia, permane nello spettatore un’impressione di artificiosità, destinata ad accentuarsi mano a mano che il film procede.
Naturalmente un certo effetto grottesco era voluto anche nel libro. Basti pensare al personaggio del maître che si spertica in lunghissime spiegazioni su ogni singolo piatto servito al tavolo dei Lohman – questo il cognome delle due famiglie – a cominciare dalla ciotola di olive con cui viene accompagnato l’aperitivo. Rigidità e affettazione che rimandano al concetto di maschera – in linea con la passione di Stan per i vini, la quale è, in realtà, solo una trovata elettorale per ‘umanizzarlo’ agli occhi dei votanti. Ma in The dinner la componente grottesca sembra sfuggire continuamente di mano, sganciandosi dal tema per imporsi come un’acrobazia fine a se stessa.
La versione di Paul proposta nel film è, appunto, un fulgido esempio di questa dinamica. Di lui Moverman conserva l’intellettualismo esasperato, lo snobismo, il lato violento, la follia; ma nulla rimane della profondità – intesa come capacità di rendere il personaggio tridimensionale e non una semplice macchietta – che Koch gli conferisce. Basti pensare al flashback in cui Paul pronuncia un lungo monologo di fronte a una serie di banchi vuoti, quando ancora lavorava come professore di storia in un liceo: “Facciamo due conti: in un gruppo, diciamo, di cento persone quanti coglioni ci saranno? […] Quanti genitori che umiliano o rifiutano i loro figli, quanti stupidi con l’alito puzzolente che non se lo curano? Quanti eterni, viscidi ruffiani, stupratori, truffatori, bugiardi, ladri, politici corrotti, imbroglioni? Magari tua madre, tuo fratello e voi, per esempio. Quanti di voi sarebbero contenti se uno dei vostri amici morisse domani? […] Ora pensiamo a casa […]: lo zio con le storielle del cazzo, il molestatore, […] il cugino che tratta male i cani, la madre verbalmente aggressiva… Sareste molto contenti, voi e i vostri cari, se quello zio o il cugino adottivo calpestassero una mina o fossero vittima di un bombardamento. In un secondo, spazzati via. […] Sareste contenti, no? Sareste felici e sosterreste l’idea della guerra. Perché le famiglie sono opprimenti, anaffettive e crudeli. […] Ora pensate a tutte le vittime di tutte le guerre che ci sono state in passato […] e alle decine di migliaia di coglioni, […] milioni […]. Da un punto di vista statistico, è matematicamente impossibile che tutte le vittime di guerra fossero brave persone, per quel che vuol dire. L’ingiustizia della Storia è che i coglioni appaiono nelle liste delle vittime innocenti […]”.
Quest’ultima affermazione, in particolar modo, ha grande risonanza in rapporto all’opera di Koch, per il quale – almeno nel contesto de La cena – non esistono innocenti. Inoltre, il riferimento alla guerra rimanda al tema della violenza, la cui importanza risulta evidente anche solo guardando allo spunto narrativo del romanzo – l’omicidio di una senzatetto compiuto da due ragazzi di ‘buona famiglia’ – dove riecheggia il Kubrik di Arancia meccanica (1971), trasposizione cinematografica dell’omonimo romanzo di Anthony Burgess. Da notare che il titolo originale – A clockwork orange – è un riferimento a un’espressione tipicamente londinese – ‘strano come un’arancia a orologeria’ – usata per indicare qualcosa di normale in superficie, ma che nasconde, in realtà, una natura bizzarra e inusuale. Nelle opere di Burgess e Kubrik, tale definizione si riferisce ad Alex (Malcom McDowell), il protagonista, il quale, dopo essere stato privato del suo libero arbitrio, sembra trasformarsi in un bravo cittadino, mentre è solo un automa della società. Ma il modo di dire potrebbe applicarsi anche all’opera di Koch, dove due famiglie ‘normali’ all’apparenza celano, in realtà, un terribile segreto. Del resto, non è un caso che l’autore olandese citi più volte l’incipit di Anna Karenina: “Tutte le famiglie felici si assomigliano fra loro, ogni famiglia infelice è infelice a modo suo”. Eppure la forma specifica dell’infelicità dei Lohman è rivelatrice al contempo di problematiche universali, inerenti al rapporto tra individuo e società.
