di Sabrina Campolongo |
Recensione di Nightwood, Djuna Barnes
“Ho avuto un’idea per il titolo, penso: Nightwood, così, una parola sola, il suono dà l’idea di buio notturno, di veleno e di notte e di foresta, ed è duro, nel senso di corposo, semplice eppure singolare”. Così scriveva Djuna Barnes a Emily Holmes Coleman, la donna che avrebbe dato l’assedio a T.S Eliot per convincerlo a pubblicare un romanzo che, probabilmente, il grande modernista non ha mai compreso fino in fondo, come si può intuire dalla fin troppo volenterosa prefazione scritta nel 1937 e ribadita nella seconda edizione del 1949.
Introducendo il lavoro della “più celebre sconosciuta al mondo”, come lei stessa si era definita – figura spigolosa e solitaria, eppure protagonista di tutti i salotti culturali dell’epoca, dal Greenwich Village ai caffè della bohème parigina – Eliot pare affannarsi a spiegare al lettore che di un romanzo, pur poetico, si tratta, con personaggi così realistici da sembrare prendere vita, insistendo sulla coesione stilistica e morale dell’opera, quasi volesse rimandare preventivamente al mittente le accuse di eccesso stilistico e indecenza.
Di sicuro, Eliot aveva identificato nella scelta dei personaggi (derelitti, folli, omosessuali, travestiti, attori da circo, nobili decaduti, quelli che qualcuno aveva già chiamato “repellenti fenomeni da baraccone”) e nella volontaria ambiguità del linguaggio i punti più vulnerabili di Nightwood, quelli che avrebbero fatto storcere il naso ai critici, seppellendo l’opera e la sua autrice in un oblio durato diverse decadi e sostanzialmente ancora valido se parliamo della maggioranza dei lettori, pur essendo circolato come ‘oggetto di culto’ nella cultura underground e gay.
In Italia, Nightwood è arrivato nel 1962 con il titolo Bosco di notte nella traduzione di Filippo Donini per Bompiani (che sarebbe di lì a poco diventato l’editore italiano di una grande estimatrice della Barnes, Anaïs Nin) per essere poi tradotto di nuovo nel 1983 da Giulia Arborio Mella, per Adelphi, che l’ha pubblicato con il titolo: La foresta della notte.
Difficile, in effetti, trovare una sola parola italiana che sappia di buio notturno, veleno, notte e foresta, motivo per cui continuerò a utilizzare il titolo originale.
La trama di Nightwood è riassumibile in un pugno di eventi: un (falso) barone di discendenza ebrea (Felix), infatuato dei bassifondi, segue una recente conoscenza, il ‘dottor’ O’Connor (ginecologo abortista non ancora abilitato alla professione, nonché noto travestito), in una camera d’albergo dove una giovane donna (Robin Vote) giace svenuta. Grazie anche all’intermediazione del dottore (che agirà per tutto il romanzo come una mezzana), il barone e la “bella addormentata”, che si scopre essere americana, si sposano e concepiscono un figlio, fortemente voluto dal barone, ossessionato da alberi genealogici e successioni (da questo punto di vista la scelta di un’americana – senza passato – era perfetta), e respinto, invece, immediatamente da Robin stessa, che, sentendosi ingannata e in trappola, fugge. Il figlio si rivelerà poi affetto da un lieve ritardo mentale.
Durante il suo vagabondaggio da ‘sonnambula’ (La Sonnambula era il primo titolo venuto in mente alla Barnes durante la stesura) Robin incontra Nora e intreccia con lei una relazione felice, almeno per un periodo. Le due si muovono dagli Stati Uniti a Parigi, dove Robin ricomincia i suoi vagabondaggi notturni – seguita a volte da Nora, in una dolorosa ‘ronda di notte’, di bar in bar – fino al suo incontro con la ‘gazza ladra’ Jenny, che la ‘ruba’ a Nora e la riporta con sé in America.
Figlie del proprio tempo e legate al modernismo sono certamente le tematiche, a partire dallo smembramento della famiglia ‘naturale’, con la scelta di mettere in scena figure ‘sterili’: l’amore tra donne, il travestito, le prostitute e i preti spretati, con l’unica eccezione della breve parentesi del matrimonio tra Robin e Felix, il cui frutto però risulta ‘bacato’, e la sua nascita avvolta da dolore e paura.
Anche il rapporto con il tempo della narrazione è tipicamente modernista: ognuno degli eventi è riportato avanti e indietro, narrato secondo le diverse prospettive dei personaggi coinvolti e riesumato ancora, spesso all’interno del discorso diretto, il tutto a formare un mosaico fluttuante, insidioso, spesso incoerente.
Eppure, la speranza riposta nella creazione artistica dalla cultura modernista è stata superata, il filo di continuità che Eliot vuole vedere in Nightwood sembra essere troppo fragile, e il problema della verosimiglianza non riguardare Djuna Barnes, evidentemente alla ricerca di una verità più vera, senza filtri che la rendano più accettabile, senza strutture che la addomestichino.
Come naufraghi nella tempesta, tutti i personaggi di Nightwood sembrano annaspare alla ricerca di qualcosa o qualcuno che li salvi, non tanto dal senso di alienazione tra loro stessi e il mondo che li circonda, lo “spaesamento trascendentale” del sé, per dirla con Lukàcs, quanto da un terrore più profondo, figlio del nuovo contesto di politica di massa, crisi economica, violenza urbana della fine degli anni Trenta: una paura ancestrale di apocalisse, il terrore della notte che attende alla fine della storia, un buio da cui niente può riemergere, né l’individuo né il mondo, un vuoto inimmaginabile da cui nulla, nemmeno l’arte, può salvarli.
