Il recentissimo libro di Arnaldo Benini Neurobiologia del tempo (Raffaello Cortina Editore, 2017) si legge in un ‘lampo’. Trattasi evidentemente di una contrazione della percezione del tempo (dell’esperienza soggettiva del trascorrere del tempo) che si realizza – come afferma lo stesso autore – attraverso particolari operazioni del sistema nervoso, su qualcosa che si sta facendo o su qualcosa che piace. Il saggio è facile da leggere anche quando tratta temi complessi. Le parole e le frasi scivolano via agili, senza difficoltà. Perché, allora, nonostante questa semplicità e questa facilità di lettura (e di scrittura), questo saggio sulla neurobiologia del tempo mi lascia in bocca il sapore arido dell’indeterminatezza?
Il tema – quello del tempo – è molto difficile. Diciamo la verità: comprando il libro, ci si illude che l’autore squarci il velo sulla misteriosa natura del tempo e sulla sostanza di cui esso è fatto. Sull’argomento, filosofi e scienziati hanno cercato da sempre le loro verità, ma nessuna di esse è riuscita ad affermarsi in modo universale. Il tempo è un oggetto e un concetto troppo evasivo per essere imbrigliato in una definizione, come afferma lo stesso Sant’Agostino citato dall’autore.
Una delle ragioni di questa difficoltà è proprio quella di pensare al tempo come a un oggetto e anche come a un concetto. Un oggetto (che si può misurare) e un concetto (che si può solo pensare) sono due cose completamente diverse, così diverse che non si capisce perché, quando parliamo di tempo, usiamo un unico termine per riferirci a esso. Molte delle incomprensioni sono dovute alla ambiguità che deriva dall’utilizzo di un unico termine. Su questo aspetto fondamentale, l’autore del saggio non spende molte parole.
O meglio, egli parla brevemente e in modo esaustivo del lavorio dei filosofi sulla questione del tempo. Egli descrive in modo semplice ed esauriente il fatto che molti fisici quantistici abbiano escluso la dimensione temporale dai loro discorsi, dalle loro formule, dai loro modelli. Egli narra le distorsioni cliniche del senso del tempo con un’eleganza che ricorda l’inarrivabile Oliver Sacks e il profondissimo Aleksandr Lurija. Egli ci mostra il centometrista che scatta prima ancora che la sua coscienza abbia registrato lo sparo dello starter e come, poi, i meccanismi sconosciuti della coscienza facciano in modo che, soggettivamente, egli percepisca coscientemente la contemporaneità dello sparo e dello scatto.
Egli ci illustra in maniera piana e perfettamente accessibile (senza formule e dettagli tecnici) i fondamentali esperimenti di Benjamin Libet che hanno sconvolto il mondo, hanno messo in dubbio il libero arbitrio, e ci hanno fatto capire che noi – e tutti gli esseri coscienti – non viviamo il presente che crediamo di vivere, ma viviamo costantemente nel passato. Un passato non molto distante dall’ineffabile presente: da mezzo secondo a un secondo (secondo il tempo misurato dagli orologi). Non viviamo il nostro presente ‘in diretta’, ma leggermente ‘in differita’. L’effettiva discrepanza temporale tra fatto accaduto e coscienza del fatto ci metterebbe in seria difficoltà: per fortuna, tale discrepanza viene completamente cancellata dai meccanismi della coscienza che ‘risincronizzano’ il nostro passato reale col presente percepito.
Sono questi aspetti, quelli di una coscienza radicata nella neurobiologia, a fornire il materiale per il titolo del saggio di Arnaldo Benini. Purtroppo, i meccanismi che compiono il miracolo della sincronizzazione sono ancora molto lontani dall’essere spiegati ma, questo, nelle scienze, non è essenziale: l’importante è avere capito che lì c’è molto da studiare. Prima o poi, le scienze ci daranno una risposta.
Peccato, però, che un’altra scienza (la fisica) sembra essere pervenuta a conclusioni opposte: il tempo non esiste. L’autore è uno scienziato e, come tale, ha piena fiducia nelle scienze e afferma che, prima o poi, se qualcuno ha commesso un errore di valutazione o di calcolo, questo errore verrà riconosciuto. Magari, domani i fisici quantistici rivedranno le proprie posizioni. Il tempo esiste, eccome se esiste, afferma Benini: il tempo esiste perché è il cervello a crearlo. Una affermazione del genere fa subito venire in mente che allora, in assenza di cervelli pensanti, il tempo non esista, dando così ragione ai fisici quantistici.
