Domenico Corrado
“A Milano la mafia non esiste. Ci sono singole famiglie mafiose ma la mafia non esiste”. Con questa dichiarazione l’ex Prefetto di Milano, Gian Valerio Lombardi, apriva l’audizione della Commissione parlamentare antimafia riunitasi dopo anni di assenza a Milano, il 22 gennaio 2010, per un summit di tre giorni in vista dell’Expo 2015, dei suoi cantieri e di un allarme legato alle infiltrazioni della ‘ndrangheta denunciato nei giorni precedenti dall’allora ministro dell’Interno Roberto Maroni e dal capo della polizia Antonio Manganelli. Il commento aveva provocato scandalo nel Pd, che aveva parlato di “vergogna”, e nel sindaco Letizia Moratti, la quale dopo avere dichiarato che “se come è vero che gli emissari delle cosche calabresi a Milano vivono e lucrano” (1), precisava tuttavia la sua estraneità nell’affossamento della commissione comunale antimafia voluta dall’opposizione per monitorare il grande evento. Dall’entourage del prefetto di Milano, il giorno successivo, arrivava la garanzia che non era in discussione l’ammettere la presenza delle organizzazioni criminali, “quanto il loro modo di agire. Un agire da intendersi più imprenditoriale (appoggi in luoghi di potere, scalate a società, accumulo di ditte soprattutto dell’edilizia) che esecutivo-criminale” (2).
La dichiarazione del prefetto oltre ad avere reso evidente la sottovalutazione del fenomeno, soprattutto in vista della grande quantità di denaro pubblico che verrà stanziato per l’Expo, ha fatto emergere un ritardo culturale, che a distanza di tre anni si può dire oggi, forse, ormai colmato, che pensa che l’Italia della mafia sia solo il meridione. Perché la ‘ndrangheta non ha patria e si muove silenziosamente all’ombra del grande business laddove esiste la possibilità di ricavare enormi profitti, e, nonostante abbia sempre cercato di mantenere un profilo criminale basso – perché gli affari illeciti nel silenzio si svolgono con più tranquillità – ha dimostrato di possedere un apparato militare efficiente in grado di piegare qualsiasi resistenza, e che, talvolta, ha perfino goduto del favoreggiamento di uomini delle forze dell’ordine, come nel caso dell’ex carabiniere della caserma di Rho, in provincia di Milano, Michele Berlingeri, condannato a tredici anni e mezzo in seguito alla maxi operazione Infinito del 13 luglio 2010 contro la ‘ndrangheta in Lombardia.
E infatti la storia della ‘ndrangheta nella regione ha un lungo corso, che inizia negli anni Cinquanta con i primi malavitosi calabresi mandati al confino nel nord Italia (3), e che arriva fino ai giorni nostri, dove ha acquisito un potere tale da potersi infiltrare in ogni attività economica e istituzionale rappresentando, spesso, l’avanguardia del capitalismo italiano.
La prima generazione della malavita calabrese crebbe e si sviluppò all’ombra dei piccoli centri periferici come Buccinasco (4), San Donato Milanese e San Giuliano Milanese, mischiandosi con la massa di compaesani partiti alla volta del nord in cerca di lavoro e fortuna. L’incontro fra queste due realtà diede alla malavita la possibilità di ‘organizzare il territorio’ attraverso la mentalità e gli stessi costumi della natia Calabria, riuscendo, così, per mezzo della paura e dell’intimidazione, a creare una rete sociale spesso connivente.
Il primo boss operante in Lombardia fu Giacomo Zagari. Nativo di San Ferdinando, nella piana di Gioia Tauro, si trasferì a Gallarate, in provincia di Varese, alla metà degli anni Cinquanta, diventando presto il punto di riferimento di tutti gli uomini delle ‘ndrine che giungevano in Lombardia, e boss indiscusso del Varesotto. A quei tempi gli introiti dei boss venivano ricavati essenzialmente dal pizzo, ossia dall’estorsione di denaro nei confronti di piccoli e grandi imprenditori. Questa pratica, fin dagli esordi, dimostrava la dualità del suo scopo: da una parte il fine economico e finanziario, e dall’altro quello politico-militare legato al controllo del territorio. Ma siamo ancora lontani dal periodo in cui la ‘ndrangheta, attraverso la sua forza di persuasione finanziaria e militare, riusciva a insinuarsi nel tessuto politico ed economico della regione più ricca e produttiva del Paese, fino a minarne le basi democratiche.