Torniamo così al monologo di Paul. Un discorso simile è presente anche nel libro di Koch, ma qui, a differenza di quanto accade nel lavoro di Moverman, la scena è carica di significato, poiché viene narrata attraverso un dialogo tra Paul e il preside della scuola, il quale ha convocato il primo in seguito delle lamentele dei genitori per via delle opinioni espresse dal professore durante le lezioni. In tale contesto, emerge l’insofferenza di Paul nel confronti del programma scolastico: “Ho sempre messo al primo posto gli alunni. […]. Ho sempre cercato di rendere la materia il più interessante possibile per loro. Per questo ho sempre avuto un approccio personale. Non ho mai tentato di rifilargli qualche storiella rimasticata. Ho sempre pensato a come mi sentivo io quando andavo al liceo. A cosa mi interessava davvero. Mi sono basato su questo” (2). E all’obiezione del preside sull’atteggiamento aggressivo tenuto da Paul nei confronti di una studentessa, rea di aver scritto un compito su Israele imbevuto di propaganda sionista, risponde: “Oltre alla seconda guerra mondiale, spiego anche molta storia successiva. […] Corea, Vietnam, Kuwait, Medioriente e Israele, la guerra dei sei giorni, la guerra del Kippur, la Palestina. In classe parlo di tutte queste cose. Non posso trovarmi davanti un compito in cui mi si dice soltanto che in Israele si coltivano le arance e si balla con i sandali attorno ai falò. Gente allegra e felice dappertutto, e qualche banalità sul deserto dove adesso nascono i fiori. Insomma, ogni giorno viene ammazzato qualcuno, ogni giorno salta in aria un autobus. Ma di che stiamo parlando?” (3). Difficile non dargli ragione. Infatti, se è vero che Paul mostra evidenti segni di squilibrio, tanto che gli viene addirittura diagnosticato un disturbo mentale ereditario, è altrettanto vero che le sue analisi colpisco spesso nel segno, la sua difficoltà a ricoprire il ruolo di professore è legata a filo doppio con l’insufficienza dei programmi scolastici in un contesto in cui l’obiettivo non è sviluppare le facoltà critiche degli studenti, bensì inquadrarli all’interno di uno standard.
Si capisce, dunque, come la critica di Koch investa entrambe le istituzioni atte alla formazione dell’individuo: famiglia e scuola. Ciò, tuttavia, è assente nel film di Moverman, dove anche la follia di Paul appare alla stregua di un particolare gratuito, privo di interesse tematico. Al contrario, nel romanzo essa è funzionale al disvelamento delle contraddizioni di Paul, ma non solo: a essere messe a nudo per suo tramite sono anche le antinomie intrinseche al mondo moderno. Secondo quanto rilevato da Freud, infatti, l’esistenza stessa della società è causa di nevrosi in quanto all’individuo viene continuamente richiesto di reprimere e/o sublimare le sue pulsioni ancestrali – sessuali e aggressive – in nome del bene comune: una parte di felicità in cambio della sicurezza (4). La famiglia monogamica e la scuola sono appunto frutto di questo processo. Tuttavia, il disturbo mentale di Paul fa sì che egli perda gradualmente quei filtri necessari perché sia possibile la convivenza con gli altri. Cosicché, se aveva solo immaginato di picchiare il preside del liceo in cui lavorava come professore, il preside dell’istituto frequentato dal figlio Michel – dal quale Paul viene convocato in qualità di genitore per discutere di una ricerca controversa scritta dal figlio sulla pena di morte – diviene invece vittima della pulsione aggressiva non più repressa. Anche in questo caso, la scena è assente nel film di Moverman, che preferisce reinventarsi il personaggio di Paul come caratterizzato da un’ossessione per la battaglia di Gettysburg. Il che, nelle intenzioni del regista, ha un probabile nesso tematico con l’odio provato verso Stan: una guerra civile, come quella combattuta tra nordisti e sudisti, riconduce immediatamente a un’idea di fratricidio. Ma il concetto che sta alla base del romanzo viene banalizzato: in Moverman il lato violento di Paul viene presentato semplicemente come una conseguenza della sua follia individuale, mentre per Koch – vale la pena ribadirlo – tale disturbo è solo uno strumento per sondare quanto si agita nell’animo di tutti gli esseri umani sotto la crosta sottile della civiltà.
