Governo Renzi, la generazione del dopo-muro: una classe dirigente cresciuta nel culto della merce e della tecnologia, dell’avvenenza, dell’eterno infantilismo e dell’ignoranza
“Ferdydurke è esistenziale fino all’inverosimile. Lo è perché l’uomo che viene creato dagli uomini e gli uomini che si formano a vicenda, costituiscono appunto l’esistenza e non l’essenza. Ecco perché in questo libro suonano fortissimo quasi tutti gli argomenti esistenziali di primo piano, come: il divenire, il formarsi, la libertà, la paura, l’assurdità, il nulla, l’angoscia… Con questa differenza però: qui si aggiunge una nuova sfera della vita umana a quelle tipiche dell’esistenzialismo – ossia la vita banale e autentica di Heidegger, la vita estetica, etica e religiosa di Kierkegaard o infine le ‘Sfere’ di Jaspers – la nuova sfera è la sfera dell’immaturità”.
Con queste parole, Witold Gombrowicz presentava il suo primo romanzo uscito nel 1937; la storia grottesca di un signore tornato bambino, proprio perché gli altri lo considerano bambino. Queste premesse fungono da pedana di salto per l’intenzione dell’autore di smascherare l’immaturità del genere umano. L’umanità che vi è descritta è opaca, amena, indefinita, costretta ad apparire dandosi una determinata forma. Ma sotto questa maschera si nasconde una profonda immaturità, un inesauribile infantilismo, inevitabile risultato del formarsi in mezzo ai propri infantilizzati contemporanei, all’altra gente che incamera e diffonde il proprio essere conformata a un sistema.
Chissà come sarebbe felice, Gombrowicz, nel verificare quanto la scuola in cui ha ambientato il suo romanzo, assomigli all’attuale governo Renzi, che dell’immaturità, dell’infantilismo, dell’ignoranza e dell’arroganza capricciosa fa una modalità di azione politica; se potesse vedere quanto di sociale, di moderno, di hi-tech scorra nel sangue e nelle vene delle persone degli anni Duemila. Soprattutto in quelle che oggi governano l’Italia.
Finora, l’unico ad aver notato questo fenomeno italiano è stato The Economist. Infilando nelle mani del premier un cono gelato, mentre la barca dell’euro s’inabissa insieme ai principali leader europei, il vignettista ha perfettamente colto l’infantilismo che caratterizza i ministri dell’attuale governo italiano. Senza nulla togliere alla pericolosità di Renzi e delle sue intenzioni, e senza negare la pericolosità sociale delle sue alleanze con il mondo dell’imprenditoria, il valore aggiunto del populismo renziano, rispetto ai precedenti (il berlusconismo e l’antiberlusconismo), è proprio l’immaturità dei suoi attori. L’impressione è che non si tratti di una maschera indossata per l’occasione, bensì che l’artificio sia congenito a Renzi e alle sue renzine. Sono proprio così come si mostrano. E la tragedia è che piacciono.
La stessa profonda, ingenua innocenza, illustrata da The Ecomist, prorompe come luce divina dall’estatico sguardo e dalla parole bambinesche di Alessandra Moretti nella drammatica intervista rilasciata a Corriere Tv, a metà novembre. Naturalmente il video ha divertito gli utenti dei vari social network, ma il fatto che il divertimento degli allegri frequentatori di facebook non abbia lasciato il posto a un briciolo di inquietudine, dimostra fino a che punto intervistata e spettatori dialoghino in sintonia nel medesimo campo semantico.
L’ostentata e profonda fiducia nella propria intelligenza, nella propria bravura e nella propria bellezza, quel suo insistente rivendicare – anche a nome delle sue colleghe di partito – questa triplice virtù, lo stile Ladylike, il considerarsi una risorsa importante per l’Italia e il diritto alla ceretta (“Perché, io come devo venire, con i peli, i capelli bianchi? Tante donne io voglio rappresentarle al meglio”), contiene un che di patologico, non in specifico riferimento alla Moretti, imbarazzante nel suo candore, bensì alla politica e, di conseguenza, allo stato di salute della cosiddetta democrazia. Sentendola parlare – così come anche ascoltando le altre pasionarie Boschi, Mogherini… – quel che si percepisce con un certo imbarazzo e non poca tristezza, è il giogo dell’asservimento ideologico alla forma-merce e al dominio maschile. Difficile, davanti al racconto della giornata tipo della vispa Alessandra, del suo accompagnare i propri figli a scuola facendo jogging, delle sue sedute dall’estetista, del suo piacere di curare se stessa, non immaginarla da piccola, intenta a vestire e a pettinare le bambole, regalatele perché si preparasse al suo futuro di donna, a sua volta confezionata in adeguamento al gusto maschile.