Infatti bisognerà attendere la metà degli anni Settanta e la stagione dei sequestri per vedere emergere gli ‘uomini nuovi’ che faranno compiere un salto di qualità alla politica criminale della ‘ndrangheta in Lombardia. Ad aprire la stagione dei sequestri ci aveva pensato Cosa nostra con il primo rapimento, quello dell’imprenditore Piero Torielli, prelevato a Vigevano, in provincia di Pavia, il 18 dicembre 1972, da un commando diretto da Luciano Leggio, e che si concluse con il pagamento di un riscatto di un miliardo e mezzo di lire. Da quel momento Milano e la Lombardia si trasformano in una miniera d’oro per tutti i gruppi di sequestratori, che in dieci anni misero a segno decine di sequestri di persona, alcuni finiti tragicamente con la morte del rapito.
I rappresentanti calabresi di quella stagione furono i Pesce, i Mazzaferro, i Barbaro, i Paviglianiti, i Morabito, i Papalia e i Sergi, federati in un patto di alleanza e ideatori del sequestro di Cesare Casella, l’alleanza Coco Trovato-Flachi e i De Stefano. Attraverso i sequestri di persona la ‘ndrangheta iniziava ad affinare l’organizzazione – poiché per gestire un rapimento è necessaria una efficiente base logistica e un controllo capillare sul territorio in cui si opera – e ad arricchirsi, allargando cosi il business criminale verso nuovi e più ampi orizzonti, quello del narcotraffico di eroina e cocaina.
All’inizio degli anni Ottanta, con l’aggressione sovietica dell’Afghanistan, il Paese produttore del 95% dell’oppio del mondo, l’Europa – e quindi anche l’Italia – veniva sommersa di eroina a buon prezzo, il cui traffico arricchì i cartelli siciliani e calabresi ridefinendo la cartina tornasole della criminalità organizzata nel nord Italia. Come per la stagione dei sequestri anche nel business del narcotraffico i ‘calabresi’ iniziarono al traino delle famiglie siciliane. Appoggiandosi prima al cartello Ciulla-Uguccione, e successivamente ai Fidanzati e ai Carollo, i quali negli anni Ottanta detenevano il controllo del mercato dell’eroina, la ‘ndrangheta riuscì presto a scalzare il ruolo predominante di Cosa nostra: “I calabresi si misero in proprio molto rapidamente, iniziarono a trattare con i turchi, che hanno basisti a Milano a cui far arrivare i carichi di eroina. Cosa nostra, che deteneva il monopolio, non riuscì ad arrestare la crescita dei calabresi e cosi tentò la via diplomatica, che fu al tempo stesso un riconoscimento del nuovo status raggiunto dalla ‘ndrangheta” (5).
Da quanto venuto a galla dalle dichiarazioni rilasciate da Michel Amandini (6) nel merito dell’inchiesta Nord – Sud condotta nel febbraio del 1994 dal pm di Milano Alberto Nobili, tra il 1986 e il 1989 si svolsero due summit, uno a Torino e uno a Milano, coordinati dal boss di Catania Nitto Santapaola e finalizzati all’elaborazione di una strategia d’azione comune per i clan siciliani e calabresi operanti in Lombardia e in Piemonte, e che si conclusero con la regolamentazione delle rispettive zone di influenza e con il riconoscimento della preminenza della ‘ndrangheta in Lombardia: “Rocco Papalia mi disse di aver preso parte insieme al fratello Antonio a due summit nei quali si sarebbe arrivati a una sorta di pax mafiosa o comunque di regolamentazione delle più importanti organizzazioni criminali […]. Al summit presero parte rappresentanti siciliani, calabresi e napoletani. Grazie al Santapaola si decise una sorta di accordo generale in virtù del quale ogni gruppo criminale avrebbe operato nelle sue zone d’influenza senza guerre o tentativi di espansione […] ai calabresi, era lasciata la supremazia di fatto in Lombardia e il Papalia Antonio venne indicato come personaggio di primo piano. In caso di contrasti o conflitti l’ultima e decisiva parola sarebbe spettata proprio ad Antonio Papalia” (7).
