“Nascita di una dittatura” sulle origini del fascismo e il ‘caso Cirillo’ ne “La notte della Repubblica”: analisi del giornalismo fintamente obiettivo propagandato nei documentari storico/politici a firma di autorevoli esponenti del piccolo schermo
“E perché io dico ‘poveri noi’? Perché voi, il pubblico,
e altri 62 milioni di americani, ascoltate me in questo istante!
Perché meno del 3% di voialtri legge libri, capito?
Perché meno del 15% di voi legge giornali o riviste!
Perché l’unica verità che conoscete è quella che ricevete alla TV!”
(Howard Beale nel film Quinto potere di Sidney Lumet, 1976)
Secondo il rapporto Censis 2009 su Comunicazione e media, il 59,1% degli italiani si affida alla televisione per informarsi sull’attualità politica; quando si tratta di cronaca, la televisione è l’unica fonte d’informazione per il 72,4%. Per scegliere chi votare, il 69,3% si forma un’opinione sulla base delle informazioni ricevute dai telegiornali e il 30,6% segue i programmi giornalistici televisivi di approfondimento. Ogni personale opinione, tuttavia, non poggia solo sulle informazioni d’attualità ma anche su un bagaglio culturale e storico: la televisione provvede a fornire anche questo, attraverso documentari e programmi di vario genere – da quelli giornalistici alle fiction.
Le reti private hanno un ‘padrone’ che detta la linea editoriale, e lo spettatore che lo tiene bene a mente può riuscire a fare la tara ai telegiornali e alle trasmissioni mandate in onda.
Meno diretta e lineare è la riflessione sulla linea editoriale adottata dalla televisione pubblica: si pensa che dietro vi sia lo schieramento politico al governo in quel momento, che certamente influenza programmi e palinsesto, e non al fatto che prima, e sopra ogni cosa, il padrone delle reti pubbliche è lo Stato. Non l’astratta istituzione ma quella ‘ragione di Stato’, quegli equilibri, quel complesso d’interessi, che sono la classe dirigente del Paese: un ‘comitato d’affari’ che detiene le leve del potere, economiche e politiche, che può anche dividersi con etichette di destra e di sinistra e litigare su contingenti questioni di governo, ma che sempre si troverà compatto quando si tratta di conservare e proteggere quel sistema che lo vede saldamente in sella. Affermare quindi che fin dalla sua nascita, per le sue caratteristiche di invasività e diffusione, la televisione – sostituendo la radio – è divenuta il più imponente ed efficace mezzo di propaganda, equivale a scoprire l’acqua calda.
Che il padrone sia pubblico o privato, la sostanza non cambia; cambia quello che si può o non si può dire, denunciare, criticare. Cambia soprattutto l’etica ufficiale: a differenza di quella privata la televisione di Stato deve ambire alla patente di ‘servizio pubblico’; deve apparire neutrale e super partes, titolare della stessa falsa patente che lo Stato rivendica per se stesso.
Stabilito questo, è inevitabile chiedersi come un giornalista possa far carriera all’interno di un mezzo di propaganda. Il campo di potere dell’informazione è infatti impossibilitato per sua natura ad andare d’accordo con il potere dominante, dato che, per adempiere al ruolo di ‘servizio pubblico’, dovrebbe vigilare sull’operato delle classi dirigenti. Non si tratta di volere o chiedere una impossibile quanto ipocrita apoliticità del giornalista, quanto pretendere quella onestà intellettuale, prima ancora che deontologica, che gli impone di documentarsi a fondo e di non omettere nessuna delle informazioni di cui viene in possesso, indipendentemente dalla sua convinzione politica.
Per far carriera all’interno di un mezzo di propaganda, dunque, esiste certamente quello che oggi possiamo chiamare l’‘eccesso Minzolini’ – essere sfacciatamente al servizio del governo in carica. Una logica che però non paga in termini di autorevolezza, perché rende palese la funzione di propaganda della televisione pubblica. Il giornalista che al contrario riesce a mantenere un apparente equilibrio, un professionale distacco, a fingersi moderato, sarà non solo apprezzato dal potere, che lo premierà con una lunga carriera e importanti ruoli istituzionali, ma anche dall’opinione pubblica, convinta da anni di indottrinamento culturale che la ‘verità’ stia sempre nel mezzo.
L’incarnazione televisiva di questo modello di giornalismo, divenuto emblema di autorevolezza e indipendenza, apprezzato dalla politica, dal mondo dell’informazione e dall’opinione pubblica da ormai quarant’anni, è Sergio Zavoli.
