Nuove regole al servizio della grande finanza
Il 20 gennaio scorso il governo Renzi ha varato la riforma delle banche popolari, che il mercato, parole sue, attendeva “da trent’anni”. I dieci istituti più grandi, con un patrimonio pari almeno a 8 miliardi di attivi, avranno un anno e mezzo di tempo per dismettere i panni del cooperativismo ormai obsoleto e trasformarsi in s.p.a. Un “momento storico” dice il premier Matteo Renzi, e sottolinea che il Belpaese, pur potendo vantare un sistema bancario “serio, solido e sano”, ha però “troppi banchieri e troppo poco credito”, e che l’obiettivo dell’intervento del governo è quello di rafforzare il sistema per essere pronti alle sfide europee ma senza “danneggiare i piccoli istituti” e senza toccare “il credito cooperativo” (1). La rivoluzione, annunciata già nei giorni scorsi, è contenuta all’interno del cosiddetto “Investment compact”, un pacchetto che avrebbe dovuto contenere diverse misure sugli investimenti, ma che si è trasformato principalmente in un decreto sulle banche.
Il ministro dell’Economia Pier Carlo Padoan spiega che la decisione di procedere per decreto è stata presa “per dare un segnale di urgenza” e che la scelta del governo “concilia la necessità di dare una scossa forte preservando però in alcuni casi una forma di governance che ha servito bene il Paese”. Per questo si parte dalle grandi, anche se in futuro andranno valutati “altri suggerimenti di modifica della governance” per le piccole. Secondo il ministro, i diciotto mesi concessi per adeguarsi sono “un tempo sufficiente per un processo che potrebbe essere completato in molto meno” (2). Sembrerebbe una manovra del tutto ineccepibile. O forse no?
Le banche popolari, nel diritto italiano, sono istituti di credito di norma costituiti come società cooperative, che si distinguono dagli istituti di credito aventi natura giuridica di società per azioni per alcune peculiarità:
- a) limite di possesso: le quote investite da ogni socio non possono superare lo 0,5% del capitale sociale;
- b) mutualità: la maggioranza almeno relativa delle quote (o delle azioni se lo statuto prevede la suddivisione del proprio capitale sociale in azioni) deve essere detenuta da clienti dell’istituto, il che significa che una porzione consistente dei servizi viene offerta ai soci;
- c) voto capitario: ogni azionista vale un solo voto in assemblea, a prescindere dal numero di quote (o azioni) possedute;
- d) clausola di gradimento: consiste nella espressione, da parte di un organo sociale specificamente indicato (per esempio l’assemblea, il consiglio di amministrazione o l’amministratore delegato), di un nulla osta a cui è subordinato l’ingresso di un nuovo socio.
Nate in Germania nell’Ottocento e ‘importate’ in Italia da Luigi Luzzatti – giurista, economista e politico (fu anche presidente del Consiglio nel 1910) – le banche popolari adottano un modello di business incentrato sulla costruzione di rapporti stretti e duraturi con il territorio: piccole e medie imprese e famiglie. Questo modello, chiamato relationship banking (credito di relazione) ha favorito il continuo allargamento della base sociale e l’espansione delle attività. Le banche popolari hanno una distribuzione capillare sul territorio e una presenza maggiore nelle aree ad alta intensità di piccole e medie imprese (nord e centro del Paese). Nel corso del processo di concentrazione che ha interessato il nostro sistema bancario negli ultimi anni, gli istituti sono scesi da 93 (2006) a 70 (2014), mentre gli sportelli sono aumentati da 7.700 a quasi 9.300 (con una quota che rappresenta il 25% del mercato); i dipendenti sono passati da 73 mila a 81 mila, i soci da 1,045 milioni a 1,340 milioni, i clienti da 8,1 milioni a oltre 12 milioni e il totale dell’attivo da 387 a 450 miliardi (3).
Alcune di loro sono diventate nel tempo veri e propri colossi (almeno per la realtà nostrana), e fra le prime dieci banche italiane per capitalizzazione in borsa a gennaio 2015 troviamo ben quattro banche popolari – che non sono, bisogna ricordarlo, delle normali società per azioni –: Ubi Banca (terza con 5 miliardi e 95 milioni di euro), Banco Popolare (quinto con 3 miliardi e 505 milioni), Banca Popolare dell’Emilia Romagna, titolo molto speculativo e molto volatile (ottava con 2 miliardi e 521 milioni), e infine Banca Popolare di Milano (nona con 2 miliardi e 445 milioni di capitalizzazione) (4).
