È da un pezzo che sostengo la seguente tesi: in Italia, se volete far litigare due o più persone tra loro, non parlate di politica; non lamentatevi delle ruberie dei potenti; non accennate neanche lontanamente al calcio. Parlate loro di cinema. Per qualche recondita ragione, che ancora francamente mi sfugge, persino amici fraterni di antichissima data arrivano non dico a scannarsi, ma a inveire pesantemente l’uno contro l’altro se invitati a discutere del film XY. Evidentemente ci sono delle eccezioni: la cosa non funziona coi senesi, a cui notoriamente basta un nonnulla in tema di Palio per far partire una guerra; non funziona (quasi mai) coi tifosi di calcio che hanno l’abbonamento allo stadio. Per il resto, fate la prova e vedete di nascosto l’effetto che fa. Ho un’esperienza e un’opinione limitate all’Italia, come detto. E le ho rinforzate all’uscita de La grande bellezza: l’onda lunga degli insulti reciproci è ben lungi dallo smorzarsi e io non intendo cavalcarla né alimentarla.
Piuttosto, visto che invece tutti ma proprio tutti sono contenti, se non entusiasti, della fotografia (dell’immenso Luca Bigazzi: è ora e passata che gli diano un Oscar) e della colonna sonora, parliamo delle musiche. Partiamo da un’affermazione dello stesso Sorrentino: “La musica del film è un semplice mix di musica sacra e profana, perché nella mia mente Roma è una città con questa grande caratteristica. È il centro del Vaticano, del mondo cattolico, e allo stesso tempo, c’è un mondo profano che lavora sotto il Vaticano”.
Se qualcuno aveva bisogno di un paradigma per capire come si può costruire una colonna sonora senza scriverla, bene, qui c’è un’affermazione importantissima e un ottimo esempio da seguire. La musica – propendo per la sua definizione come qualcosa di ‘asemantico’ ma non è il caso di spiegare qui il perché – in questo caso acquista un significato preciso, semplicemente dividendola in due campi. Se stiamo alle dichiarazioni di Sorrentino (che per quanto ne sappiamo ha scelto personalmente i brani non originali, bravissimo!) verrebbe da dire che la distinzione sia semplice e probabilmente basata sull’uso comune che viene fatto dei termini ‘sacro’ e ‘profano’ – forzando un poco l’interpretazione si potrebbe azzardare che questa distinzione avvenga anche a partire dai contesti visivi che vengono mostrati: a un contesto mondano come una festa si associa una musica da festa, a un contesto sacrale una musica sacrale… a un ambiente non da festa né sacro, un terzo tipo di musica. In ogni caso è una distinzione funzionale, basata cioè sull’utilizzo della musica in funzione ancillare e strumentale rispetto al contesto significativo parole+azioni+immagini. Vediamo se è vero.
Se non capisco male, tutta la musica contenuta nel secondo CD della colonna sonora è sostanzialmente profana: si parte dal martellante e ossessivo manifesto del kitsch che è A far l’amore cantata da Raffaella Carrà con Club Mix del DJ Bob Sinclair, transitando per Forever di un Venditti da gerontocomio, per passare all’house con Take My Breath Away di Gui Boratto, all’ossessivo e cocainico mambo Que no se acabe el mambo de La Banda Gorda e all’orrendo campionamento del povero Carosone in We No Speak Americano di Studio Allstars, tutte perfette per le terrazze del generone romano e i trenini più belli (“perché non vanno da nessuna parte” come dice Jep), per tornare al romanticismo pieno di speranza del finale con Ti Ruberò, un vecchio successo di Bruno Lauzi, malamente interpretato dall’inadatta voce di tale Monica Cetti. L’unico brano veramente di rilevo sul piano musicologico di questa sezione è composto dal bravo Lele Marchitelli, Color my world (per quartetto d’archi e DJ), autore peraltro delle interessanti musiche originali del film. A quanto capisco tutta questa musica è usata e definita ‘profana’ perché viene utilizzata come supporto, sottolineatura e quasi ridondanza di un contesto evidentemente profano. A meno di non ritenere che anche i balli e le feste in terrazza, i party matrimoniali, le chiacchiere del dopocena siano assimilabili a ‘riti’ e a una qualche strana forma di sacralità, tutta la musica del secondo CD da un lato esprime e dall’altra rimanda a un significante profano, ricco di declinazioni (dalle feste sex, drugs ‘n disco music con una dose extra di esibizionismo, agli apparentemente pudichi festeggiamenti di un matrimonio).
