Il Piano Ionta e la privatizzazione delle carceri, la gestione privata di cooperative, onlus e Misericordie dei Centri per l’immigrazione
Nel novembre 2008 trapela sui quotidiani “un’informazione interna non destinata alla stampa” – così la definisce un portavoce – del Credito Svizzero, la seconda banca elvetica: il documento propone fondi d’investimento le cui principali azioni sono quelle delle corporation che gestiscono le carceri private, società americane soprattutto.
Il ragionamento che sta dietro l’offerta d’investimento non fa una grinza: la recessione – che costringe il sistema bancario a spremersi le meningi per trovare nuovi filoni d’oro in cui investire – non potrà che contribuire ad aumentare l’illegalità, e con essa i criminali rinchiusi nelle prigioni. L’altra faccia della moneta con l’effige della crisi economica, infatti, vede contemporaneamente sia l’incremento dell’immigrazione da quel terzo mondo ancora più colpito dalla recessione di quanto lo sia il primo mondo industrializzato, sia l’aumento della povertà ‘autoctona’ di quest’ultimo, come certifica, anche per l’Italia, l’ultimo rapporto dell’Istat. Migliaia di affamati stranieri marciano verso di noi in cerca di un lavoro e di un’esistenza migliore, finendo per approdare a una vita di stenti e di piccola delinquenza sempre più condivisa da cittadini anch’essi disoccupati. Tutto questo, in un sistema carcerario come quello statunitense – nel quale le corporation percepiscono dallo Stato un rimborso pro-capite – significa profitti abbondanti e garantiti.
Angela Davis (1) prende a esempio lo stato della California per mostrare l’incremento del numero degli istituti di pena nel corso degli anni: la prima prigione fu costruita nel 1852, la seconda nel 1880. Nel 1955, trascorso dunque un secolo, le carceri erano diventate nove. Tra il 1984 e il 1989 – presidenza Reagan – le corporation private entrano nell’affare della costruzione e della gestione delle prigioni e in cinque anni appena il loro numero raddoppia, diventando diciotto. Negli anni Novanta se ne aggiungono altre dodici.
L’era reaganiana è stata l’era del neoliberismo, della scuola di Chicago, della deregulation in ambito finanziario, della deindustrializzazione dell’economia americana, della delocalizzazione. La conseguente disoccupazione creata dalla crisi industriale, in un sistema come quello statunitense praticamente privo di stato sociale, ha prodotto una grande massa di cittadini ‘superflui’ al sistema produttivo e incapaci economicamente di far fronte alla propria vita. In un circolo vizioso, le carceri si sono riempite di disperati colpevoli di piccoli reati e le corporation, che vedevano crescere esponenzialmente i propri profitti, si sono buttate sempre più a capofitto nella costruzione di nuove prigioni. Tuttavia non solo la disoccupazione crescente contribuiva a far aumentare la popolazione carceraria: nuove leggi draconiane figlie dell’ideologia della ‘tolleranza zero’ e del cosiddetto ‘pugno di ferro’ nei confronti della criminalità – certezza della pena, periodi detentivi più lunghi, criminalizzazione dei reati di droga – hanno creato ‘criminali’ ben più di qualsiasi deindustrializzazione.
Oggi gli Stati Uniti detengono il triste primato di più di due milioni di persone incarcerate su un totale mondiale di nove milioni; più del 20%, quando la popolazione statunitense non arriva a essere il 5% di quella globale; negli anni Sessanta i detenuti erano poco meno di duecentomila. La composizione razziale della popolazione carceraria è un altro dato significativo: latinoamericani e afroamericani sono il 65,2%, i bianchi il 29,2%. Tra i primi sono i latinoamericani a essere il numero maggiore, il 35,2%, e questo la dice lunga sull’evoluzione sociale ed economica della società statunitense. Al tempo della schiavitù, nello stato dell’Alabama, per esempio, il 99% dei detenuti erano bianchi; liberati gli schiavi, la popolazione carceraria divenne in grande maggioranza nera; con i successivi flussi migratori dal vicino centro e sud America, i latinoamericani si sono conquistati il podio della classifica. Resta da vedere nei prossimi anni, quanto l’attuale recessione esplosa con i mutui subprime farà aumentare la percentuale dei carcerati bianchi (ex) ceto medio.
