Superato il violento conflitto attualmente in corso tra potentati economici, sulla politica italiana scenderà la pace di un nuovo regime unipolare: partiti come comitati d’affari, conflitti di interesse e sfruttamento dei lavoratori
È probabile che nel ’94 Berlusconi sia veramente apparso al potere economico come il gattopardiano elemento di continuità tra la prima e la seconda Repubblica. Così come è probabile che tale soluzione, in lui velocemente incarnatasi, fosse vista come un momento di passaggio, una reazione necessaria di fronte agli sconquassi creati da quella che, allora e fino a
oggi, era vissuta dallo stesso potere come una ‘rivoluzione’ giudiziaria: una non programmata pulizia del Capitale. L’unica soluzione, in ogni caso, in grado di canalizzare e gestire senza sorprese una massa consistente di elettorato rimasto orfano delle vecchie sigle politiche, smembrate dalle inchieste della magistratura. Era un modo di ricomporre il pentapartito, con l’aggiunta della Lega nord e di Alleanza nazionale, all’interno di un unico blocco politico, e affrontare con successo la nuova stagione elettorale che si apriva sotto il segno del maggioritario.
Molti analisti politici, dopo una significativa esaltazione emotiva in favore dell’operato dei giudici, hanno creduto che Berlusconi potesse diventare il promotore di una nuova stagione liberale; il traghettatore dell’Italia verso la sponda della modernità.
Gli stessi capitani d’industria sopravvissuti a Tangentopoli, grazie a patteggiamenti e mille scuse, e i numerosi politici riciclatisi equamente nella boscaglia della nuova polarità politica, contavano di liquidare in tempi brevi la seconda Repubblica ed entrare in una terza stagione repubblicana; e di poterlo fare fortificati da una nuova Costituzione, dal ripristino di un effettivo (dal loro punto di vista) equilibrio tra i poteri dello Stato, e dal reinserimento dell’immunità parlamentare. Riforme grazie alle quali, una volta provata la fedeltà alla svolta della Bolognina da parte del partito storico di opposizione, i partiti tutti avrebbero siglato un patto di buon proseguimento davanti agli occhi soddisfatti del potere economico, laico o religioso che fosse.
Il risultato dell’aver dato credito a queste speranze, diciassette anni più tardi, è sotto gli occhi degli italiani e di quelli divertiti di tutta Europa, e la dice lunga sulla lungimiranza politica di questa classe dirigente: un Paese di fatto senza governo, ma privo dell’efficienza burocratica dimostrata dalle istituzioni del Belgio, un presidente del Consiglio stretto da un assedio parlamentare politico-mediatico-giudiziario, e una situazione di stallo ben lungi dall’essere risolta in tempi brevi. Con tanti saluti alla governabilità tanto evocata dal presidente della Repubblica e da Confindustria, da intendersi come pacifica amministrazione a garanzia degli interessi dei capitalisti.
Oggi, le stesse forze economiche e politiche che si erano rese fautrici, complici palesi o silenziosi, dell’ascesa berlusconiana, si riciclano mondate da ogni colpa, indicando agli italiani il presidente del Consiglio come il mostro, abbattuto il quale tutto si risolverà. La questione è che cosa essi intendano con questo ‘tutto’ che nel dibattito resta pericolosamente sottinteso. La posta in gioco è proprio la famigerata ‘governabilità’ tanto cara a politici e industriali; una parola carica di contenuti ambigui, vista la natura orizzontale del violento conflitto attualmente in corso tra potentati economici.
Di affari loro, si tratta, dunque. Un’ottima ragione, quindi, perché gli italiani guardino lo scontro con sospetto, senza cioè lasciarsi coinvolgere emotivamente. I toni sono talmente alti, e talmente fragorose le bombe mediatiche, da far pensare che la situazione da stato d’emergenza, creata ad arte in questi ultimi due anni, tornerà molto utile alla fine del conflitto, allorquando, come una languida nebbia silenziosa, sulla politica italiana scenderà la pace. Sarà il momento più temibile, perché, in nome della liberazione tra un abbraccio e un bacio, i vincitori approfitteranno della soddisfazione collettiva per instaurare il nuovo regime unipolare e privare i lavoratori dei loro diritti e di qualunque residua possibilità di protestare.
Salutare, a questo proposito, è la lettura dell’ultimo saggio pubblicato da Marco Revelli, intitolato Poveri, noi.
