Lo so che la Storia non si fa con i ‘se’ e con i ‘ma’ e soprattutto che il caldo dà alla testa e che queste note potranno apparire un poco affastellate ma…
Provate a immaginare che una ragazza italo-americana né bella né brutta, né talentuosa né priva di talento, rimanga – semplicemente – tale e che tenti di sfondare in un qualunque campo che non sia la politica (rimanendo quindi negli USA, ovviamente). Stefani vuol fare della musica? Mmmmmmh, c’è qualcosa che non va. La voce potrebbe anche passare, e le canzoni se le scrive da sola o quasi, e dunque sotto questo profilo è persino meglio di Madonna. Ma il look, quello proprio non va. Ecco dunque che Stefani Germanotta si inventa Lady Gaga. Nel calderone magico che tutto frulla finiscono svariati ingredienti: sfrontatezza, esibizionismo, voyeurismo, citazionismo a tonnellate, ambiguità sessuale – in svelta sintesi tutto l’armamentario di chi voglia meravigliare provocando, accumulato e sperimentato nel secolo scorso e forse come vedremo anche più indietro. Manca un ingrediente fondamentale, senza il quale il prodotto non è assolutamente vendibile: i passaggi in tv, ancora meglio se sono di due specie come i video-clip censurati perché troppo spinti e i concerti dal vivo dove ci si tuffa sul pubblico e si lan ciano proclami messianici buoni per tutte le evenienze e per tutti i pubblici.
Ok, il gioco è fatto, il personaggio è stato creato, il prodotto è venduto, tutti guadagnano e sono felici. Domanda: e a noi cosa rimane? Ovvio, la possibilità di comperare.
Più sottilmente, ma neanche tanto, la possibilità di identificarci e gratificarci di una nuova identità-puzzle garantita, col visto di censura, apparentemente trasgressiva e fondamentalmente innocua.
Non posso neanche dire che mi sono stufato di personaggi del genere, visto che ci vuole poco a capirli e ancora meno a consumarli, come la gomma da masticare moderna di cui non faccio uso (vi ricordate quella di quarant’anni fa? Quella sì che persisteva. Adesso per farne consumare di più, il gusto cessa dopo tre minuti e devi ricominciare – assoluta dipendenza). E dunque perché mai parlo di Lady Gaga? Perché, più che un’icona, è un sedativo, un tranquillante, fatto assemblando pezzi di materiale predigerito e collaudato.
Questo ci propone il mercato oggi: copie di copie di copie, neanche copie primarie, solo copie derivate e sbiadite come se magicamente si autoriproducessero. Chi c’è dietro Lady Gaga? Visto che il maschile e il femminile sono trop po impegnativi da assumere contemporaneamente dentro di sé in versione matura e integrata, bisogna essere come minimo bi se non tri (tri?) sessuali (o vendersi come tali). La genealogia è lunghissima e si perde nella notte dei tempi sino a Platone e al mito dell’androgino (almeno lì le cose erano semplici e ben definite: tre tipi di esseri: uomodonna, uomo-uomo, donna-donna) passando a ritroso per Madonna, Freddie Mercury (Lady Gaga viene da Radio Ga Ga dei Queen, per chi non lo sapesse), Dustin Hoffman in
Tootsie, Julie Andrews in Victor Victoria (una donna che si traveste da uomo che si traveste da donna – in definitiva una donna che si traveste da donna, sublime), Lemmon & Curtis in A qualcuno piace caldo e, prima di tutti, l’inarrivabile valkyrienkabarett di Lola-Lola della bisnonna Marlene Dietrich, della trisnonna Ninotchka-Greta Garbo, con in mezzo l’ebrea svedese dalla caldissima voce Zarah Leander, che fece impazzire le SS del Terzo Reich (che si depilarono e mascherarono come donne per ballare nei film di Zarah) e che fornì lo stampo all’unica vera inimitabile icona trasgressiva dei giorni nostri, lei sì dotata di cinque ottave di voce, attitudine punk e autentica follia, alias Nina Catharina Hagen, nata nella DDR, e attualmente cattolica blues dopo un lungo periodo di Hare Krishna psichedelico. Verrebbe da guardare la povera Germanotta con compassione e dirle di darsi una regolata. Parafrasando San Demetrio (Stratos): gli dèi se ne vanno, le brutte copie restano.
Se non ci fossero la tv e internet la povera Germanotta non avrebbe avuto scampo. Dice: che t’importa, è andata sul palco del festival gay a reclamare rispetto e diritti per tutti i diversi e ha sfruttato abilmente il palco e la visibilità per lanciare messaggi di pace amore e uguaglianza, lei sì che è figa. Sarà, ma più passa il tempo più credo sia venuto il momento di sottrarsi alla visibilità mediatica – come se l’antica paura degli indigeni che non volevano farsi fotografare per timore di farsi rubare l’anima diventasse il paradigma del futuro. Il primo slogan non dovrebbe essere ‘pace amore uguaglianza e visibilità per tutti’ perché, come insegnava Andy Warhol, un poco di visibilità in tv prima o poi tocca a chiunque, versione moderna del panem et circenses: sono perché sono apparso nello schermo tv, che convalida la mia esistenza, oppure su YouTube, col mio filmino demenziale. E così la smaterializzazione del corpo fisico fornisce materia e finanziamenti per i nuovi studiosi dei nuovi fenomeni. Io sostengo che ciò sia politicamente immorale e rivendico il diritto all’invisibilità fisica e quello altrettanto importante del recupero della dimensione auditiva nei rapporti col mondo.