Secondo i dati statistici del Dap (Dipartimento amministrazione penitenziaria), attualmente in Italia sono 206 le carceri e poco più di 63.000 i detenuti, un numero che dal dicembre 2007 si incrementa alla velocità di quasi 1.000 persone al mese. Nel 1971 erano circa 28.000, nel 1991 erano 35.500; nonostante un picco tra il 1984 e il 1985 (quasi 45.000), e non dimenticando indulti e/o amnistie (anni 1978, 1981, 1986, 1990 che hanno riguardato rispettivamente circa 11.100, 6.700, 9.700 e 12.000 detenuti) resta il fatto che passati vent’anni la popolazione carceraria era aumentata di 7.500 persone (ai ritmi odierni, l’equivalente di sette mesi e mezzo). Ed è proprio il 1991 che segna una cesura: da allora, il numero dei detenuti è progressivamente aumentato: 47.300 nel 1992, 50.300 nel 1993, 54.600 nel 1994. Altalenanti i cinque anni successivi, dalla punta minima del 1995 (46.900) a quella massima del 1999 (51.800), e da allora nuovamente in costante aumento fino ai 61.000 del giugno 2006, che l’ultimo indulto ha contribuito a portare a 39.000 a dicembre 2006. Si può facilmente supporre che l’aumento nei tre anni dal ’92 al ’94 sia dovuto anche a Tangentopoli, è meno chiaro il fatto che gli anni Novanta e i successivi abbiano prodotto più ‘criminali’ che non i cosiddetti anni di piombo, catalogati come anni violenti; a meno di non analizzare il fenomeno con la chiave di lettura della Davis e con quanto già accaduto negli Stati Uniti. È proprio dopo Tangentopoli, infatti, che in Italia prende il via il neoliberismo, la privatizzazione del sistema sociale, la precarizzazione del lavoro. E quindi per quanto ‘violenti’ possano essere stati gli anni Settanta, sono gli anni successivi, che hanno visto la fine del conflitto sociale con la sconfitta dei lavoratori, a portare un progressivo e sistematico aumento di ‘criminali’: cittadini, autoctoni e stranieri, divenuti superflui al sistema produttivo, affamati da miseri salari, privi di stato sociale, costretti alla piccola delinquenza per sopravvivere, per di più criminalizzati da leggi figlie della ‘tolleranza zero’.
Sono gli anni duemila della ‘politica della sicurezza’ infatti a registrare il maggior aumento esponenziale (malgrado il cosiddetto ‘indultino’ del 2003 – una sospensione condizionata della pena che ha riguardato circa 9.500 detenuti), grazie agli effetti inflativi di leggi come ex Cirielli sulla recidiva, la Bossi-Fini sull’immigrazione e la Fini-Giovanardi sulle droghe, che producono gran parte di quei 1.000 nuovi ‘criminali’ al mese e che hanno portato la popolazione carceraria a quota 63.000 ad appena tre anni dall’indulto.
Una torta, quella del sistema carcerario, della quale il grande capitale privato italiano ha deciso di divorare una enorme fetta: in tempi di crisi come questi non ci si può far sfuggire l’occasione di investimenti protetti, soprattutto se l’esperienza di altri Paesi dimostra quanto il settore sia redditizio.
In Italia non esistono carceri private. Non che la via della privatizzazione non sia stata tentata. Ci provò per primo Fassino, ministro della Giustizia nel gennaio 2001: bandì un concorso di architettura e invitò il capitale privato a entrare sia nella costruzione che nella gestione delle nuove carceri. Non se ne fece nulla, anche perché di lì a poco la destra vinse le elezioni. L’anno successivo il nuovo guardasigilli Castelli ripropose la privatizzazione, costituendo addirittura nel luglio 2003, con l’appoggio di Tremonti, anche allora ministro dell’Economia, una società, la Dike Aedifica spa, al 95% di proprietà della Patrimonio spa – a sua volta controllata dal governo. L’idea era ancora quella di mettere insieme capitale pubblico e capitale privato, ma anche questa volta il progetto non decollò. Mal d’italianità… La Dike Aedifica attrasse infatti, più che capitali privati, l’attenzione della magistratura, che aprì un’inchiesta per concussione e corruzione. Si può star certi che non appena sarà definitivamente riformato il sistema giudiziario, rese impossibili le intercettazioni, messa a tacere la stampa, il capitalismo nostrano potrà con profitto e a suo modo – sotto l’ala monopolistica garantitagli dalla corruzione del sistema politico – entrare nell’affare carceri e porre rimedio alla sua strisciante lentezza nel mettere a profitto le mutazioni economiche e sociali. Nel frattempo, per preparare il terreno, il ministro Alfano dichiara a gennaio di quest’anno l’insostenibilità di una popolazione carceraria di 63.000 detenuti a fronte di 43.000 posti regolamentati e nomina Franco Ionta – direttore del Dap – commissario straordinario per l’edilizia carceraria, con il compito di presentare entro 60 giorni un piano risolutivo. E a maggio Ionta lo presenta.