Sullo sfondo, una sorta di mega-significante ‘ombrello’ che è la vita stessa del protagonista. E dato che Jep tutto fa meno che giudicare, è facile vedere come questa sua vita sprofondi in routine fatte di cocktail e blablabla di sapore televisivo, corpi sudati ed esibiti ondeggianti sotto i bassi ossessivi delle feste, o abilmente celati in pseudo strip-club, salvo poi galleggiare nel silenzio di una passeggiata all’alba, in cui la memoria affida al biondo Tevere la deriva di un’esistenza in cui possedere un senso è una conquista preziosa ancorché smarrita da un pezzo: “Le vedi queste persone? Questa fauna? Questa è la mia vita. E non è niente”. Al massimo si acquisisce come dato di fatto che non si ha più voglia di perdere tempo a fare cose che non ci va di fare. E, come corollario, c’è evidentemente una perdita totale – peraltro comune a tutta la civiltà occidentale – del senso del ‘sacro’, che come tale può esser solo eventualmente rincorso o (ancora peggio) parodiato con esiti talvolta agghiaccianti.
È questo che succede nel punto di snodo del film, giusto a metà: la scena in cui il bel mondo che si ritrova alle feste di Jep, ma anche una suorina, partecipa silenzioso al (sacro? modaiolo?) ufficio della somministrazione del Botox da parte di un grande chirurgo estetico. Tutti assieme (sacro e profano, alto e basso, raffinato e volgare) appiattiti sul culto del corpo che non vuole conoscere il cambiamento. Non sarebbe stato impossibile trovare un brano che mescolasse più piani, ma forse sarebbe risultato ridondante. Sorrentino ha optato saggiamente per un semisilenzio, in cui si avverte un ronzio elettronico simile a quello di certe macchine da sterilizzazione o, meglio, per il sottovuoto.
E qui veniamo alla seconda parte, cioè al primo CD. Degli undici brani presenti almeno quattro esibiscono già dal titolo una dimensione sacrale. Sono: il Dies Irae di Zbigniew Preisner (usato nella scena del funerale del ragazzo suicida: s’avvicina il giorno della resa dei conti definitiva tra Jep e il suo cinismo); il medievale Beata Viscera di Perotin (Magister Perotinus), un processionale dedicato alla Madonna con le parole del teologo Philippe le Chancelier, eseguito da Vox Clamantis (scena dell’udienza di suor Maria); infine The Lamb di John Tavener, dalla celebre poesia di William Blake, raccolta in Songs of Innocence, in cui il poeta-bambino-agnellino scorge il mondo con l’innocenza tipica dell’infanzia, eseguita dal Choir Of The Temple Church. Il brano supporta tutto il finale, dove Jep torna in nave ai luoghi della sua adolescenza, suor Maria sale a fatica i gradini della Scala Santa e Jep rivede nella memoria il suo primo amore: il brano è sacrale nella misura in cui usa l’immagine biblica dell’innocente agnello sacrificale per rapportarla alla purezza d’intenti di un Jep giovane e di suor Maria. Ed è da lì che parte la ‘resurrezione’ umana e artistica di Jep, che tornerà a scrivere.
Aggiungo in coda The Beatitudes (1998), del compositore russo contemporaneo Vladimir Martynov eseguita dal Kronos Quartet che riecheggia spesso nel film: nella scena in cui Jep visita Ron che si è fotografato tutti i giorni (Ivan Franek), l’unico artista che esca indenne dall’impietoso ritratto della contemporaneità; nella scena in cui i nobili decaduti visitano il santuario della loro stessa infanzia e all’inizio della scena coi fenicotteri e suor Maria; soprattutto negli straordinari titoli di coda girati su un barcone che risale il Tevere all’alba. Qui le beatitudini evangeliche divengono finalmente senso, contemplazione pacifica, rasserenata, quasi estatica, di quella grande bellezza di cui Jep aveva del tutto perso le tracce. Dunque, più che di sacro parlerei piuttosto di una dimensione spirituale in senso lato, giacché sia della religione che dei suoi orpelli Jep non sa cosa farsene (specie dopo il colloquio impossibile col cardinale gastronomo).