Quando nel febbraio 2009 fu eletto presidente della Commissione di vigilanza sulla Rai, a destra e a sinistra i politici si spellarono le mani in applausi. Eletto con 34 voti favorevoli, quattro schede bianche e nessuno contrario, bastino due commenti a evidenziare l’entusiasmo bipartisan alla sua elezione: “Un grande professionista la cui storia è sotto gli occhi di tutti”, per Renato Schifani, “una personalità di sicura garanzia democratica, un’autorità televisiva indiscussa, un uomo di cultura che in ogni momento si è messo con generosità e passione al servizio delle istituzioni”, per Piero Fassino – e già solo quest’ultima appassionata dichiarazione di stima dovrebbe far riflettere: essere al servizio delle istituzioni non è esattamente come essere al servizio del giornalismo.
Nella sua lunga carriera, spiccano su tutti due programmi: Nascita di una dittatura, sei puntate sul fascismo dal 1914 al 1925, andate in onda nel 1972, e La notte della Repubblica, venti puntate sui cosiddetti ‘anni di piombo’, dalla strage di piazza Fontana all’omicidio Ruffilli del 1988, trasmesse a partire dal dicembre 1989.
Del primo, così ne scrisse Giorgio Bocca nel dicembre 1972 sulla rivista Tempo: “Impera da anni nella televisione italiana e da essa si è diffusa nella stampa quotidiana l’ideologia del disimpegno democratico, o se preferite, del falso equilibrio, della falsa obiettività democratica. Essa consiste nel rifiuto delle responsabilità personali e di gruppo e nella costruzione di macchine inutili che mostrano il loro mirabile equilibrio stando sospese a mezz’aria, incapaci sia di volare che di cadere. La ricetta è molto semplice e ve la spiego con un esempio: Sergio Zavoli ha l’idea di raccontare per televisione le origini del fascismo. Detto fatto gli rifilano sul groppone cinque o sei storici delle scuole e delle idee più diverse, un Cln di storici che comprende il comunista, il socialista, il socialdemocratico, il cattolico, eccetera. Che ne direste voi di un libro sulla storia del fascismo dove cinque o sei interpretazioni diverse, dove cinque o sei angolature dissimili si paralizzassero a vicenda? Direste che è un pastrocchio, un centone. Ma è qualcosa di peggio. In realtà l’ideologia televisiva della falsa obiettività serve solo a far passare la merce moderata, serve solo ad accreditare il prestigio, la presenza di una cultura moderata che in realtà è inesistente o asfittica. Serve a presentare un fascismo che nasce, ecco il risultato, più per colpa della sinistra che per protervia e ferocia e stupidità delle destre”.
Opinione di Giorgio Bocca, e in quanto tale assolutamente opinabile.
Fa riflettere però il fatto che la Rai torni a mandare in onda le sei puntate del documentario nel gennaio del 1994, in un momento cruciale per la storia politica del Paese. Tangentopoli ormai alle spalle, a marzo si torna a votare, senza la Dc e con un Psi al collasso. Lo Stato si ritrova senza la classe politica che fino a quel momento, saldamente al governo per cinquant’anni, ha controllato l’Italia; l’oligarchia economica, passata molto più indenne attraverso i tribunali, ha bisogno di nuovi referenti politici, per innescare anche in Italia quella ‘rivoluzione neoliberista’ risultata ormai vincente in tutti i Paesi occidentali; può sceglierli direttamente tuttavia, in democrazia, esiste quella cosa chiamata ‘elezioni’ e l’ex Pci, che sembra aver spianata davanti a sé la strada della vittoria elettorale, non è ancora un referente affidabile – nonostante la svolta della Bolognina che l’ha trasformato in Pds e l’abbraccio appassionato al neoliberismo. Occorre dunque pilotare l’opinione pubblica, e la macchina televisiva della propaganda si mette in moto, partendo proprio dalla memoria storica del Paese.
La Rai inizia a rifilare ai cittadini il revisionismo sulla Resistenza, con le immagini di piazzale Loreto e della ‘crudeltà’ dell’accanimento della folla sul corpo del Duce, con le denunce degli ‘eccidi dei partigiani’ nell’immediato dopoguerra, con le dichiarazioni politiche che propongono la pacificazione e la parificazione tra vinti e vincitori e la giustificazione morale alla scelta dei ‘ragazzi di Salò’. Contemporaneamente l’Msi – che nelle precedenti consultazioni elettorali si aggirava intorno al 6% e nel 1991, per bocca di Fini, proponeva il “fascismo del 2000” e nel 1992 ancora celebrava l’anniversario della Marcia su Roma – ad aprile del ’93 inizia a parlare per la prima volta di una ‘alleanza nazionale’ con quei politici conservatori rimasti orfani di un partito a causa dell’inchiesta Mani pulite, come gli esponenti della corrente di destra della Democrazia cristiana. Alle amministrative del novembre dello stesso anno l’Msi è primo partito a Roma e a Napoli e nel dicembre Fini fonda Alleanza nazionale.