Costruzione di 46 nuovi padiglioni in carceri già esistenti e di 22 nuove carceri, per un totale di 17.000 nuovi posti (ben pochi, ma si suppone sia solo l’inizio), tassativamente entro il 2012. Per evitare intoppi, a Ionta vengono riconosciuti poteri straordinari – potrà sostituirsi agli organi amministrativi competenti per accelerare la realizzazione delle opere – e, in caso di ricorsi al Tar, il cui termine per la presentazione è portato da 30 giorni a 5, i contratti già stipulati non verranno sospesi e in caso di accoglimento del ricorso saranno previsti solo risarcimenti monetari: il cantiere carcerario andrà avanti, sempre e comunque. Nel frattempo, per affrontare l’emergenza affollamento, il piano ipotizza l’utilizzo di piattaforme marine o navi ormeggiate in prossimità di porti italiani – una soluzione già adottata in Inghilterra, Stati Uniti e Olanda – giusto per tornare alla radice etimologica della stessa parola ‘galera’, da galea, la nave in cui i detenuti scontavano remando la propria condanna.
A finanziare tutto questo, (scarsi) fondi statali, tra i quali la Cassa delle ammende, e capitale privato. Non a caso il 15 maggio scorso si sono incontrati al ministero della Giustizia lo stesso Ionta, Alfano, Emma Marcegaglia e Paolo Buzzetti, presidente dell’Associazione nazionale dei costruttori edili. Project financing è la parola magica.
Un gruppo di imprese, anche totalmente prive di esperienza nel settore nel quale vogliono investire, crea una specifica società di progetto e chiede soldi alle banche; in genere, per concedere o meno un finanziamento gli istituti valutano la solidità economico-patrimoniale di un’impresa e le eventuali garanzie che essa offre; non in questo caso. La società di progetto è una scatola vuota. A essere valutato è solo il progetto stesso, nei termini della sua capacità futura di produrre reddito. In questo caso, la capacità di produrre reddito sarà data, una volta costruito il carcere o il padiglione, dalla gestione di tutti quei servizi non di competenza esclusiva dello Stato per legge (la sicurezza), e cioè la lavanderia, la mensa, la manutenzione, eccetera. Servizi che lo Stato pagherà alla società privata di progetto fino a quando essa non sarà rientrata dei soldi spesi (del debito verso la banca); si suppone che i soldi che lo Stato verserà per tali servizi saranno comprensivi anche del profitto della stessa società di progetto, non essendo le imprese private associazioni non a scopo di lucro. Se il rimborso dello Stato sarà dato procapite non è dato saperlo, ma certamente più numerosi saranno i detenuti bisognosi di mensa e lavanderia più il profitto privato legato a tali servizi sarà alto, e come per ogni investimento strutturale, più lo si potrà sfruttare al 100% (più il carcere sarà pieno) più sarà ammortizzato in breve tempo. Gestione della sicurezza a parte, è lo stesso meccanismo di profitto delle corporation americane: la merce da produrre, in questo settore, è l’uomo stesso: il detenuto.