Non esiste differenza tra quanto di tristemente conformato emerge dalle sue parole, e la risposta di Renzi che espone il proprio infantilismo alle telecamere il giorno dopo l’uscita della vignetta di The Economist, sorridente, scherzoso, mostrando un cono gelato vero in mano. Dov’è la differenza con la gara di boccacce tra l’uomo diventato bambino e un suo compagno di classe immortalata da Gombrowicz nel suo romanzo?
Novello Ferdydurke, Renzi è il perfetto prototipo di quell’infante senza tempo, creato dalla tecnologia telematica, abituato a protrarre la goliardia universitaria per l’intero arco della vita. Nati in un’epoca in cui non più l’uomo, ma il neotech creava socialmente l’uomo, Renzi e le sue discepole sono la prima generazione cresciuta e plasmata dalla società ipertecnologica della televisione h24 e delle macchine; uomini e donne, incarnazione luminosa degli effetti dell’omologazione estrema, del conformismo, dell’immaturità così come descritta da Gombrowicz, intesa come l’ultimo modello di anima dell’uomo contemporaneo. Per quanto sia doloroso dirlo, sta proprio in questa loro attitudine naturale la ragione per cui oggi siedono al governo.
L’ascesa politica di questa nuova generazione legata al Pd, quindi, non è il frutto del caso. Se mai, è il capolinea di una tenace ricerca di governabilità da parte delle élite economiche, iniziata nel 1992 con la fine della prima Repubblica. Ma se oggi l’Autorità si spella le mani applaudendo Renzi alla Leopolda o al Salone delle Fontane dell’Eur; se sorride, si dà di gomito con i compari di finanziamento, occorre ricordare che per la classe dirigente italiana, la ricerca è stata difficile, dura, priva di soddisfazione e a tratti umiliante. Prima di arrivare fin qui ha sudato le famigerate sette camicie, costate il sacrificio di non pochi governi, tra politici e tecnici, di mestieranti della politica, e della felicità quotidiana di milioni di italiani. Danni collaterali, come si dice, errori attribuibili all’ansia della restaurazione, sorta nel momento in cui la fine dell’impero sovietico suggeriva che si potesse chiudere definitivamente con l’epoca della difesa del conflitto da parte della sinistra.
Che se prima era giustificabile in senso strategico la presenza di un’opposizione, adesso che il modello economico comunista spariva dalla mappa politica, salvare le apparenze non serviva più. Il compito affidato oggi a Renzi, lo smantellamento dei residuali diritti dei lavoratori raccontato ai suoi simili, nel 1992, in mancanza di più credibili attori, era stato commissionato a chi doveva dimostrare che la sinistra post-comunista fosse degna di fiducia nei panni di partito di governo. Ovvero, come garante del potere padronale.
E benché, a onore di quest’ultimo, vada riconosciuto che la scelta di Renzi e la sua truppa di quote rosa è perfetta, poiché questi, per ignoranza, cinismo e inconsapevolezza della loro funzione, rappresentano la quadratura del cerchio – una scelta che renderà cosa fatta nel giro di pochi anni il tanto ambito Unipolarismo politico – altresì va detto che chiedere a suo tempo a D’Alema e Bersani, a Rutelli e Veltroni, di ripudiare il loro passato e rimanere ugualmente credibili di fronte al proprio elettorato, è stata un’enorme sciocchezza. Con quella soma ideologica che, pur negandola penosamente, reggevano sulla groppa, quei politici erano difficilmente smerciabili, costretti com’erano a comunicare sempre tra le righe, facendo intendere una cosa agli elettori di sinistra e il suo opposto ai moderati italiani casinberlusconianleghisti.