Ne è prova il finale del romanzo: inaspettatamente Serge – corrispettivo letterario di Stan – vorrebbe denunciare i due ragazzi, sacrificando così la sua carriera politica. Paul e sua moglie Claire, d’accordo con Babette, moglie di Serge, sono decisi a impedirglielo. Tuttavia, se fosse Paul a fare del male a Serge, impedendogli così di presenziare alla conferenza stampa organizzata per il giorno seguente, il gesto non otterrebbe il giusto riconoscimento in quanto sarebbe interpretato solo sulla base del suo squilibrio mentale. Cosicché, alla fine, è Claire a sfigurare Serge, rompendogli un bicchiere in faccia. Azione tanto più significativa se si considera il volto come emblema della dicotomia verità/apparenza. In quanto politico, infatti, Serge è tenuto a mostrarsi sempre sorridente al pubblico. Essendo il suo lavoro simile per molti aspetti a quello di un attore, rovinargli il viso significa andare a colpire ciò che, fino a quel momento, era stato il perno della sua esistenza.
Ma la violenza atavica legata alla difesa della prole – rispetto alla quale Koch sembra voler dimostrare la fragilità della morale in quanto costruzione della società – si manifesta anche nell’assassinio di Beau, figlio adottivo di Serge e Babette, proveniente dal Burkina Faso. A ucciderlo sono suo fratello Rick – figlio naturale della coppia – e Michel, spinti dalla necessità di interrompere il ricatto a cui Beau li stava sottoponendo, facendo leva su un altro video in grado di identificare i due ragazzi quali responsabili dell’omicidio della senzatetto. Tuttavia, anche in questo caso, è Claire a dare uno stimolo decisivo al precipitare degli eventi. Messa a conoscenza del ricatto da Michel, infatti, non esita a consigliarlo sul da farsi. Come racconta a Paul: “Ho detto a Michel che deve cercar di far ragionare Beau. E se non ci riesce, deve fare la cosa che ritiene più giusta. Gli ho detto che non voglio saperne niente. La settimana prossima compie sedici anni. Non deve più farsi dire come comportarsi da sua madre. È abbastanza grande e maturo per decidere da solo” (5). Il che rimanda alla convinzione di Paul secondo la quale non tutte le vittime sono per forza innocenti. Beau, per esempio, col suo ricatto, si rende colpevole tanto quanto Michel e Rick – e la sua morte violenta non può certo cancellare questo fatto. Si capisce, dunque, come l’aspetto più inquietante e al contempo interessante dell’opera di Koch sia la totale assenza di personaggi positivi nel contesto di un attacco spietato alla borghesia e al ‘politicamente corretto’.
Tuttavia, Moverman sembra incapace di cogliere questo discorso o quantomeno di portarlo alle sue estreme conseguenze. Paul, istigato da Claire, corre da Beau (Judah Sandridge) per ucciderlo, senonché, all’ultimo minuto, ci ripensa, e il film si chiude con lui, Claire, Stan e Katelyn (Rebecca Hall) – equivalente di Babette nell’opera di Koch – riuniti in un collettivo nulla di fatto. Difficile pensare a cosa abbia avuto intenzione di dimostrare Moverman con questo finale. Forse che la mediocrità dei personaggi messi in campo è tale da impedire loro di portare fino in fondo qualunque decisione, sia essa positiva o negativa? Lo proverebbe la circostanza che anche Stan sembra rinunciare all’idea di dimettersi dalla politica, visto l’entusiasmo con cui accoglie al telefono la notizia che una sua proposta di legge ha ricevuto la maggioranza dei voti. In ogni caso, la vuotezza di una simile risoluzione rispetto a quella scelta da Koch è lampante.