Meritevole di rilievo è anche l’utilizzo della Cassa delle ammende, una scelta degna di far parte di una commedia dei paradossi, non fosse che la distinzione tra farsa e tragedia si concreta proprio nel finale. Istituita con una legge del 1932, fino al gennaio di quest’anno aveva lo scopo esclusivo di finanziare interventi in sostegno alle famiglie dei detenuti e programmi di reinserimento di questi ultimi; con un emendamento al ddl 1305 è stato stabilito che finanzierà la costruzione di nuove carceri. Sembra una barzelletta. Anziché aiutare gli ex detenuti a restare liberi, i fondi della Cassa delle ammende costruiranno nuovi muri entro cui rinchiuderli. Ma il sillogismo che sembra essere stato adottato per la variazione di scopo è ancora migliore: essendo quei fondi finalizzati al reinserimento dei detenuti, ed essendo prevista l’utilizzazione dei detenuti stessi per la costruzione delle nuove carceri (per “interventi edilizi complementari” come imbiancare, abbattere muri, spostare brande), ed essendo il lavoro contemplato tra le attività di reinserimento, la Cassa delle ammende può essere utilizzata per la costruzione delle nuove prigioni.
Se dal lato carceri la privatizzazione sta muovendo solo ora i primi passi, da quello Centri per l’immigrazione il capitale privato già da qualche anno trae lauti profitti. La gestione dei vari Cspa (Centri di soccorso e prima accoglienza), Cda (Centri di accoglienza), Cara (Centri di accoglienza per i richiedenti asilo) e Cie (Centri di identificazione ed espulsione) è infatti interamente privata. Con decreto del 21 novembre 2008 a firma del ministro dell’Interno Maroni è stato stabilito il nuovo schema di capitolato di appalto che contempla dettagliatamente – fino a sfociare nel ridicolo con voci che stabiliscono la frequenza minima con cui deve essere effettuata l’“aspirazione/battitura pavimenti tessili, stuoie e zerbini” e la “spolveratura ringhiere scale” – la natura dei servizi di gestione amministrativa, di assistenza generica alla persona, di assistenza sanitaria, di pulizia e di fornitura di beni quali pasti, effetti letterecci (lenzuola, coperte), prodotti per l’igiene personale, vestiario e generi di conforto. A leggere lo schema di capitolato, la vita in un Centro per l’immigrazione appare una pensione a tre stelle – reclusione forzata a parte. Di certo, è per fornire questi beni e servizi che le varie cooperative sociali e Misericordie e onlus – chissà, forse non prive anch’esse di mal d’italianità, in quanto si sta stranamente formando se non un monopolio di certo un oligopolio – vengono pagate con un canone annuo, valevole per tre annualità, stabilito al momento della vincita dell’appalto. Si legge infatti nel capitolato che, a differenza della gestione fino a oggi adottata, il prezzo non è “più determinato sulla base del canone pro-die/procapite” e quindi è aggirata l’equazione più immigrati uguale più guadagni.
Eppure…
Eppure, a leggere i punti dello schema si scopre che fino a una variazione, in aumento o in diminuzione, del 10% del numero di persone “ospiti” (meravigliosa potenza del linguaggio…) l’importo stabilito resta valido; in caso di un aumento di presenze che ecceda il 10%, per ogni persona in più la società che gestisce il Centro ha diritto a un rimborso pro-die/pro-capite. Attualmente quasi tutti i Centri esplodono. Si può solo immaginare il numero di persone che arriveranno a contenere – in barba al dettagliato capitolato che parla di generi di conforto e pulizia e in sfregio alla dignità umana – grazie al recente prolungamento a sei mesi del tempo di reclusione nei Cie stabilito nell’ultimo pacchetto sicurezza. E di conseguenza si può solo immaginare l’ammontare del rimborso che spetterà ai vari enti che li gestiscono. Stiamo parlando di decine di milioni di euro se pensiamo che solo per il centro di Lampedusa, quando nell’aprile 2007 la cooperativa Sisifo di Palermo vinse l’appalto, il suo vicepresidente Cono Galipò parlò di circa 2 milioni e mezzo di euro l’anno, e si affrettò a specificare che “secondo i nostri conti ci rientriamo benissimo” (2).