Gli altri brani di impianto classico presenti sul primo CD non hanno significanti nel titolo, e piuttosto suggeriscono, evocano, insinuano persino una dimensione sacrale anche se in quelli provvisti di testo, nel testo tutto c’è meno che del sacro. Cito qui i più significativi: il primo brano del film, I lie (Io giaccio) del compositore minimalista statunitense contemporaneo David Lang (eseguito dal Torino Vocal Ensemble) è basato su una vecchia canzone yiddish dove il protagonista attende il suo amore che sta per arrivare e ne sente già da lontano l’avvicinarsi dai suoni del treno (I lie down in bed alone / And snuff out my candle. / Today he will come to me / Who is my treasure. /The trains run twice a day / One comes at night / I hear them clanging-glin, glin, glon / Yes, now he is near). Il brano è ammirevole per tecnica compositiva, giacché introduce le cantanti in sequenza, aumentando l’intensità e la complessità del pezzo, partendo da fievoli suoni notturni emessi da due, poi tre, poi quattro cantanti.
La tecnica di Lang, mirata a un effetto tranquillizzante, sta nell’utilizzo delle prime due voci come una sorta di pedale continuo, mentre le monotone onde sonore del treno notturno scorrono sotto la delicatezza delle parti melodiche delle altri cantanti. Piazzato in apertura del film, su un gruppo di turisti giapponesi davanti al fontanone dell’Acqua Paola al Gianicolo, suggerisce giustamente una situazione immobile (siamo in un’estate afosa) e di attesa: la grande bellezza è tutt’attorno e un giapponese, evidente preda della Sindrome di Stendhal, si fa venire un infarto… anche se più di uno spettatore aveva banalmente pensato a un colpo di caldo.
Il successivo My heart’s in the highlands è a firma dell’estone Arvo Pärt (alfiere di una sorta di neo-gregoriano minimalista) su testo del poeta scozzese Robert Burns che parla semplicemente della nostalgia del luogo natale (le Highlands scozzesi appunto). Il brano sottolinea per ben tre volte una sensazione di struggente nostalgia, che è poi la cifra di tutto il film a ben vedere: all’inizio dopo una tumultuosa festa notturna, Jep guarda giù dalla sua terrazza e vede (o crede di vedere) una giovane suora che gioca allegramente e in modo molto materno con dei bambini dentro un bellissimo giardino labirintico; a questa sensazione si sovrappone la straniante performance dell’artista nuda e velata che dà una capocciata clamorosa al muro d’un acquedotto, si rialza e sanguinante urla: «Io non vi amo» agli stupefatti spettatori, con l’ancora più straniante successiva intervista (azzardo che sia una solenne presa in giro di Marina Abramovi´c); un’ora dopo il brano torna a evocare il primo amore di Jep.
Il terzo brano è l’adagio dalla Sinfonia No. 1 in do maggiore di Georges Bizet, un lavoro giovanile, profondamente influenzato dal di lui mentore Charles Gounod, Anche qui è fuori luogo parlare di sacro: tutt’al più, dopo una breve introduzione, che crea una sottile atmosfera d’attesa, è l’oboe a intonare un tema incantato e nostalgico su un accompagnamento in pizzicato delle viole. Azzeccata quindi la scelta di usare il brano usato a metà film quando Jep, Ramona e il misterioso Stefano (dalle chiavi che aprono le porte segrete) fanno una passeggiata tra palazzi e musei, in cui dal buio emergono incredibili bellezze, immote e lontanissime.
Gli altri brani di impianto ‘classico’ presenti (World to Come IV sempre di D. Lang e il Lento, cantabile semplice di H.M. Górecki dalla Sinfonia n. 3 op. 36) hanno anch’essi funzioni suggestive più che sacrali in sé. Se non fosse che ha già vinto un Oscar come miglior film straniero, gli avrei dato l’Oscar per la migliore colonna sonora. Da vecchio DJ radiofonico posso assicurarvi che funziona perfettamente, ed è allegramente saccheggiabile per i vostri usi successivi e ulteriori. E questo, scusate se è poco, taglia via buona parte delle sterili polemiche dell’Italietta in cui ci sono (come nel calcio) 60 milioni di critici cinematografici e musicali e una ristretta minoranza che il cinema e la musica li fanno sul serio. Ho detto.
P.s. Neanche a farlo apposta, mi giunge adesso voce che Raffaella Carrà abbia voluto naturalmente attribuire il successo del film al suo tormentone.
La grande bellezza, AA.VV., Emi, 2013