I loro limiti erano oggettivi. Prima di tutto perché la stagione comunista era ancora troppo prossima, e poi perché nel 1992 si sentivano già i clamori di un nuovo mondo in arrivo. I telefonini non erano ancora una protesi dell’individuo, il computer era lungi dall’essere quell’Io parassitario nei cervelli delle persone che è oggi, la rete non c’era, né twitter né facebook, ma già imperava l’educazione sentimentale di bambini e adolescenti sottoposti a televisione e rimbastation. Tempo quattro, cinque anni, e quel mondo antico avrebbe fatto i bagagli per lasciare posto alla fantascienza della microtecnologia in affiancamento ai programmi televisivi e radiofonici.
I Renzi, i renzini e le renzine dell’attuale governo sono i primi prodotti della generazione cresciuta in quegli anni. Incarnano politicamente il risultato della più pervasiva omologazione ambientale della storia. Per cui, quei politici di ‘vecchio’ conio di centrosinistra, costretti a interloquire con un elettorato che dal proprio partito pretendeva ancora la difesa dei lavoratori, indipendentemente dal loro incarnato, erano fatalmente destinati alla sconfitta. I nuovi prodotti umani in forza al Pd non sono per loro natura sottoposti a questo tipo di rovelli. Proprio per il fatto di essere stati bambini e adolescenti in quell’epoca, possono agire senza conflitti psicologici e senza sentire il peso della responsabilità nei confronti del loro interlocutore elettorale.
Per buona parte parlano ai loro coetanei, a compagni di omologazione, alcuni dei quali cresciuti sotto la ‘sindrome berlinese’ del dopo-muro, e tutti venuti grandi nel culto della merce, della tecnologia, dell’avvenenza, dell’eterno infantilismo, dell’ignoranza e della proprietà privata sancita per legge divina. Da allora sono trascorsi ventitré anni, e la sintonia con il riflusso è ormai definitivamente terreno comune. Tutti omologati, attraverso prassi quotidiana, modelli di vita e abitudini, e (basta osservare la luce che sprizza dagli occhi della Moretti mentre, durante l’intervista, ostenta il proprio inscalfibile e contagioso conformismo) gioiosi di esserlo.
Le date di nascita della nuova generazione politica (citando i suoi attori più spesso inquadrati dalle telecamere) rendono più chiaro quanto espresso sopra. Ancor di più considerando l’alto censo sociale da cui tutti provengono (tra parentesi l’anno della maggiore età e della prima passeggiata verso l’urna elettorale): Matteo Renzi, Dario Nardella, 1975 (1988); Simona Bonafé, Federica Mogherini, Alessandra Moretti, 1973 (1986); Marianna Madia, 1980 (1998); Pina Picierno, Maria Elena Boschi, 1981 (1999); Anna Ascani, 1987 (2005).
La trasversalità politica di Renzi dimostra che l’uniformità di gusto è ormai un fatto sociale acquisito. Rappresenta la merce politica che gli elettori acquistano con la moneta del voto, alla stessa maniera con cui acquisterebbero uno specchio per guardarvi dentro la propria immagine. Di Renzi, infatti, a fare breccia non sono le idee (sempre le medesime: trito e ritrito indottrinamento storicamente tipico diffuso della classe dominante) ma gli atteggiamenti manageriali (giovanilismo, iperattività, fermezza capricciosa, finto anticonformismo) che raccontano del culto dell’imprenditore, del successo, della ricchezza e della cultura televisiva. I suoi schemi mentali sono determinati dalle imposizioni della ‘modernità’ del multitasking: Renzi parla in pubblico usando il tablet, supporta il vuoto di contenuti con slide infantili e banali, scrive tweet e pubblica commenti adolescenziali su facebook, evidenziando la sua natura di perfetto conformato, preso contemporaneamente da mille attività, e per questa ragione mai presente a se stesso, al grido di: “Voglio tutto qui e adesso!”