Perché si ritiene necessario cambiare le regole? In conferenza stampa, Padoan sostiene che la riforma “rafforza il sistema bancario italiano che andrà sempre meglio man mano che la ripresa si consolida”, ma non chiarisce come o perché, mentre spiega che la scelta di intervenire con decreto sarebbe legata “alle imminenti scadenze Ue”: “Siccome stiamo uscendo dalla crisi c’è sia l’opportunità che la necessità di un sistema bancario che sia pronto a una concorrenza europea maggiore”, e con un decreto legge “diamo all’intervento un significato di urgenza” (5).
Se il significato delle parole del ministro dell’Economia rimane un tantino oscuro, ci pensa Renzi a sgombrare il campo dai dubbi, pregando i giornalisti presenti in sala di aiutarlo “a far passare il messaggio vero” e cioè che “non sono finite le banche territoriali, le banche popolari restano tali, quelle molto grandi hanno 18 mesi per fare quello che chiede il mercato, cioè diventare società per azioni” (6).
La prima cosa certa è dunque che la modifica delle regole risponde ai desiderata del mercato, e non dei risparmiatori-clienti. In che modo? Rendendo le grandi banche popolari (le più appetibili per gli investitori), scalabili. Finora infatti la presenza contemporanea delle clausole del limite al possesso e del voto capitario facevano in modo che fosse impossibile sottrarre il controllo della banca all’alleanza fra soci numericamente più consistente. Con la nuova legge il consiglio di amministrazione delle banche con un patrimonio superiore agli 8 miliardi di euro diventerà invece espressione di chi detiene la maggioranza delle azioni, come in ogni altra spa e come vogliono le regole della migliore ‘democrazia finanziaria’: chi è più ricco comanda.
Non sorprende quindi che Matteo Renzi dichiari a Porta a Porta il 4 febbraio scorso: “Sono pronto a mettere la fiducia sul decreto, bisogna togliere le banche dalle mani dei signorotti locali”: l’obiettivo della riforma è sostituire l’attuale governance localista con un’altra, che si spaccia per migliore senza poterne svelare i connotati.
E il mercato ha mostrato di gradire la riforma prima ancora che venisse ufficializzata. Dagli accertamenti della Consob (la Commissione nazionale per il controllo delle società e della borsa), è emerso infatti che, prima ancora del 16 gennaio, data in cui sono iniziate a circolare indiscrezioni sulle nuove norme, si sono verificate operazioni “potenzialmente anomale” (conseguenza cioè di fenomeni come l’insider trading) sui titoli del comparto: “Le plusvalenze effettive o potenziali di tale operatività sono stimabili in circa 10 milioni di euro”, ha detto il presidente Giuseppe Vegas durante una audizione nelle Commissioni Finanze e Attività produttive alla Camera. Vegas ha espresso tuttavia “un giudizio complessivamente positivo sulla riforma” delle banche popolari “anche nella prospettiva dell’apertura e dello sviluppo del mercato dei capitali” che “comporterà una maggiore contendibilità [cioè la possibilità che i pacchetti di controllo delle banche passino di mano, n.d.a.]”. La trasformazione in spa delle banche popolari può “consentire una maggiore opportunità di accesso al mercato dei capitali”, un aumento della possibilità di controlli e, quindi, secondo lui, portare a “una governance più trasparente” (7).
La riforma piace ovviamente anche a Bankitalia, tanto da far credere che possa essere stata scritta a Palazzo Koch. Il direttore generale Salvatore Rossi ha spiegato infatti il 17 febbraio, davanti alle Commissioni riunite Finanze e Attività produttive della Camera (che avevano iniziato l’esame del decreto legge), come le esigenze imposte dalle regole europee di reperire nel mercato dei capitali grandi risorse in tempi brevi rendano un imperativo la profonda trasformazione delle maggiori banche popolari italiane nel senso individuato dal decreto. La nuova normativa faciliterà gli aumenti di capitale “tutte le volte che sarà necessario, nella misura e con la rapidità richieste da un mercato competitivo e da una platea più ampia di risparmiatori e investitori”, perché, rispetto alla fase precedente la crisi finanziaria, è necessario che il settore bancario si doti di un “cuscinetto patrimoniale robusto” (8), e che, nell’eventualità di una ricapitalizzazione complessiva, sarebbe bene che le popolari italiane si presentassero con una forma giuridica più adeguata alla modernità (quella della spa, appunto).