Non so se la voce di Salinger, grande penna invisibile, sia mai stata registrata, ma so per certo che la voce di Syd Barrett, grande ugola invisibile, ha continuato ad andare in giro per decenni e la sua luce di pazzo diamante ha continuato a brillare; e così pure la voce di velluto malinconico dell’immenso Nick Drake, sottrattosi da solo già in vita alla visibilità, per non parlare dei Residents, portatori addirittura della filosofia dell’invisibilità dell’opera d’arte e invisibili sistematicamente coi loro volti al pubblico.
Non temo i fantasmi: le voci del passato e anche del presente sono sufficienti a tenermi allegro o malinconico senza che io abbia alcuna necessità di guardare la faccia da cui promana la voce. Video killed the radio star recitava un fortunato brano dei Buggles, raccontando la storia di un ragazzino innamorato di una stellina pop sentita alla radio e della subitanea delusione quando egli finalmente la vide in tv: nonostante tutto il glam che la circondava, l’immaginazione del ragazzino venne ferocemente delusa, e dunque tutto l’amore crollò.
Io non so né voglio sapere che faccia abbia Dario Brunori, calabrotto di Guardia Piemontese, in arte Brunori SAS, ma la voce mi fa viaggiare. Ho ascoltato e riascoltato la sua ultima fatica, Poveri Cristi, e fondamentalmente non capisco, anche se tutto sommato apprezzo, come mi auguro facciate anche voi. Non capisco se il giovanotto lo faccia apposta a cantare come (Dalla, Rino Gaetano, Lucio Battisti, solo per dirne alcuni) e dunque il suo sia un modo rispettabilissimo di omaggiare o semplicemente seguire i suoi idoli o le sue fonti d’ispirazione, così come nel Rinascimento si cantava alla maniera di Firenze o di Napoli – e a questo punto uno vorrebbe prima o poi anche sentire la sua voce originale, che non riesco però a trovare; oppure se il suddetto non abbia assolutamente l’intenzione che gli ho attribuito, e dunque canta con la voce che ha senza rendersi conto che, appunto, canta alla maniera di – un poco come accadeva al povero Alighiero Noschese, la cui voce oscillava a ogni nota come un equilibrista sul filo pronta ad assomigliare a una delle mille voci che egli divinamente imitava.
A parte questo, mi piacciono l’ispirazione, che trovo sincera e anche ruspante, persino amaramente consapevole, e i conseguenti testi. Il genio di Rino Gaetano aleggia un po’ dappertutto, anche se il nostro Brunori ha dalla sua un certo talentaccio per gli arrangiamenti che Rino non aveva.
Bastino per tutti i riff ostinati di chitarra acustica e percussioni (eh sì, il nostro è scarno, ma efficacissimo) di questi due brani: Rosa – un’amarissima storia di impossibili matrimoni da emigrati, con un Hammond da Steve Winwood – e Il suo sorriso (battistiana fino al midollo in tutto, nel recitato come nell’arrangiamento come nel verso “io non so più a chi credere”), la storia di un triangolo amoroso mica tanto ingenuo, cantato con la complicità dell’amico cantautore Dente.
Soprattutto, il nostro si mette in evidenza perché a mio avviso appartiene a quella genìa di trentenni che sanno raccontare benissimo, con un distacco e finanche un sarcasmo che a volte mi sconcerta, le storie quotidiane del nostro povero paese berlusconizzato, e dunque anestetizzato e teledipendente. Le vicende di ogni giorno vengono disseccate e poi sbattute in faccia al mondo senza retorica e soprattutto senza cadere nel qualunquismo che pervadeva Battisti. Prendete il caso de Il giovane Mario che non riesce a fare i conti con il suo salario e si svapora i suoi sogni con una slot machine. È un povero cristo “con quattro bocche da sfamare”, che “strappa i giorni al calendario“, che “ha giocato troppe volte con la vita” e prova a saldare i debiti legandosi il collo con una corda al lampadario, “purtroppo” senza fare “i conti col solaio”. Provate infine ad ascoltare Una domenica notte: è come una Polaroid venuta un po’ mossa che parla di sensazioni domestiche notturne che si ripetono e non si sa il perché, e di deduzioni ottimistiche senza alcun fondamento. Una buona conferma, insomma.
A patto che non gli venga voglia di andare in tv.
Brunori SAS: Vol. 2, Poveri Cristi (Picicca Dischi, 2011)