In questo contesto viene ritrasmesso, a cadenza settimanale, il documentario di Zavoli, il quale l’8 gennaio, sul Corriere della sera, così commenta: “Quando Nascita di una dittatura andò in onda la prima volta fu una novità assoluta. Mettemmo a confronto i fascisti di quel tempo e i loro oppositori. Ricordo l’attonita reazione dei fascisti, che si disposero con franchezza e onestà intellettuale all’incontro. Si sollevò un dibattito generale. Un critico televisivo mi chiese se avrei ospitato anche Mussolini, nel caso fosse stato ancora vivo. Gli risposi ovviamente di sì”.
In merito al significato politico della riedizione in quel particolare contesto, sempre Zavoli afferma: “Credo che la politica, per quante cattive prove abbia dato, non abbia mai avuto bisogno dell’attenzione di tutti come in questo momento. Vogliamo dare un contributo di riesame storico al servizio della società, proprio adesso che il dibattito sulla destra in genere, uscita bene dalle recenti elezioni, è senz’altro la realtà politica più inaspettata degli ultimi anni. C’è stato qualcuno a Napoli che mi ha detto: «Essere missini non sarà peggio di essere ladri!»”.
Il 26 gennaio Berlusconi – che a novembre aveva sostenuto Fini nella sua candidatura a sindaco di Roma – ‘scende in campo’; Forza Italia si allea al sud con Alleanza nazionale e nel settentrione con la Lega nord, un partito ferocemente di destra mascherato da forza territoriale. Lo schieramento vince le elezioni e per la prima volta nella storia della Repubblica l’estrema destra diventa forza di governo. Per l’Msi segue la ‘svolta di Fiuggi’ del 1995, mentre la Lega avvia il suo percorso per divenire partito nazionale; nasce la seconda Repubblica.
Quanto il documentario ‘obiettivo e moderato’ sulla nascita della dittatura fascista, che a detta dello stesso autore poteva contribuire a un “riesame storico al servizio della società”, abbia influito sullo sdoganamento della destra, è qualcosa che le statistiche non ci potranno mai dire; è tuttavia ragionevole credere che abbia ‘tranquillizzato’ gli spettatori/elettori in merito alle origini e all’identità della destra italiana.
Un altro periodo storico tenuto costantemente sotto la lente del revisionismo è quello degli ‘anni di piombo’. Zavoli li affronta nella sua pluripremiata trasmissione La notte della Repubblica. Emblematica, in particolare, la narrazione che il giornalista fa del ‘caso Cirillo’ del 1981, perché rappresentativa di una chiave di lettura strumentale degli anni Settanta tuttora vigente.
Così narra Zavoli, dopo l’abituale frase: “Come sempre, lasciamo parlare i fatti”. Ciro Cirillo è l’assessore regionale democristiano in Campania, una figura poco conosciuta sul piano nazionale ma centrale in ambito locale, in quanto vice presidente del Comitato tecnico per la ricostruzione che controlla gli ingenti fondi stanziati dal governo a seguito del terremoto del 1980. Il 27 aprile 1981 viene rapito dalle Brigate rosse, le quali pongono richieste “demagogiche” per il suo rilascio: requisizione degli alloggi sfitti nella cintura urbana di Napoli per destinarli ai senzatetto del terremoto e conseguente chiusura del villaggio di roulotte creato alla mostra d’Oltremare; istituzione di una indennità di disoccupazione per i terremotati; pubblicazione dei comunicati delle Br e dei verbali del processo fatto dai brigatisti a Cirillo. Gli alloggi vengono requisiti, il villaggio chiuso, l’indennità rilasciata: il 28 luglio Cirillo viene liberato.
Segue intervista video a Cirillo stesso – indifeso, debilitato, senza voce e fiato – che dichiara: «Mi hanno detto che io ero già condannato a morte per il fatto stesso di appartenere alla organizzazione dello Stato democratico… era una colpa che le Brigate rosse considerano già come un fatto che deve essere pagato con… con una condanna a morte».