Il processo si concluse nel 1997 con dure condanne che portarono alla decimazione dei vertici delle famiglie siciliane dei Carollo, dei Ciulla e dei Fidanzati, e delle famiglie calabresi dei Papalia, dei Sergi, dei Morabito, dei Coco-Trovato e dei Pavagliniti. Tuttavia, i calabresi riuscirono a mantenere il controllo delle posizioni raggiunte a discapito di Cosa nostra, la quale in quel periodo si trovava fortemente indebolita dal fenomeno del pentitismo che nel 1993 avrebbe portato all’arresto di nomi eccellenti come Totò Riina e Nitto Santapaola: “Ma quel colpo si rivelerà mortale solo per Cosa nostra, già provata in Sicilia dallo sfaldamento dovuto al fenomeno del pentitismo che in quegli anni porta in galera centinaia di affiliati sia tra i boss, come Totò Riina e Nitto Santapaola, che tra i semplici picciotti. Così a Milano, il centro nevralgico degli affari, Cosa nostra non ha abbastanza soldati sul campo per mantenere una posizione di rilievo nel traffico di stupefacenti. Il problema invece non si pone nemmeno per le ‘ndrine, che grazie alle seconde generazioni prenderanno definitivamente in mano il mercato della droga a Milano e anche nel resto del nord Italia” (8).
Alla fine degli anni Novanta, dunque, la ‘ndrangheta si trova, senza concorrenti, a intraprendere i primi passi verso la creazione di quella rete di alleanze criminali internazionali che l’avrebbe portata, ai giorni nostri, a dominare in modo incontrastato il mercato della cocaina, e ad avere a disposizione una grossa massa di capitali da reinvestire in attività economiche e finanziarie diversificate e da utilizzare come strumento di persuasione per influenzare la vita politica.
Nel tempo, la ‘ndrangheta è riuscita a creare una rete imprenditoriale che può vantare ramificazioni che vanno dal business dell’edilizia alle imprese di movimento terra fino alla fornitura di materiale edile, dalla gestione di imprese ludiche come discoteche, ristoranti, pub e sale da bingo al controllo della distribuzione del cibo – come emerso dalle indagini della procura meneghina sulle infiltrazioni della ‘ndrangheta nell’Ortomercato di Milano, che il 2 agosto 2008 hanno portato alla condanna di Salvatore Morabito e Antonino Palamara – fino alle attività finanziarie illecite in cui “una grossa massa di liquidità è reinvestita in strutture societarie o in beni immobili attraverso un’accorta attività di riciclaggio, realizzata ricorrendo all’esterovestizione mediante l’intervento di società fiduciarie con Paesi offshore” (9).
Senza esagerazioni, si può dire che all’alba del nuovo millennio la ‘ndrangheta sia diventata ‘l’impresa’ più florida del Paese, che vanta ramificazioni criminali internazionali e una disponibilità di capitali illimitata, capace di spostare tonnellate di cocaina e di raggiungere milioni di consumatori attraverso il controllo su una fitta e diversificata rete economica e commerciale. Un’organizzazione criminale efficiente e spietata, che agli strumenti offerti dalla modernità affianca elementi arcaici di una mentalità basata sull’onore e sull’omertà, rendendola, come l’hanno definita Nicola Gratteri e Antonio Nicaso, la mafia più potente del mondo.
Alla luce degli avvenimenti che hanno portato alla conquista di quella che era definita la capitale morale d’Italia non stupisce affatto, quindi, il grande interesse dimostrato dalle ‘ndrine verso l’evento che porterà Milano a essere al centro del mondo: l’Esposizione universale del 2015, che secondo le stime dovrebbe ospitare 36 milioni di visitatori e porterà ricavi pari a 1.311 milioni di euro (10).