Gli interminabili e sconnessi dialoghi che vedono protagonisti i personaggi di Nightwood sono simili ad arrampicate su una corda sospesa nel buio, le parole scorticano le mani di chi le pronuncia, ma non si arriva mai a una visione univoca, ognuno parla per se stesso, senza prestare attenzione all’altro, lanciando parole come vane ancore di salvataggio, come fuochi per tenere lontano il buio e i suoi spettri. La ricerca, di amore e di identità, che anima i personaggi fino all’eccesso, non può essere che una caduta verticale, un’eterna rovinosa caduta di cui il mondo è indifferente testimone, senza più spazio nemmeno per il pudore.
Ogni personaggio è ossessionato da qualcosa: il finto barone Felix dal passato e dalle radici, quasi potessero garantirgli un posto nello spazio e nel tempo, Nora e Jenny da Robin e il suo mistero, Mattew O’Connor è ossessionato dalla sua abissale solitudine.
Quanto a Robin, lei non fa che cadere di braccia in braccia, disperata, sfuggente e letale, alla ricerca forse di un nocciolo duro racchiuso nella sua forma cangiante e instabile. Robin è lo specchio che manda in pezzi chiunque la ami, l’ossessione che soppianta e fa esplodere le ossessioni precedenti, esiliando i suoi amanti dalle loro stesse vite. Allo stesso tempo, Robin è completamente innocente, in lei non c’è desiderio di fare del male né responsabilità, è animalità pura, come si rivela chiaramente nell’ultimo capitolo, “Posseduta”, in cui si mostra come la forza rivelatrice e distruttrice dell’Es.
I frequenti riferimenti alla religione, (O’Connor si dice cattolico, Felix è ebreo, Robin si convertirà, a un certo punto, al cattolicesimo) mescolati a invenzioni e deliri, in un impasto piuttosto blasfemo, sembrano essere lì a mostrare l’inutilità di ogni fede, davanti al buio profondo.
I “fenomeni da baraccone” della Barnes paiono allo stesso tempo atterriti e sedotti dalla prospettiva di dissolversi nello sfondo, di perdere l’unicità della propria sostanza, disintegrandosi nell’informe realtà senza senso.
In questo e in altri sensi, la ricerca di Djuna Barnes è molto più vicina a quella di Samuel Beckett che a quella di Eliot o di Joyce. Ben lontana dall’ambizione di racchiudere tutta l’esperienza umana in un’opera come l’Ulisse, l’arte della Barnes è più che mai quella che Beckett affermerà essere l’unica possibile, cioè arte del fallimento. Mentre Beckett scrive, in un saggio filosofico su Proust: “L’abitudine è un compromesso effettuato fra l’individuo e l’ambiente che lo circonda, o fra l’individuo e le sue eccentricità organiche, la garanzia di un insensibile inviolabilità, il parafulmine della sua esistenza”, Djuna Barnes mette in bocca al falso barone Felix, che rappresenta allegoricamente il declino storico, la riflessione: “Nessun uomo vuole davvero la sua libertà. Acquista un’abitudine il più in fretta possibile – è una forma di immortalità”.
Il purgatorio nel quale si muovono il dottor O’Connor e gli altri protagonisti, del resto, ricorda da vicino quello in cui blaterano e farneticano i clown beckettiani.
Ma le questioni aperte da Nightwood tornano anche in un altro grande romanzo filosofico successivo, concepito dopo la tempesta che andava addensandosi negli anni Trenta, dopo la guerra e le sue insanabili ferite: Malina, di Ingeborg Bachmann, nel quale si legge: “Gli uomini […] passeggiano per il bosco o se ne vanno nello spazio portando in un mistero il loro mistero”. Di nuovo l’idea che l’uomo sia guidato da un che di irrappresentabile come un nero profondo, il mistero che egli costituisce per se stesso è immerso nel mistero generale che circonda la sua esistenza, la nera foresta interiore passeggia per il bosco o naviga nel buio siderale, sotto la continua minaccia di perdersi.
Il dottor O’Connor dice di se stesso di essere stato ovunque nel momento sbagliato, fino a diventare anonimo, mentre di Nora (personaggio in cui la Barnes scrisse nelle lettere di riconoscersi sempre di più) si dice: “C’è una fenditura nel dolore del mondo attraverso la quale l’essere singolare cade senza posa e per sempre”.
L’Io protagonista di Malina, nato dalla penna della Bachmann, ossessionata per tutta la vita dalla morte distillata nella visione infantile dell’arrivo delle truppe naziste, sembra concretizzare questa immagine finendo per sparire in una crepa nel muro che lei stessa, con il suo sguardo fisso, ha creato.
Barnes, Beckett e Bachmann sono accomunati dalla tensione della parola verso l’oscuro e l’indicibile, oltre che dalla centralità del desiderio come motore dell’agire umano. Ognuno dei personaggi di Nightwood è divorato da un desiderio senza speranza, desiderio per qualcosa di ineffabile, in continua trasformazione, falsato dalla percezione di chi desidera, qualcosa che non esiste né può esistere, come non esiste Robin, se non nello sguardo di chi la insegue cercando vanamente di possederla. Il barone parla di “un possesso fluido da cui mi veniva come la sensazione non solo che avrei potuto scegliere l’immortalità, ma che sarei stato libero di sceglierne la forma”, ma né lui, né Nora o Jenny, o il dottore, arrivano nemmeno vicini alla salvezza.
Dal momento che la verità è il nulla, l’impossibilità, chi la possiede è perduto.
(Tutto questo in un romanzo, noto più che altro come romanzo lesbico, e scritto da una donna, come precisò Dylan Thomas, pur definendolo “uno dei tre migliori romanzi scritti da una donna”.)
Nightwood (La foresta della notte), Djuna Barnes, Adelphi, 1983