La voce fuori campo precisa: solo più tardi si saprà del riscatto, 1 miliardo e 450 milioni di lire; restano gli interrogativi sulla sua provenienza, lo hanno raccolto gli amici, spiegherà il rapito. Cirillo – afferma Zavoli dietro la professionale scrivania – è un caso particolare nella storia del terrorismo italiano, per le trattative collaterali più o meno clandestine che coinvolgeranno di volta involta personaggi politici democristiani, emissari dei servizi segreti, funzionari del ministero di Grazia e Giustizia e commissari di polizia e persino pregiudicati e detenuti e latitanti come Raffaele Cutolo e Vincenzo Casillo, ciascuno a suo modo impegnato a collaborare in questa oscura e inedita trattativa.
Dopo la cattura delle Br impegnate nel sequestro – torna a raccontare la voce fuori campo – uno stralcio del processo si è occupato di far luce sulla modalità della trattativa e sulla provenienza del riscatto, e tenta di scoprire la sua destinazione finale; si teme infatti che servisse alle Br per portare ancora più avanti l’aggressione allo Stato. Nella fase istruttoria il giudice Alemi formula un’ipotesi inquietante: intrecci, complicità inconfessabili, gioco delle parti, tra malavita e certi settori della politica. Il tribunale di Napoli il 25 ottobre 1989 assolve tutti gli imputati tranne Cutolo, condannato per tentata estorsione.
Tuttavia la motivazione della sentenza muove più di una critica agli apparati dello Stato: lamenta la scomparsa di elementi di prova documentali e una scarsa collaborazione, che ha giuridicamente preclusa la possibilità di accertamento del fatto storico.
Insomma, una nebulosa in cui è impossibile fare chiarezza. O meglio: la narrazione di Zavoli illumina l’operato delle Br e accantona nel cono d’ombra lo Stato. Nell’approfondimento giornalistico spiccano infatti, su tutte, alcune omissioni fondamentali per capire la particolarità del caso Cirillo – e non solo “nella storia del terrorismo italiano” ma soprattutto in quella dello Stato italiano – relative a informazioni e fatti già noti nel 1989, quando Zavoli costruiva la sua inchiesta: chi è Cirillo, chi sono quei “personaggi politici democristiani” coinvolti, chi sono gli imputati assolti dall’inchiesta sulla trattativa, chi sono gli “amici” di Cirillo che raccolgono il denaro del riscatto e perché lo fanno. Più temibile infatti della destinazione finale della somma incassata dalle Br – abbastanza scontata, non l’avrebbero certo usata per aprire negozi di scarpe – risulta essere la sua provenienza.
Ciro Cirillo è il luogotenente di Antonio Gava a Napoli. Presidente dell’amministrazione provinciale di Napoli, poi segretario provinciale della Dc, poi consigliere regionale, deputato e infine più volte ministro, Gava è un esponente di spicco della Democrazia cristiana, leader della corrente dorotea del partito. Quando lascia Napoli per Roma, nel 1972, affida il controllo della Dc nel capoluogo campano a Ciro Cirillo, riconosciuto in tutti i congressi democristiani come il “presidente del primo seggio elettorale”, il signore incontrastato delle tessere, l’uomo con cui Gava collabora strettamente dalla fine degli anni Cinquanta in un interscambio continuo di ruoli e incarichi in provincia e regione.
I principali “personaggi politici democristiani” coinvolti sono: Francesco Patriarca, senatore, Raffaele Russo e Alfredo Vito, deputati, e soprattutto Gava, Scotti e Piccoli, quest’ultimo in quel periodo segretario nazionale della Dc. Quando Cirillo viene rilasciato, raccolto sulla strada da due pattuglie della polizia stradale – stranamente subito intercettate da agenti della questura accompagnate da Biagio Ciliberti, figlio di un consigliere provinciale della Dc della corrente dorotea – invece di essere condotto in questura, come vuole la prassi in questi casi, è portato nella sua abitazione, dove lo aspettano Gava e Piccoli; i magistrati gli potranno parlare solo 48 ore dopo.
Quando il giudice Alemi deposita la sua ordinanza di rinvio a giudizio il 28 luglio 1988, nella quale indica Gava, Scotti e Piccoli come i registi della trattativa attraverso Cutolo, il primo è ministro degli Interni e capo indiscusso della potente corrente dorotea. Il rinvio a giudizio piomba addosso al governo, il Pci chiede le dimissioni di Gava. Ma come un copione visto mille volte, il ‘caso Cirillo’ diventa il ‘caso Alemi’: l’allora presidente del Consiglio, Ciriaco De Mita, definisce Alemi “un giudice che si è posto fuori dal circuito istituzionale”; il socialista Vassalli, ministro della Giustizia, dà corso a un’iniziativa disciplinare nei confronti del magistrato.