Il libro è il risultato del lavoro svolto dalla Commissione d’indagine sull’esclusione sociale (Cies). Un resoconto a dir poco agghiacciante, in grado com’è di tracciare, con la spietatezza di cui numeri e statistiche sono capaci, il livello di povertà del Paese e che mostra il quadro di un panorama sociale degradato. A denunciarlo è l’Istat, e non, sono le parole amare Revelli, “come ci si sarebbe legittimamente potuto aspettare”, il segretario di un qualche grande sindacato. Il consueto Rapporto annuale mostra che dall’inizio del 2000 le retribuzioni italiane hanno perso 13 punti percentuali rispetto alla media europea, passando da più 4 punti sopra a 8 punti sotto; a fronte dell’aumento crescente e accelerato dei prezzi di beni essenziali, e, per contrasto, a fronte del trasferimento in misura crescente di una quota spropositata di ricchezza. Cifre enormi che, nel caso dell’Italia, si traducono in circa 8 punti percentuali sul Pil, ovvero: circa 120 miliardi di euro. Sarebbe a dire che, se oggi i rapporti di forza tra capitale e lavoro fossero gli stessi di vent’anni fa, quei soldi sarebbero nelle tasche dei lavoratori, invece che dei capitalisti. Un monte di denaro che per 17 milioni di dipendenti significherebbero 7.000 euro in più in busta paga. All’anno!
E ancora: a fronte del crollo dei salari, tra la metà degli anni Novanta e il 2005, l’Italia ha registrato una crescita consistente dei profitti d’impresa; mentre gli stipendi sono cresciuti del 4,8%, i profitti delle piccole e medie aziende sono aumentati del 15,5%, e, nel caso delle grandi imprese, la crescita degli utili ha toccato il 65,5%. Ancora maggiore risulta il divario, se lo si circoscrive al campione di 1.400 grandi società selezionato di Mediobanca: quasi il 90%. Un surplus di ricchezza per la maggior parte destinato alla speculazione nei circuiti finanziari.
Il risultato di questa gestione è un impoverimento progressivo che da un lato ha raggiunto l’obiettivo di svilire il mondo del lavoro, e, dall’altro, ha creato enormi sacche di povertà e figure sempre più ai margini della vita sociale, politica ed economica. I calcoli mostrano che 14 milioni di italiani vivono con meno di 1.300 euro al mese e più di 7 milioni campano con meno di 1.000 euro. Tra questi ultimi, diverse categorie di salariati del sud (che non superano i 970 euro mensili), quelli delle piccole imprese (866 euro di media), i lavoratori immigrati extra Ue (856 euro-mese) e i giovani (854 euro).
Fin qui, la massa di lavoratori ‘ufficialmente impoveriti’. Spostando l’analisi sul ceto medio, la situazione cambia poco: quasi 19 milioni di persone sono sospese sul vuoto della povertà. Si tratta di gente che non può permettersi il lusso di una spesa imprevista di 700 euro.
Infine tocca ai lavoratori freelance, i lavoratori a partita iva individuale o assunti con contratti atipici: un popolo di consulenti, grafici, traduttori, operatori del sociale, architetti, ricercatori, programmatori di software… costretto a trasformarsi in capitale umano – la cui media-reddito annua non supera i 10.300 euro. Persone che rivendicano il diritto di esercitare una professione in proprio, che i sindacati, per convenienza, classificano come dipendenti mancati. Anch’esse, per buona parte, conducono una vita da poveri. Un’area di precariato che conta più di 3 milioni e mezzo di lavoratori.
Per chiudere con un sorriso stracciato, nell’ultimo capitolo Revelli si affida alla riflessione di un economista critico, Guido Ortona, in considerazione alla parte dell’accordo imposto da Marchionne agli operai durante la vertenza Fiat di Pomigliano d’Arco – replicato poi identico a Mirafiori. Quella riguardante la riclassificazione dei turni e la riduzione delle pause da 40 a 30 minuti: dieci minuti in meno per un valore del 2% del monte ore lavorate; sarebbe a dire, l’equivalente alla giornata-lavoro di un centinaio di operai. Vale la pena riportare la riflessione per intero: “Se Montezemolo si accontentasse di ricevere 10.000 euro al giorno, e Marchionne si accontentasse di riceverne 9.100, si potrebbe dare lavoro a 100 operai in più”. O continuare a permettere agli attuali dipendenti di Pomigliano di fare una pausa di 40 minuti.