Molto diverso il film di Ivano De Matteo, I nostri ragazzi, che del romanzo conserva lo spunto narrativo – l’omicidio della senzatetto – cambiando, però, diversi aspetti legati ai personaggi, alla struttura narrativa e agli accenti tematici. Questo non significa che in Koch non sia presente un’importante riflessione sul ruolo del genitore nell’epoca postmoderna. Tuttavia, in De Matteo tale argomento costituisce il perno di tutta l’opera. Quello che viene mostrato qui è innanzitutto una mancanza di comunicazione tra vecchie e nuove generazioni. Il logoro cliché per cui non si parla più a tavola in famiglia per via della presenza ingombrante del televisore oggi fa sorridere per la sua limitatezza rispetto alla diffusione delle nuove tecnologie. In un’interessante intervista apparsa su L’Espresso, il neuropsichiatra infantile Stefano Benzoni parla di questo argomento in rapporto a disagi e patologie giovanili: “L’accelerazione delle trasformazioni tecnologiche e comunicative è diventata un sistema totalitario di valori, in cui sono immersi bambini e ragazzi, una sorta di nuova natura che comporta alienazioni finora inedite. Si crea un’alienazione rispetto alle azioni, perché grazie alla connessione si può agire sull’oggetto senza toccarlo. Si modifica il rapporto con il tempo, abituandosi all’uso di operatori temporali come ‘refresh’ o ‘undo’. C’è anche la creazione di un nuovo tipo di alienazione rispetto agli spazi. Si è poi passati troppo velocemente dall’ethos della performatività, cioè essere abbastanza fighi, all’ethos del continuo ed esasperato cambiamento, perché essere fighi è oggi troppo effimero. E ciò incide anche sul rapporto con la morte e col ciclo di vita. L’accelerazione dei mutamenti sociali fa sì che oggi il divario non sia più intergenerazionale, ma intragenerazionale, tra fratelli che a distanza di pochi anni interpretano immaginari differenti. Questi nuovi tipi di alienazione implicano fragilità rispetto all’organizzazione del sé, alla costanza nel tempo, alla definizione della stabilità delle relazioni affettive. È una rivoluzione che non può non avere legami con le crescenti aspettative nei confronti dei figli, con nuovi tipi di malesseri e con la collettiva percezione di alcune patologie infantili, come i disturbi specifici dell’apprendimento (Dsa: dislessia, disgrafia, discalculia) e la sindrome da deficit di attenzione e iperattività (Adhd)” (6).
Non per niente Michele (Jacopo Olmo Antinori) e Benedetta (Rosabell Laurenti Sellers) – corrispettivi di Michel e Rick nel film di De Matteo – sono mostrati spesso con uno smartphone tra le mani oppure davanti a un computer. I due vivono un vero e proprio scollamento dalla realtà, destinato a intrecciarsi in maniera drammatica col tema della violenza. Infatti, passano moltissimo tempo a guardare video i cui protagonisti si picchiano a sangue, senza, tuttavia, riportare alcuna conseguenza negativa. Un particolare presente anche nel romanzo di Koch – e nel film di Moverman – con Michel e Rick caratterizzati da un’ossessione per Jackass, programma televisivo importato dagli Usa, dove alcune persone si sottopongono a una serie di prove fisiche quali sniffare del wasabi o gettarsi da una discesa a bordo di un carrello. La realtà si trasforma così in un videogioco in cui non c’è spazio per il concetto di responsabilità, poiché, a livello psicologico, si interrompe il legame tra causa ed effetto in rapporto alle proprie azioni. Il che emerge con evidenza quando Michele, avendo i genitori ormai scoperto il suo coinvolgimento nella morte della senzatetto, si giustifica dicendo che non voleva farle del male. Scena che si collega sul piano tematico a una precedente in cui il sedicenne getta, senza tanti indugi, un astice vivo nell’acqua bollente – laddove la madre Clara (Giovanna Mezzogiorno) aveva, invece, esitato – perché “tanto non sente dolore”. Una nuova forma di alienazione, stando a quanto rilevato da Benzoni, che non riguarda solo gli uomini – generalmente considerati più inclini alla violenza – ma anche le donne. Da qui la scelta di De Matteo di ‘trasformare’ Rick in Benedetta in modo da sottolineare la trasversalità del problema.
