di Luciana Viarengo |
Recensione de Il delitto dei giusti, André Chamson
Lordati come siamo dal limo delle questioni immorali, la lettura di un romanzo come Il delitto dei giusti di André Chamson, edito l’anno scorso dalla Marcos y Marcos, risulta corroborante per lo spirito grazie alla sobrietà e alla puntualità con le quali stimola a riflettere su morale, etica pubblica e privata, doveri, verità, virtù, onore… Insomma, materiale spinoso che scivola sul filo di una trama potente, ma dipanata con levità e minimalismo, senza traccia di retorica, di moralismo, né tantomeno di volgarità: tutti elementi che, al contrario, una quotidiana lobotomia per via mediatica ha reso imprescindibili dalla nostra vita.
“Se vivi come loro, se segui l’esempio di quella famiglia, tutti ti rispetteranno”: questo l’incipit, con la sua premessa implicita di una virtù specchiata. L’io narrante – che dopo questo primo paragrafo sfumerà in un invisibile narratore onnisciente per tutto il resto del romanzo – ricorda quando, bambino, restava rapito dalle parole di sua nonna che con toni da leggenda gli parlava dell’onestà di quella gente e, al termine della narrazione, la sua meraviglia era “pari a quella di tutti i valligiani”. Ma nelle otto righe di apertura, dietro l’attestato di valori ai limiti del fiabesco, traspare la promessa – altrettanto implicita – dell’eterna scissione tra verità e apparenza.
I valligiani, alla cui meraviglia il bambino di allora assimilava la propria, sono cévenol, nascono e vivono all’ombra delle creste rudi delle Cévennes, nella severità della montagna e delle tradizioni dell’antica enclave ugonotta. E in fatto di etica, chi meglio di loro? Laggiù, lungo qualunque tornante, da ogni ponte, davanti a qualsiasi pertugio di torretta o di colombaia, guardando verso “i crinali dove nascono le nuvole”, si può scorgere il Maubert, l’ultima fattoria.
Su quei possedimenti strappati alla montagna da un duro lavoro di braccia, troneggia la dimora padronale che, oltre il fiume, dopo i boschetti solitari, al di là dei pascoli e dei campi di segale abbarbicati sopra le scarpate, si erge sopra gli alberi e i pendii erbosi. Il Maubert, custode del paesaggio, simbolo del potere materiale, ma soprattutto dell’autorità morale che i suoi proprietari esercitano sull’intera comunità. Fra quei romitaggi, infatti, vivono e prosperano gli Arnal, quella gente. Una famiglia contadina della quale ogni membro condivide il medesimo sangue, con matrimoni che mescolano cuginanze e generazioni già confuse. Sono per giunta accomunati da un soma così definito e distintivo da impedire ai valligiani una corretta identificazione della vasta popolazione familiare del Maubert, definita per brevità “i cugini”.
Ma, soprattutto, comune a tutti loro è l’impronta fulgida della virtù, che splende a partire dal capofamiglia. Il vecchio Arnal, conosciuto e rispettato in tutta la vallata, ha settant’anni e da oltre quaranta è consigliere comunale, tanto che per antonomasia il suo nome è ormai divenuto per tutti Consigliere. Ogni domenica mattina della buona stagione, i cévenol chiusi nei loro abiti neri, le donne avvolte nelle sciarpe dalle lunghe frange sulle quali riposano bambini tenuti in collo, affollano la piccola stanza che in municipio precede le sale consiliari. Non prestano attenzione alcuna al sindaco, sebbene presente. La loro attesa ha come unico fine un colloquio con Consigliere. Per pacificare animi, dirimere questioni, indicare la giusta soluzione, lui ascolta e poi, appassionatamente risolve, perché come i suoi predecessori e i suoi eredi è un uomo giusto e conosce la legge. Così, di casa in casa, di fattoria in fattoria, di pascolo in pascolo rimbalzano parabole, a rinsaldare l’epica morale di un personaggio, di una schiatta, di un luogo – il Maubert – dai quali la giustizia si effonde, come una grazia divina, su tutto il paese.
Questo lo status quo. Talmente vicino alla perfezione che Consigliere, e gli Arnal tutti, potrebbero essere definiti, senza ombra di dubbio, uomini morali. E giusta, di riflesso, la comunità che a questa fonte di probità si abbevera. Ma esistono le variabili aleatorie e nel caso degli Arnal la variabile si chiama Clémence, nipote del vecchio Consigliere, bella, selvatica e sordomuta.
Priva di quella smania di farsi comprendere che affligge a volte chi ne è impossibilitato, avvolta in un silenzio infranto solo dai moti dell’aria e del sangue – le eco per lei più affini ai rumori della vita – Clémence è il simbolo dell’amoralità, dell’istinto, della forza naturale, giustapposto a quello dell’etica, del controllo, del potere dell’uomo, ascrivibile alla figura del capofamiglia. Sarà lei, infatti, più assonante con i cicli naturali che con le leggi umane, a infrangere un tabù tra i più temuti, e a minare così l’impianto morale del protagonista.