Come è affiorato dall’inchiesta coordinata dalle Dda di Milano e di Reggio Calabria in seguito alla maxi operazione Infinito (11) scattata il 13 luglio 2010 e che ha portato a 400 arresti, 160 dei quali in Lombardia, i clan calabresi avrebbero tentato di infiltrarsi negli appalti per Expo 2015 attraverso la Perego General Contractor. L’azienda edile, formalmente di proprietà di Ivano Perego, era concretamente manovrata dalle mani di Salvatore Strangio – Strangio e Perego sono stati anche loro incarcerati in seguito all’operazione Infinito – che gestiva le infiltrazioni delle imprese calabresi nell’ambito dei lavori pubblici, e che intendeva assorbire nel gruppo Perego alcune importanti aziende lombarde del settore edile che versavano in condizione di difficoltà economiche, allo scopo di costruire apposite attività di impresa in grado di partecipare direttamente all’affidamento degli appalti.
Il piano non andò in porto nonostante l’appoggio politico di Antonio Oliviero, ex assessore della giunta provinciale di Filippo Penati passato poi nelle fila del nuovo presidente, Guido Podestà, indagato e poi rinviato a giudizio per corruzione e truffa aggravata e per i suoi rapporti con la Perego General Contractor. Nel capitolo dell’ordinanza di custodia cautelare dedicato a Oliviero, il gip Giuseppe Gennari ha indicato l’ex assessore come “il capitale sociale della ‘ndrangheta, la persona giusta per le operazioni di lobby e per mettere a frutto quella rete di relazioni istituzionali e politiche di cui si nutre l’organizzazione criminale […] e il cui ruolo appare evidente e di non trascurabile importanza all’interno dei contatti politico istituzionali che interessano le vicende della Perego”. Secondo il gip, Oliviero progettava conquiste e appalti, si vantava di fare parte di una ‘squadra’, e rivelava la stoffa del cinico e del trasformista che vuole conservare a tutti i costi la poltrona e il suo asservimento agli interessi privati e criminali: “Il politico, con sovrano cinismo, dice a Perego di non esporsi troppo con Podestà perché poi magari rivince Penati e lui ancora quattro contatti li ha. Oliviero promette a Perego di aprirgli tutte le strade. Dice che loro sono una squadra dove Oliviero è il capo. Parole di questo genere, dette da chi si candida a ricoprire ruoli istituzionali e di amministrazione della cosa pubblica, non possono che preoccupare. E preoccupano perché rivelano l’asservimento totale dell’uomo pubblico a interessi privati. Vogliamo dire che Oliviero poteva non sapere che Perego avesse la ‘ndrangheta a casa? Ebbene, Oliviero non è raggiunto da richiesta di custodia cautelare, […] tuttavia è evidente che sono questi momenti patologici, di osmosi tra attività istituzionali e interessi particolari, che rappresentano la via di ingresso della criminalità organizzata – che già controlla i colletti bianchi
– nel mondo economico e politico”.
Il caso Perego ha portato alla luce i legami esistenti tra imprenditoria, ‘ndrangheta e politica istituzionale, e ha messo in evidenza come ormai sia difficile tracciare una linea di demarcazione tra l’azione dei rappresentanti dello Stato che dovrebbero operare nella legalità e nell’interesse collettivo, e quella della criminalità organizzata, in quanto l’intreccio d’interessi politico-criminali, la zona grigia dove si incontrano gli interessi su cui è meglio non indagare, sembra ormai essere diventata sistemica, come è stato dimostrato dall’ultima inchiesta della procura di Milano che ha portato alla carcerazione di Domenico Zambetti, ex assessore del Pdl alla Regione Lombardia, per corruzione e concorso esterno in associazione mafiosa. Dall’inchiesta è emerso che Zambetti pagò la ‘ndrangheta per ricevere un pacchetto di voti che gli garantisse l’elezione nel Consiglio regionale lombardo, poi avvenuta puntualmente. Voti pagati in contanti, a caro prezzo, circa 50 euro l’uno, che sono costati complessivamente 200 mila euro, versati ai clan in varie rate. A incassarli, secondo l’accusa, Giuseppe D’Agostino, gestore di locali notturni, già condannato negli anni scorsi per traffico di droga, appartenente al clan Morabito-Bruzzaniti, e l’imprenditore Eugenio Costantino, il referente del clan Mancuso.