Un discorso a parte merita l’incipit del film, dove un litigio tra due automobilisti si conclude con la morte del primo, ucciso dal secondo – un poliziotto fuori servizio – con un colpo di pistola. Per di più, la pallottola, trapassando il corpo della vittima, ferisce gravemente il figlio di quest’ultima, un bambino di una decina d’anni, che rischia così di rimanere paralizzato. Un dramma funzionale alla descrizione dei differenti ethos di Paolo (Luigi Lo Cascio) e Sergio (Alessandro Gassman) – equivalenti di Paul e Serge nel libro di Koch, anche se, rispetto ai personaggi dell’autore olandese, quelli di De Matteo presentano numerose differenze. Paolo lavora, infatti, come chirurgo nel ramo pediatrico di un ospedale e, tra i suoi pazienti, c’è il bambino ferito dal colpo di pistola. Sergio è, invece, l’avvocato del poliziotto che ha sparato. Per il primo, il colpevole dovrebbe marcire in galera per il resto della vita. Il secondo è, invece, convinto che tutti abbiano diritto ad avere una difesa. Punti di vista che emergono nel corso di un dialogo tra i due fratelli. Paolo è dalla parte della vittima, del bambino ferito, senza dare alcuna attenuante né comprensione al poliziotto, come se la violenza non potesse mai avere giustificazione, in una visione rigida, intransigente; Sergio in questo scambio di battute appare cinico, privo di valori, anche se, sostenendo che l’omicida ha avuto paura, mostra una capacità di comprensione dell’umano maggiore rispetto a quella di Paolo. Il che non significa giustificare sempre e comunque un certo tipo di violenza. Troppe volte, in ambito istituzionale, il pretesto della paura è stato utilizzato per ridimensionare gli abusi compiuti dalle forze dell’ordine, mentre chiunque altro verrebbe prontamente etichettato come delinquente, se non addirittura mostro, nel momento in cui si trovasse a commettere lo stesso tipo di azioni. Basti pensare al caso di Carlo Giuliani – e molto ci sarebbe da dire in generale sul rapporto tra Stato e violenza. Tuttavia, nel film di De Matteo la chiave di lettura da adottare è un’altra. Il poliziotto è effettivamente un ragazzo fragile, che ha sparato in un eccesso di difesa, dopo essere stato inseguito dalla vittima e minacciato con una mazza da baseball. Come sostiene Sergio al telefono: “Questo in carcere non resiste, ha paura di bere un bicchier d’acqua”. Se si è scelto di conferire tale professione a un simile personaggio, è probabilmente perché era il modo più semplice di legittimare sul piano narrativo il fatto che un tipo come lui viaggiasse con una pistola carica in auto.