Ma anche loro, in fondo, ci lasciano in un certo imbarazzo quando affermano che, in barba a un tempo che non esiste, l’universo è emerso (da dove non si sa) quattordici miliardi di anni fa. E il tempo? Il tempo è emerso con l’universo. Ma allora esiste, il tempo! Sì esiste, afferma Benini: lo crea il cervello. Sono perplesso. Qui c’è qualcosa di poco chiaro. Non è che per caso si sta parlando di cose diverse? Non è che si potrebbe chiamare ‘Tempo’ (T) qualcosa che ha a che fare (e che potrebbe anche non esistere) col tessuto dell’universo, chiamando ‘tempo’ (t) l’idea del tempo che nasce nei nostri cervelli?
Nel saggio di Benini – comunque interessante – questi e altri ‘tempi’ sono tutti impastati tra loro. Ci sono troppi lati oscuri che nascono tutti da una terminologia semanticamente inadeguata, e non mi riferisco alla semantica del termine tempo. Con un po’ di attenzione, si riesce a capire quando l’autore parla del tempo dei fisici, di quello percepito, o dell’idea di tempo. La situazione più complicata è data da due altri termini: ‘reale’ ed ‘esiste’, entrambi riferiti al tempo. In una decina di passaggi cruciali, l’autore afferma che il cervello crea il tempo e, perciò, esso esiste ed è reale. Due passaggi esemplificativi, su questo punto.
Uno a pagina 32: “La manipolazione continua del senso del tempo a opera del cervello conferma che il tempo è da esso prodotto […] e che è reale”; l’altro, a pagina 74: “Il tempo, di cui la fisica si occupa per espellerlo dalla realtà, è la creazione cerebrale di una dimensione del reale”. Se, in
luogo di ‘tempo’ si dicesse ‘il senso del tempo’, le cose sarebbero molto più chiare. Per esempio, in un passaggio a pagina 88 non si registra alcuna ambiguità quando l’autore afferma: “Il prima e il dopo sono stati prodotti da sistemi nervosi per dare un ordine alla percezione della realtà e di se stessi”.
L’autore, in questo saggio si riferisce molto spesso al senso del tempo, alla coscienza del tempo, all’esperienza del tempo: è certamente in questo ambito che la neurobiologia (ma anche la psicologia) lavora per comprenderne i meccanismi soggiacenti. Tutto ciò è molto chiaro. Tuttavia, all’interno del saggio troppi altri tempi e troppi altri attributi del tempo cadono sotto un unico ed equivocabile termine: ‘tempo’.
Quanto al verbo esistere, una cosa è dire che “il senso del tempo esiste perché lo crea il cervello”, dove il senso del tempo esiste per la nostra coscienza; ben altra cosa è dire che “il tempo esiste perché lo crea il cervello”, dove il tempo, forse, esiste come concetto nel mondo delle idee, per esempio, nel mondo 2 e nel mondo 3 di Popper e Eccles, filosofi, questi, che non trovano spazio nel colto saggio di Benini (1).
Il verbo ‘esistere’ è infido perché ha a che fare con l’emergenza della realtà, altro temine difficile da maneggiare. Mi viene da pensare che il cervello dell’uomo, tra i molti concetti, ha creato anche il concetto di Dio. Questo è di per sé sufficiente per affermare che Dio esiste ed è reale? Esistere e realtà: due termini da maneggiare con cura.
Un’ultima notazione. Qua e là nel saggio ci sono brevi passaggi e considerazioni interessanti, che vivono di vita propria e meriterebbero d’essere discusse in separata sede. Una per tutte è quella sul riduzionismo (visto, per l’appunto, da uno scienziato riduzionista): “Il riduzionismo (o fisicalismo, per le neuroscienze) è prezioso perché, oltre alle regole della ricerca, ribadisce i limiti
della conoscenza” (pag. 90). Qui ci sarebbe molto, moltissimo, da discutere. Ma questa è tutta un’altra storia.
1) Cfr. Popper KR, Eccles JC. L’io e il suo cervello. Armando editore, 1981