È a quest’uomo, che il potere economico, con la mediazione dal presidente Napolitano, ha assegnato il compito di sanare il dislivello tra le nuove esigenze della realtà economica ai tempi della crisi, e la sovrastruttura politica troppo vecchia. È a lui che è stato chiesto di chiudere definitivamente con la concertazione, di tagliare con la tutela sindacale dei lavoratori per consegnare questi ultimi nelle mani del padronato privi di qualunque difesa; di blandire l’elettorato cresciuto nel benessere post-muro attraverso un volto innocente, in quanto non compromesso con il passato prossimo e remoto di sinistra né con le malefatte dei governi precedenti.
A tale scopo, D’Alema e la sua compagnia non erano idonei. Troppo legati alle logiche politiche del Novecento per organizzare un perfetto restyling del partito. Troppo prematuri i tempi (nel 1992), troppo ampio (per via della prossimità al Pci) il dislivello tra la morale umana di sinistra (che pone al centro l’individuo sfruttato sul lavoro e nel suo quotidiano) e la morale del sistema economico moderno, che pretende la totale rimozione dal discorso politico del concetto di sfruttamento. Assurdo con questi presupposti pretendere da quei ‘vecchi’ di abbandonare di colpo gli antiquati postulati politici e spostare in maniera invisibile l’asse dei valori di sinistra, passando allegramente dalla difesa dei lavoratori all’assistenzialismo garantito al padronato.
È stato penoso assistere agli ultimi venticinque anni di manovre finalizzate in tale direzione. E lo è ancor più oggi; vedere questi ‘vecchi’ presi tra la paura di non essere all’altezza del compito, e quella di poter perdere un potere interno al partito che sembrava acquisito in maniera stabile, appellarsi ai sorpassati strumenti della loro cultura e a quei valori a cui per primi hanno cercato di abdicare in maniera subdola e invisibile (l’antiberlusconismo ha giocato in questo un ruolo di copertura). Tutto inutile. A liquidarli è stata la storia, nei panni di una generazione (curioso paradosso storico) che fa della falsa coscienza un caposaldo del proprio operato. Ad Andreotti, l’immutabile condizione storica e ambientale ha concesso di governare per cent’anni; a questi ‘vecchi’, i rivolgimenti politici prima e la rivoluzione tecnologica e di costume dopo, hanno interrotto il sogno di un longevo dominio sul modello democristiano proprio al suo sorgere.
Ci hanno provato, ma senza successo, pur predicando gli stessi assiomi che oggi Renzi, senza fatica, afferma nel tessuto sociale italiano. Per questo, oggi, Veltroni non ha torto quando rivendica di ritrovare nelle parole di Renzi e delle sue ragazze, la linea politica da lui promossa ai tempi della sua candidatura, allorquando caldeggiava l’abbattimento dell’antitesi padrone/lavoratore. Oggi – simile al fantasma di Sir Simon creato da Oscar Wilde – passeggia per la Leopolda con l’atteggiamento dell’incompreso precursore dei tempi, dimenticando, se non addirittura ignorando, che già nel 1891, Papa Leone XIII si era auspicato la stessa ‘pace’ nella sua enciclica sociale scritta per porre un freno all’ascesa del pensiero socialista. Solo centoventitré anni prima!
Fatto è che la politica deideologizzata è diventata fatalmente merce e, si sa, la merce destinata al consumo, non ha né una storia né un futuro né un presente. Il governo Renzi è perfetto per un’operazione di cancellazione della memoria. Niente storia, niente confronto. Quel che resta è solo l’esistente minuto per minuto in perfetta sintonia con il concetto di merce e di consumo. E nel giro di pochi mesi, questi ‘nuovi’ sono riusciti a consolidare il totem del post-moderno in ideologia totalitaria, così come lo descriveva il suo bardo Lyotard. Ottenendo il risultato di abbattere il tabù della politica, intesa come formulazione di analisi sociale, ovvero come uso degli strumenti del pensiero e della cultura; e di abbattere il tabù del rispetto dell’altro e del linguaggio articolato, riducendo la politica a una merce da vendere nel mercatino del senso comune.