Si capisce, dunque, come a essere al centro del dibattito tra i due fratelli sia l’idea stessa della giustizia, declinata nel suo senso umano o assoluto. Quando si tratta infatti di fare i conti con la vicenda di Michele e Benedetta, Paolo non si cura minimamente della vittima, della violenza subita dalla senzatetto, quindi ha una doppia morale – o, meglio, l’amore per il figlio prevale sui principi, il privato su ciò che è giusto: non scusa Michele, ma è pronto a salvarlo. Così, nel corso della cena in cui le due coppie si ritrovano per decidere come comportarsi coi ragazzi, Paolo dice a Sergio: “Tu sei felice. Perché ti prendi le tue piccole rivincite. Finalmente puoi dire che hai ragione tu. Che sai come funziona la vita. Non c’era bisogno di girarci tanto intorno. Che cosa vuoi fare? […] smuovere qualcuno per insabbiare tutto? Hai già fatto qualche telefonata? O hai tra le mani qualche disperato disposto a testimoniare il falso per due lire? Va bene. Va bene tutto, mi pare ovvio che voglio salvarlo”. Ma, a questo punto, è Sergio a non voler seguire questa strada. Egli, a sorpresa, fa prevalere il principio di giustizia sull’amore per la figlia, e sembra lo faccia non tanto per l’idea astratta in sé – o, meglio, non solo – ma perché si rende conto che i due ragazzi sono amorali: al contrario del poliziotto, non mostrano alcuna fragilità, alcun senso di colpa, alcuna presa di coscienza/consapevolezza del male che hanno fatto. Dimodoché Sergio sente che, se Michele e Benedetta non pagheranno per il loro crimine, non avranno mai un’etica – quindi che adulti saranno?
Se De Matteo non avesse inserito nel film la vicenda parallela della lite tra i due automobilisti, non si sarebbe manifestata l’ipocrisia di Paolo: egli sarebbe apparso semplicemente come un uomo per il quale l’amore per il figlio prevale su ogni cosa, il che potrebbe anche essere giustificato. Di conseguenza, non si sarebbero evidenziati nemmeno il suo cambiamento negativo né, all’opposto, quello positivo di Sergio, che da cinico benestante si rivela, invece, un uomo dotato di principi e una morale. Anche la scelta delle due professioni è perfetta dal punto di vista tematico, perché svela l’ipocrisia della simbologia sociale: il medico, figura positiva, votata al bene, e l’avvocato, figura negativa che difende i criminali e gli assassini. Alla fine, si assiste a un’inversione dei ruoli: il medico difende un assassino, mentre l’avvocato vuole giustizia per la vittima e che i colpevoli siano chiamati a rispondere delle loro azioni, poiché solo così potranno capire la differenza tra giusto e sbagliato, dal punto di vista umano innanzitutto.
Due momenti, in particolare, segnano la presa di coscienza di Sergio riguardo a Michele e Benedetta. Il primo è un dialogo con la figlia, nel corso del quale lei, credendo che Paolo voglia denunciarla insieme a Michele, dà per scontato che il padre troverà il modo di aiutarli. Il secondo è quando Sergio ascolta una conversazione tra Michele e Benedetta attraverso un baby-call. Anche in questo caso, De Matteo insiste sull’incapacità di rendersi conto della gravità delle proprie azioni da parte dei due giovani, i quali arrivano addirittura a scherzare sul video che li mostra accanirsi sulla senzatetto. Benedetta, in particolare, sostiene che non è la prima volta che il padre la leva da qualche impiccio. È chiara, dunque, l’accusa non tanto alle nuove generazioni – travolte dallo tsunami della modernità liquida (7) – quanto agli adulti, incapaci di stabilire un contatto con le prime, trasmettere loro valori positivi o anche solo accorgersi dei disagi e delle problematiche da cui sono afflitte. Ne è prova, tra l’altro, la scena in cui il professore di matematica si lamenta con Clara di Michele esclusivamente in base al rendimento scolastico di quest’ultimo, salvo una parentesi sull’atteggiamento aggressivo tenuto con gli insegnanti, e non nota, invece, alcuna difficoltà nei rapporti coi coetanei. Valutazione smentita dall’immagine di Michele isolato con lo smartphone, mentre i compagni di classe giocano a basket alle sue spalle. Senza contare la festa a casa di un amico di Benedetta, dove il sedicenne manifesta evidenti problemi relazionali, poco prima di farsi responsabile, insieme alla cugina, dell’omicidio della senzatetto.