“Marchionne” aggiunge quindi Ortona, “passa per essere un imprenditore progressista e capace, e sicuramente lo è se paragonato a reazionari incapaci come Fossa e Romiti; ma a quanto pare anche per lui la redistribuzione del reddito è data. Se i rapporti di forza danno a lui cinque milioni di euro e a loro 10 minuti in più di lavoro e 100 occupati in meno, questo è ‘naturale’, non ha senso unificare le due contabilità”. E continua: “Mi pare che coloro che sostengono che i lavoratori sono vittime dell’ideologia, mentre il management attua buone scelte economiche, non abbiano le idee chiare su cosa sono l’ideologia e l’economia”.
Ora: al termine della lettura di questo saggio-ricerca si possano tirare tre conclusioni, tra tante altre, basate sul fatto che i magnifici cavalieri politici che oggi si mostrano come i salvatori della patria, nemmeno si sognano di denunciare il dramma di questa situazione. Ed è facile capire perché.
1. La tendenza all’abbassamento drastico dei salari viene analizzata dal saggio in questione in un arco di tempo che non riguarda solamente il governo Berlusconi ma anche il periodo in cui la responsabilità della gestione dello Stato è passata per le mani del centro-sinistra: quello che va dal ’96 al 2001. Cinque anni, detto per inciso, chiamati dai sindacati come gli anni del governo amico, durante i quali è stato varato il ‘pacchetto Treu’ che ha reso legge la flessibilità lavorativa e la privatizzazione del lavoro pubblico attraverso la legge Bassanini. Riforme del mercato del lavoro in seguito ‘perfezionate’, su dettatura di Confindustria, da Maroni con la legge 30, durante il governo del Cavaliere. Queste ultime votate anche da Fini, Rutelli e Casini, oggi a capo dell’esercito della salvezza.
2. I responsabili dello sfascio sono rintracciabili nei capitani d’industria; coloro, cioè, che dallo sfruttamento di quella gran massa di italiani impoveriti – o che sono in procinto di diventarlo – si sono ulteriormente arricchiti. Una realtà sociale, drammatica, che, come scrive lo stesso Revelli, viene “a prova, infamante, dell’avarizia e della miopia di quella stessa classe imprenditoriale che, per voce di sempre più loquaci presidenti di Confindustria, pretenderebbe di dettare le leggi della convivenza comune e della buona amministrazione”. A coda della constatazione va aggiunto che questa stessa classe imprenditoriale è la medesima che oggi si sta scontrando – chi con Berlusconi, chi dall’altra parte – per la conquista del potere; titillando l’immaginario seduttivo degli italiani per poi usarli come massa di manovra, simili a ultras, e portarli in piazza a manifestare per la libertà di stampa, per la democrazia, per la dignità delle donne o per insultare i giudici fuori dai tribunali.
3. Il conflitto aperto tra poteri economici denota una concezione e un uso e uno sfruttamento della società civile – ormai identificata unicamente come ‘opinione pubblica’ e come carne da lavoro – talmente spregiudicati e opportunistici da rendere ingenuo il solo pensare l’azione politica come la si sarebbe potuta concepire appena vent’anni fa. Al contrario, proprio la natura dello scontro frontale tra poteri oggi in atto mostra senza equivoci che i partiti si sono trasformati in comitati d’affari, in un mezzo utilizzato da businessman per scalare lo Stato e gestire i propri interessi – sia a livello nazionale che, e ancor di più, a livello locale.
È quest’ultima la conclusione più dolorosa, perché non lascia speranze per il futuro, e perché apre una penosa riflessione sulla morte del più grande patrimonio umano e culturale del dopoguerra.
L’utilizzo della parola Cultura è fondamentale per creare un parallelismo tra passato e presente, e così focalizzare la riflessione sulle conseguenze del crollo del vecchio ‘movimento operaio’ e dei suoi corpi istituzionalizzati, partiti e sindacati.
Bastano un paio di domande per sollevare la questione.