Già nel 1994 il bipolarismo elettorale aveva comportato la divisione fittizia in due forze, riducendo la competizione a uno scontro tra due merci simili i cui testimonial erano altrettante individualità più o meno forti. Unica opposizione: la pubblicità comparativa, secondo cui l’altro sarebbe meno competente nel gestire il mercato, anche se dove stia la differenza è sempre più difficile da capire. Sulla stessa linea si è sviluppato ultimamente lo scontro interno al Pd. Preso da entrambe le contese, il governo Renzi ha il vantaggio di presentarsi come il nuovo contrapposto al vecchio. Sa bene che in una società consumistica, il nuovo uccide sempre il prodotto di precedente generazione. E poiché nel mondo della merce conta la confezione, ecco la giovinezza, e con essa, ecco l’abbattimento dell’ultimo tabù: l’erotizzazione della politica e il fascino femminile come attrattiva. Un fascino non conturbante, ma che fa della bellezza un’attrazione verso la merce neoliberista.
Nell’immaginario umano, come insegnano i cosiddetti creativi del marketing, immaturità, giovinezza ed erotismo vanno di pari passo. L’idealizzazione di questo periodo della vita, in grado di attrarre, con la sfrontatezza, sia il giovane che l’adulto entrato nella fase discendente, crea una fascinazione immediata. Ciò che sgomenta, nello specifico delle renzine, è la loro inconsapevolezza. Essendo il prodotto di questo modello sociale, e per questo incapaci di sottoporlo a critica, sono poco dotate di una visione d’insieme che restituisca loro il senso di sé e della funzione che svolgono nel governo.
A proposito della falsa coscienza, Alessandra Moretti, dopo avere affermato la triplice virtù sua e delle sue ‘compagne’ di governo (belle intelligenti e brave), dichiara con innocenza che, al contrario di loro, la berlusconiana Nicole Minetti è stata usata. Senza nutrire il sospetto che il suo governo abbia strumentalizzato il concetto democratico di quote rosa, per sfruttare senza scrupoli il fascino del corpo femminile, giovane e bello, per lanciare il proprio prodotto. E ha ragione, la vispa Alessandra, quando allude alla propria necessità di andare due volte alla settimana dall’estetista per essere presentabile, che la politica sta cambiando. Ciò che sembra non comprendere è come venga utilizzata la figura femminile, e quanto sia strano notare che le donne meno conformi all’immaginario erotico maschile siano diventate tanto poco intelligenti da essere bandite dalle luci della ribalta.
Di questo governo giovane, come si può vedere, è stupefacente l’innocenza. I suoi protagonisti non si mascherano più, come fa il protagonista di Ferdydurke, l’esistenza e l’essenza si sono fuse. Forse la politica d’ora in avanti sarà priva di sentimenti (da non confondere con il sentimentalismo, maschera inossidabile di molta gente di sinistra), di doppia morale, e per questa ragione mai cinica. Schietta, se mai, sincera perché senza più infingimenti: i sindacati non sono d’accordo?
Ce ne faremo una ragione, vien detto, accettando con il sorriso l’implicito effetto di migliaia di persone che perdono il lavoro. Una sincerità autentica, che vale solamente nell’attimo in cui viene affermata, ma che non varrà più domani quando altrettanto sinceramente la stessa bocca presenterà il Jobs act come una difesa dei lavoratori a coloro che il lavoro lo hanno appena perso.
È la medesima sincerità che prontamente interviene a insegnare, con il fascino tipico della fiction ben scritta, il nuovo prodotto dell’industria culturale americana: House of cards. Una serie televisiva che mette al bando i vecchi registri narrativi, mirati a proteggere il sistema politico con storie di mele marce impegnate a mettere in crisi un dominio essenzialmente onesto. Ma oggi che la politica ha subìto numerosi contraccolpi, tali da manifestare la realtà corrotta dell’intero sistema, ecco l’inversione. House of cards attesta definitivamente che la politica è certamente un mondo privo di scrupoli, senza zone buie, perché tutto è avvolto dalle tenebre.
Tuttavia, e in questo si annida la nuova propaganda, quanto affascinanti e quanto machiavellici sono i suoi attori, in una realtà politica immersa in un lieto infantilismo, nel quale, come accade tra bambini, la parola non impegna ad alcuna responsabilità, perché gli stessi contraccolpi sociali che ne derivano non hanno più un peso. Esattamente come non ha più un peso il pensiero.