Per quasi un anno, Piccoli, Gava, Cirillo – che nel frattempo era tornato nel Consiglio regionale campano – i suoi famigliari e la Dc tutta, negano il pagamento di un riscatto di cui tutti i giornali
parlano ormai da mesi. Quando le circostanze li costringono ad ammetterlo a denti stretti, si giustificano dicendo che le Br avevano imposto loro il silenzio – le stesse Br che l’avevano reso pubblico immediatamente nel comunicato del rilascio, vantandosi di aver espropriato 1 miliardo e 450 milioni a “Cirillo, alla sua famiglia di speculatori, al suo partito di affamatori e alla sua classe di sfruttatori”.
I brigatisti autori del sequestro dichiarano al giudice che era stato Cirillo stesso a indicare ai figli l’elenco degli ‘amici’ a cui rivolgersi per la colletta. Pasquale Acampora, ex vicepresidente del Banco di Napoli, dichiara al giudice Alemi che “Antonio Gava aveva esercitato notevoli pressioni affinché un gruppo di una ventina di imprenditori raccogliesse la somma necessaria a ottenere la liberazione di Cirillo”. Perché mai degli imprenditori si erano dati tanta, costosa, pena?
Quegli imprenditori erano i titolari delle imprese edili napoletane che già avevano partecipato al sacco della città degli anni Cinquanta e Sessanta, legati alla famiglia Gava (il potere dei Gava nasce con il padre di Antonio, Silvio, alla fine degli anni Quaranta) da un consolidato sistema di tangenti: sono gli stessi ‘amici’ che faranno affari d’oro con la ricostruzione post terremoto. Avevano dunque tutto l’interesse a mantenere in vita e a far rientrare in politica la gallina dalle uova d’oro Ciro Cirillo, il vicerè di Gava che avrebbe loro assicurato i futuri appalti pubblici, come già aveva fatto con quelli passati. Sono disposti a mettere di tasca loro i soldi del riscatto sulla base di un semplice accordo: le cifre versate per la liberazione di Cirillo valgono come tangenti anticipate.
Chiarito questo, è facile rispondere anche alla questione del perché Gava si rivolge a Cutolo: non esiste sistema di tangenti in un territorio controllato dalla criminalità organizzata in cui l’organizzazione stessa non sia uno degli attori principali, amica tra gli amici in nome degli affari. Nebuloso infatti è rimasto l’ammontare della somma raccolta.
Da una parte Cutolo non avrebbe mai dato un contributo gratuito alla trattativa – sembra abbia preteso una cifra non inferiore a quella consegnata alle Br – dall’altra il sequestro Cirillo si è rivelato essere uno dei canali con cui si sono formati quei ‘fondi neri’ dei servizi segreti per i quali scoppiò lo scandalo nel 1993. L’unica cosa certa è che non fu raccolto solo 1 miliardo e 450 milioni: pare si debba parlare di almeno 4-5 miliardi.
Di tutto questo non c’è traccia nella narrazione di Zavoli, nonostante tali aspetti della vicenda fossero stati ampiamente trattati da diversi quotidiani negli anni dal 1981 al 1989; alcuni dettagli – i nomi degli ‘amici’, il presunto ammontare del riscatto – videro la propria conferma giuridica solo nei successivi gradi di giudizio del processo sulla trattativa, seguenti al 1989, ma un giornalista politico non fa cronaca giudiziaria.
Un programma come La notte della Repubblica, però, mandato in onda nella televisione pubblica, fa la Storia; partecipa alla costruzione della memoria collettiva degli italiani. Ancora oggi è preso a riferimento per conoscere le vicende di quegli anni, anche e soprattutto dalle generazioni che quegli anni non hanno vissuto.
Le dettagliate e complesse sentenze sono finite negli archivi giudiziari, i quotidiani dell’epoca sono scomparsi, La notte della Repubblica è rimasta. Assolvendo a un doppio compito, nella narrazione del caso Cirillo: nel contingente ha protetto la classe politica democristiana al potere, incarnazione in quel momento storico dello Stato stesso e degli interessi economici che lo sostenevano; nel lungo periodo ha creato una memoria storica a supporto – grazie alle omissioni e alla mancata denuncia – di un sistema di potere criminale e corrotto che ancora oggi è lo stesso di allora; c’è voluta Tangentopoli per portarlo a conoscenza del cittadino, anche se come un’araba fenice è poi risorto dalle proprie ceneri più in forza di prima.
Ha ragione Fassino: Zavoli, al pari di ogni giornalista che fa carriera all’interno del principale mezzo di propaganda del potere, “si è messo con generosità e passione al servizio delle istituzioni”. Il drappo notturno che oscura la Repubblica – e il giornalismo televisivo – raramente cala dall’esterno, quasi sempre dall’interno.