E, con un effetto domino, quello di tutto il Maubert.
Nella simbiosi con il fratello Maurice, con il quale da sempre spartisce il tempo, i giochi e gli spazi verdi e solitari, immersi nel silenzio al quale la menomazione di lei li costringe, l’intimo legame con la terra e con il corpo diviene per loro un linguaggio che non necessita di parole. Fino a quando Maurice, sdraiato su di lei, dimenticherà definitivamente “le parole umane con cui si sanciscono le morali e i doveri”.
Una scena dipinta in poche righe nel suo compimento, non attraverso gli atti ma attraverso le motivazioni che a quegli atti hanno portato: nel silenzio che le accompagna, le loro azioni appaiono ineluttabili e naturali, remote eppure intrinsecamente legate – in quanto causa scatenante – a tutto ciò che, da allora in avanti, avrà luogo.
L’incesto, scoperto solo grazie alle sue conseguenze ormai irreversibili, strappa di dosso a Consigliere la sua veste di uomo giusto: la macchia che infanga la reputazione degli Arnal è in grado di sovvertire un ordine instaurato da generazioni; ciò che importa è che nulla cambi, che la virtù da sempre riconosciuta loro dalla comunità non venga meno.
Il suo primo pensiero espresso ad alta voce è: “La gente dirà: ‘Ecco gli Arnal, retti dinanzi al mondo e, dietro, peggiori dei peggiori…’ Ah, ma a questa stregua io non esco più dal Maubert, che la neve e la pioggia ci taglino fuori da tutto e che io muoia nel mio cortile… Mi ci vedi ora in consiglio comunale? Io, Arnal!”
Da questo momento la figura potente e positiva di Consigliere perde consistenza e le si sovrappone quella di un immorale pronto a sporcarsi le mani di sangue in nome dell’onorabilità. Non che Chamson non avesse seminato tracce per il lettore nel corso della narrazione. Ha infatti mostrato come in ognuno di loro, primo fra tutti Consigliere, “la preoccupazione del giudizio che gli uomini potevano dare su ciascuno dei loro atti spronava la loro coscienza come un testimone spietato”. E i loro costanti esami di coscienza non prescindevano mai dalla consapevolezza del giudizio altrui: per gli Arnal la loro reggenza morale sulla comunità non si basava semplicemente sull’onestà, quanto piuttosto “sulla fiducia che a questa onestà si accordava, al rispetto che le si tributava”.
In nome di questa fiducia, per non infamare la reputazione immacolata del Maubert, Consigliere esercita per l’ennesima volta, e senza parere, il proprio potere morale sulla famiglia, macchiandosi e costringendola a macchiarsi di una colpa ben più grave.
Il processo di erosione è ormai avviato, il potere materiale e morale che ha reso forti i meccanismi vitali del Maubert e di tutta la valle si sgretola giorno dopo giorno, e lo stesso Consigliere lascia che gli scivoli tra le dita come sabbia. La famiglia si smembra, il Maubert perde le braccia che fino ad allora ne hanno garantito la ricchezza.
Anche l’etica degli Arnal, svuotata ormai di ogni moralità, sopravvive per qualche tempo, come un simulacro portato in processione, ma finisce per rivelarsi, a loro stessi prima che agli altri, un guscio improvvisamente svuotato del frutto prezioso. Infatti, dopo aver sacrificato tutto per mantenere intatto quel potere, il vecchio Arnal scopre quanto esso gli sia ormai divenuto indifferente. E non a causa del rimorso, ma piuttosto per una “rivolta del cuore”, per il desiderio bruciante di riavere la purezza originaria, della quale il potere è stato solo la logica conseguenza. Ma mentre la purezza è ormai perduta, gli Arnal dovranno accettare che il potere sopravviva, loro malgrado.
Il delitto dei giusti è stato scritto nel 1928, e il suo autore, André Chamson (membro dell’Académie française, coevo – e in taluni casi amico – di Gide, Camus, Sartre e Malraux), è pressoché sconosciuto in Italia. Merita la sua scoperta questo libro, che attraverso uno stile essenziale compone scene di straordinaria bellezza, e affronta tematiche da tragedia senza assumerne mai i toni. Lo fa, invece, con una scrittura talmente evocativa da trascinarci, nello sfoglio di poche pagine, dalle serene visioni impressioniste degli scorci campestri alle buie e cupe atmosfere fiamminghe dei momenti orrifici; dal profumo di terra dei maggesi e di mele rovesciate sul tavolo di legno sonoro, all’afrore dolciastro e nauseante di un carcame sul quale banchettano sciami di mosche. Rettitudine e perdizione. Paradisi e inferni. Separati solo dalla linea intangibile della morale.
Il delitto dei giusti, André Chamson, Marcos y Marcos, 2008