Quale acqua è passata sotto i ponti degli ultimi trent’anni, tra Berlinguer che nell’autunno del 1980, buttandosi in una causa persa, si recava senza riserve alla Fiat per dire agli operai che, comunque fossero andate le cose, il partito era con loro; e il 2011, quando, in occasione del referendum svolto alla Fiat Mirafiori in cui gli operai erano chiamati ad accettare o a rifiutare sulla propria pelle il ricatto di Marchionne, Bersani affermava di non volere indicare loro un indirizzo di voto? Quale acqua è corsa sotto i ponti, tra la svolta dei primi anni Ottanta operata da Berlinguer (un momento storico rimosso dagli attuali vertici del centro-sinistra, opportunisticamente fedeli al patto della Bolognina – contratto firmato dai dirigenti più con i poteri forti che non con i propri referenti sociali, al fine di salvare se stessi) in cui veniva recuperato il conflitto sociale e sollevata la questione morale; e le affermazioni di Veltroni che invitano a mettere ormai da parte cose ‘obsolete’ come lo scontro tra lavoratori e padroni?
In questo salto di trent’anni, la parola Cultura, che qui si vuole mettere in gioco, non va posta a esclusivo riferimento della letteratura legata a Marx e Engels, di Rosa Luxemburg o Lukacs, della Scuola di Francoforte, su su fino a Foucault e Pasolini; la Cultura che è andata perduta, con effetti drammatici, riguarda la perduta rappresentazione di sé dei lavoratori salariati, ormai incapaci definitivamente di guardare se stessi e il loro ruolo all’interno dei meccanismi sociali, di collegare il disagio che li pervade e il loro stesso impoverimento in termini di soldi e di tempo libero, a ragioni politiche concrete piuttosto che, come viene fatto credere loro dalla propaganda televisiva e dai giornali di palazzo – oltre che dai partiti, Pd in primis – a un astratto ‘nuovo spirito del tempo’ chiamato modernità. Un lavaggio della memoria, mirato a cancellare dal discorso politico di sinistra il fatto che i miglioramenti delle condizioni materiali dei lavoratori ottenuti negli anni Sessanta e Settanta, si legavano a filo unico all’alleanza tra partiti di sinistra, sindacati (e movimenti extra-parlamentari che pure spesso si muovevano in contrapposizione a questi ultimi) e lavoratori, i quali partecipavano alle proprie lotte, forti di una autorappresentazione politica e sociale molto marcata.
Una consapevolezza piena di sé che era, prima di tutto, un’identità culturale. Sulla memoria di ciò, come collegare, oggi, stante la realtà spietatamente descritta dal saggio di Revelli, i successi di allora, ottenuti attraverso una forte conflittualità sociale, con il Veltroni che insiste a richiamare a uno spirito di comunità, e a parlare di una sostanziale convergenza tra gli interessi del padronato e dei lavoratori? Come collegare questa differenza culturale, senza pensare che dietro al Pd si muovano gli interessi del grande capitale?
Oggi nessuno si sgomenta quando Matteo Colaninno definisce Montezemolo ‘uomo di sinistra’. Perché ha ragione di affermarlo nel momento in cui si riferisce alla possibilità di fare affari con il suo partito di riferimento. E lui lo sa bene; perché ci è già passato durante i giorni del governo-ombra. È stata quella volta in cui, costretto dall’incarico di ‘responsabile delle politiche industriali’ conferitogli da Veltroni, si è ritrovato a valutare l’operazione di salvataggio dell’Alitalia promossa da Berlusconi con l’aiuto dei ‘capitani coraggiosi’ – un altro gruppo di salvatori della patria, capeggiato dal padre, Roberto Colaninno.
Situazione imbarazzante, perché Matteo è azionista di Omnia Holding, la società di famiglia che attraverso IMMS I partecipava con Cai (la cordata coraggiosa) all’intera operazione. Così, come nelle più belle favole, tutto è finito bene: l’affare si è fatto, i giornali hanno taciuto su certi piccoli particolari, e nelle tasche del giovane Colaninno è finito, dritto dritto, un plusvalore per milioni di euro. L’unico interrogativo da porsi, su questa vicenda, sarebbe sapere che cosa abbia scritto sul rapporto consegnato a Veltroni. Ma anche in questo caso si tratterebbe di un eccessivo tecnicismo. Perché, sotto il regime unipolare, con i partiti ridotti all’unica funzione di comitati d’affari, la nuova grammatica sarà proprio il conflitto d’interessi di berlusconiana memoria.