In Italia sono attualmente operativi tre Cspa, sette Cda, sei Cara, e tredici Cie, per un totale di ventinove centri. Tutti qua? No. Perché il 21 luglio 2008 il governo emise un’ordinanza che dichiarò “lo stato di emergenza nazionale sull’immigrazione” e autorizzò l’apertura di cosiddetti ‘mini Cpt’ in edifici messi a disposizione da comuni, associazioni religiose, e varie onlus. Caratteristica dell’ordinanza fu, in nome di una dichiarata necessità di abbreviare i tempi di concessione, di affidare ai funzionari del Viminale il potere di procedere tramite trattativa privata all’aggiudicazione dell’appalto della gestione di tali centri, saltando dunque l’iter della gara pubblica. Ed ecco l’italianità che torna a fare capolino. La procura di Potenza ha aperto un’inchiesta sulla cooperativa La Cascina – facente parte del Consorzio Gruppo La Cascina, un colosso che supera i 200 milioni di fatturato l’anno e vicino a Comunione e liberazione – che sembra essersi aggiudicata l’appalto del Centro di Policoro, in provincia di Matera, senza aver nemmeno depositato presso la prefettura i documenti obbligatori comprovanti l’idoneità dell’edificio. Sembra però che i responsabili della società abbiano avuto ben altre carte da presentare, quali legami e amicizie: negli atti dell’inchiesta sono finiti nomi come Gianni Letta, il prefetto Mario Morcone, attuale capo del Dipartimento delle libertà civili e dell’immigrazione del ministero degli Interni, e intercettazioni telefoniche che fanno capo a Clemente Mastella e al segretario di Stato Vaticano Tarcisio Bertone, questi ultimi due al momento non indagati.
Sono ben 49 i mini Cpt, sparsi in tutta la penisola. Sommati ai Centri per l’immigrazione, offrono una mappa quantomeno inquietante dell’Italia. Uno Stato che ha all’attivo, oltre a 206 carceri, 78 centri di detenzione riservati all’immigrazione clandestina. E questi ultimi, in mano a quel terzo settore – più o meno gestito da enti religiosi – così tanto portato in palmo di mano per il suo interesse verso l’uomo e il disinteresse verso il profitto.
“Un filosofo produce idee, un poeta poesie, un pastore prediche, un professore manuali ecc. Un delinquente produce delitti. Se si esamina da più vicino la connessione che esiste tra quest’ultima branca di produzione e l’insieme della società, ci si ravvede da tanti pregiudizi. Il delinquente non produce soltanto delitti, ma anche il diritto criminale […]. Produce inoltre tutta la polizia e la giustizia criminale, gli sbirri, i giudici, i boia, i giurati ecc. […] Il delinquente produce un’impressione, sia morale, sia tragica, a seconda dei casi, e rende così un ‘servizio’ al moto dei sentimenti morali ed estetici del pubblico. […] Il delinquente rompe la monotonia e la banale sicurezza della vita borghese. Egli preserva così questa vita dalla stagnazione e suscita quell’inquieta tensione e quella mobilità, senza la quale anche lo stimolo della concorrenza si smorzerebbe. Egli sprona così le forze produttive. Mentre il delitto sottrae una parte della popolazione in soprannumero al mercato del lavoro, diminuendo in questo modo la concorrenza tra gli operai e impedendo, in una certa misura, la diminuzione del salario al di sotto del minimo indispensabile, la lotta contro il delitto assorbe un’altra parte della stessa popolazione. Il delinquente appare così come uno di quei naturali ‘elementi di compensazione’ che ristabiliscono un giusto livello e che aprono tutta una prospettiva di ‘utili’ generi di occupazione. […] Il Mandeville, nella sua Fable of the Bees (1705), aveva già mostrato la produttività di tutte le possibili occupazioni ecc., e soprattutto la tendenza di tutta questa argomentazione: «Ciò che in questo mondo chiamiamo il male, tanto quello morale, quanto quello naturale, è il grande principio che fa di noi degli esseri sociali, è la solida base, la vita e il sostegno di tutti i mestieri e di tutte le occupazioni senza eccezione […]; è in esso che dobbiamo cercare la vera origine di tutte le arti e di tutte le scienze; e […] nel momento in cui il male venisse a mancare, la società sarebbe necessariamente devastata se non interamente dissolta». Sennonché il Mandeville era, naturalmente, infinitamente più audace e più onesto degli apologeti filistei della società borghese”.
Karl Marx, Digressione sul lavoro produttivo, Manoscritti 1861-1863
(1) Aboliamo le prigioni? Contro il carcere, la discriminazione, la violenza del capitale, Angela Davis, minimum fax
(2) Le coop sbarcano nel cpt, Cinzia Gubbini, il Manifesto, 1 aprile 2007