Insomma, un intreccio di affari sporchi dove mafiosi, politici e faccendieri si confondono fino a diventare una cosa sola, e anche laddove esiste una sorta di volontà di resistere alle lusinghe della via mafiosa, alla fine, spesso, vince la paura o l’omertà, come nel caso di Marco Tizzoni, coinvolto in una compravendita di voti – non andata in porto – avvenuta alle elezioni amministrative di Rho del 2011. Marco Tizzoni, leader della lista civica ‘Gente di Rho’, fu avvicinato da Marco Scalambra, finito agli arresti il 10 ottobre 2012 assieme a Domenico Zambetti, con la scusa di essere il compagno di ballo di una candidata nella sua lista, Monica Culicchi, che gli propose i voti della lobby calabrese che Tizzoni rifiutò senza però denunciare l’accaduto alla magistratura.
Mafia, politica e mondo degli affari all’ombra dell’Expo 2015. Con l’operazione Infinito sono venute a galla le mire dei clan nei confronti del grande evento e la connivenza di politici disposti a tutto pur di arricchirsi e mantenere la posizione raggiunta. Nicola Gratteri ne conta ben tredici di politici lombardi in rapporti più o meno stretti con la ‘ndrangheta. E dice di più: “Questi politici hanno ricevuto i voti delle cosche” (12). Accuse gravi che trovano parziale conferma nelle carte, non però negli avvisi si garanzia o nelle sentenze. Al di là di tutto, degli sviluppi che seguiranno dai processi e dalle indagini in corso, con l’operazione Infinito è emerso un dato inequivocabile che non può essere ignorato neanche dai più ostinati scettici: la Mafia a Milano esiste.
(1) Cfr. A. Galli, Il Prefetto: a Milano la mafia non esiste, in Corriere della Sera, 22 gennaio 2010
(2) Ibidem
(3) Cfr. N. Gratteri – A. Nicaso, Fratelli di sangue. Storie, boss e affari della ‘ndrangheta, la mafia più potente del mondo, Mondadori, 2008
(4) Cfr. N. Dalla Chiesa – M. Panzarasa, Buccinasco. La ‘ndrangheta al Nord, Einaudi, 2012
(5) D. Carlucci – G. Caruso, A Milano comanda la ‘ndrangheta. Come e perché la criminalità organizzata ha conquistato la capitale morale dell’Italia, Ponte alle Grazie, 2009
(6) Michel Amandini, uno dei pochissimi pentiti tra gli uomini legati alle ‘ndrine, era un fattorino della Dafour divenuto consulente finanziario prima del gangster Francis Turatello e poi del clan Papalia
(7) Riportato in Mafia a Milano, M. Portanuova – G. Rossi – F. Stefanoni, Editore Riuniti, 1996
(8) D. Carlucci e G. Caruso, op. cit.
(9) N. Gratteri e A. Nicaso, op.cit.
(10) Il piano per l’Expo 2015 prevede opere infrastrutturali essenziali per un valore di 1.746 milioni di euro, di cui 833 garantiti dal governo, 653 dagli enti locali e 260 dai privati; i ricavi previsti attraverso i biglietti venduti, gli sponsor, l’affitto spazi e le politiche di promozione ammontano a 1.311 milioni; le perdite, nelle migliori delle ipotesi, ammonterebbero a 400 milioni. Le cifre e le stime citate sono riprese dalla Audizione dell’amministratore delegato della società Expo 2015, Giuseppe Sala, Commissione lavori pubblici del Senato, 21 settembre 2011
(11) Le indagini che hanno portato all’operazione Infinito sono iniziate dopo l’omicidio del boss Carmelo Novella, avvenuto il 15 luglio 2008 presso San Vittore Olona, in provincia di Milano: Novella, che fino alla sua morte era stato capomafia in Lombardia, fu assassinato perché voleva recidere il legame che da sempre teneva unite le cosche lombarde con quelle calabresi
(12) Dichiarazione rilasciata durante la conferenza stampa del 14 luglio 2010 in merito all’operazione Infinito