Inoltre, sempre durante la scena del colloquio tra Clara e il professore, emerge la tendenza della prima a considerare Michele ancora un bambino, poiché cerca di giustificarlo su tutto, dicendo che è ‘timido’. Una logica deresponsabilizzante manifestata anche di fronte a Sergio e sua moglie Sofia (Barbora Bobul’ovà), quando Clara sostiene che Benedetta ha sempre esercitato una cattiva influenza su Michele, perciò dev’essere stata per forza lei a ‘trascinarlo’ nell’aggressione della senzatetto. Al contrario, Sergio e Sofia trattano la figlia da adulta, almeno per quanto riguarda alcuni aspetti superficiali, poiché, come si è visto sopra, per le questioni davvero importanti, Benedetta è abituata a considerare il padre come una rete di salvataggio. Basti pensare al fatto che possiede già un’auto da cinquanta cavalli o alla scena in cui Sofia le chiede una sigaretta. Due modi opposti di intendere il ruolo di genitore, dunque, ma solo all’apparenza – e comunque destinati entrambi a mostrare i propri limiti in quanto a sedici anni non si è né adulti né bambini. In ogni caso, ciò che accomuna le due famiglie è una soluzione di continuità sul piano della comunicazione. Sicché la volontà di Sergio di convincere Benedetta e Michele a costituirsi – comunque consapevole del fatto che difficilmente finiranno in prigione in quanto incensurati e giovani di ‘buona famiglia’ – è legata a un tardivo riconoscimento della propria funzione educativa. Il che non significa recuperare il concetto di padre-padrone, ma essere presente per i propri figli in modo da permettere loro di ristabilire un rapporto consapevole con la realtà. Tuttavia, Paolo non riesce ad accettare la possibilità che Michele venga arrestato. Così, dopo aver minacciato Sergio, lo uccide, investendolo. Un finale forzato, essendo l’atto poco credibile, il cambiamento di Paolo troppo repentino.
In generale, al netto di quanto illustrato fino a questo momento, il film di De Matteo presenta diversi punti deboli: temi che avrebbero meritato un maggiore approfondimento vengono solo accennati, la recitazione lascia spesso a desiderare, con la sola eccezione di Gassman – bravissimo a interpretare scena per scena il percorso di cambiamento del suo personaggio, credibile sia nella sua veste cinica sia in quella morale, un lavoro estremamente complesso in quanto si gioca tutto su minime sfumature inerenti agli sguardi e al tono di voce – e nell’insieme si ha l’impressione di un bozzetto più che di un quadro ultimato. Ciò non toglie che, prendendo spunto dal romanzo di Koch, il regista romano abbia comunque realizzato un lavoro in grado di attrarre l’attenzione su argomenti troppo spesso ignorati dal pubblico italiano e non solo. Un tentativo che gli val bene un encomio, soprattutto se si considerano tanti altri prodotti del cinema nostrano, caratterizzati da un abissale vuoto di contenuti.
1) Tre, se si considera anche il film Het Diner (2013) dell’olandese Menno Meyjes, il quale, però, non è stato doppiato né sottotitolato in italiano, motivo per cui non compare in quest’analisi
2) Herman Koch, La cena, Beat Edizioni
3) Ibidem
4) Cfr. Sigmund Freud, Il disagio della civiltà, Bollati Boringhieri
5) Herman Koch, op. cit.
6) G. Genna, Un bambino su 5 soffre di disagio psichiatrico: «Costretti dagli adulti a essere felici», L’Espresso, 15 ottobre 2018
7) Cfr. Zygmunt Bauman, Modernità liquida, Laterza, dove l’autore descrive la condizione attuale come caratterizzata da frenesia, incertezza, solitudine, omologazione nel contesto di una sempre più spiccata mercificazione delle esistenze