Secondo il direttore di Bankitalia, il principio capitario e i limiti al possesso di capitale e alla rappresentanza nella governance costituirebbero un freno per gli investitori, e ciò nuocerebbe gravemente al rafforzamento finanziario delle banche popolari. Rossi sottolinea ancora una volta, casomai qualcuno non avesse colto il punto, che l’obiettivo della riforma del governo è promuovere processi di aggregazione e fusione, per permettere una maggiore efficienza e stabilità del sistema grazie al contenimento dei costi derivante dai tagli occupazionali della nuova fase di concentrazione.
Anche secondo la grande banca d’affari Goldman Sachs le fusioni sono la conseguenza più probabili delle nuove norme: “Crediamo che la riforma potrà innescare un’ondata di fusioni, inizialmente tra le popolari e, in un secondo momento, potrebbero essere coinvolte le banche straniere” (9).
I “signorotti locali” non sono tuttavia disposti ad andarsene senza combattere, e sia dentro che fuori il Parlamento si è creato un vasto schieramento trasversale di interessati che si oppongono alla riforma. Prima fra tutti l’Associazione Nazionale fra le Banche Popolari (Assopopolari), che ha formato una propria commissione tecnica per studiare e proporre misure alternative a quelle contenute nel testo renziano prima che il decreto approvato dal governo venga definitivamente convertito in legge. La commissione intende valutare la possibilità di un’autoriforma che introduca soltanto alcuni cambiamenti morbidi, con l’obiettivo di non eliminare completamente il voto capitario, favorendo i soci che hanno investito in maniera durevole nelle quote delle popolari.
Nel frattempo però l’associazione di categoria solleva anche parecchi dubbi sulla costituzionalità del provvedimento appena varato, dubbi condivisi da un ampio schieramento parlamentare che va da Forza Italia a Ncd fino al Movimento 5 stelle. I grillini sono convinti che il decreto violerebbe l’art. 45 della Carta che riconosce la funzione sociale della cooperazione a carattere di mutualità e senza fini di speculazione privata, come pure l’art. 41 sulla libertà dell’iniziativa privata economica: “Secondo questa riforma, chi ha deciso liberamente di intraprendere un’iniziativa economica, acquisendo azioni di una società cooperativa, si troverà da un giorno all’altro in mano titoli di una società per azioni – avverte il capogruppo del M5S in commissione, Daniele Pesco. Ancor più grave è la limitazione della possibilità di recesso o rimborso delle azioni che non permette al socio di evitare un’imposizione”(10).
I 5 stelle contestano inoltre l’assunto del governo per cui la riforma aumenterà il credito alle imprese e aiuterà le banche interessate a raccogliere nuovi capitali, facendo notare che “le popolari possono già ricapitalizzarsi” e che “alcune lo hanno fatto”. Non solo, aggiungono, “delle dieci banche popolari già sette sono quotate”, ma proprio in base agli esiti degli stress test in Europa, quelle “cui è stata richiesta una ricapitalizzazione l’hanno effettuata immediatamente” (11).
Ncd, per bocca del capogruppo Nunzia De Girolamo, fa sapere invece che “le banche popolari e quelle di credito cooperativo sono da sempre un punto di riferimento sul territorio e un sostegno imprescindibile per piccole e medie imprese, artigiani, commercianti, liberi professionisti e famiglie. Ed è proprio per questo che, a scatola chiusa, non siamo disponibili a votare provvedimenti volti a tutelare la grande finanza a discapito delle piccole realtà economiche”. Le fanno eco Giorgia Meloni (“Una vergogna, il governo amico della grande finanza colpisce ancora”), Fraccaro del Movimento 5 stelle (“Renzi svende le banche all’alta finanza”) e addirittura Fassina della sinistra Pd (“Renzi attua un altro fondamentale capitolo dell’agenda della troika”) (12).
Ai commenti politici si è subito aggiunta anche la voce della base cattolica, pubblicata sul quotidiano Avvenire. Già nei giorni strettamente precedenti la riforma Gianni Bottalico, presidente nazionale delle Acli (Associazioni cristiane lavoratori italiani), aveva sottolineato i rischi di dare “in pasto alla speculazione finanziaria più spregiudicata ciò che resta del risparmio degli italiani e che le piccole banche popolari e di credito cooperativo utilizzano per lo sviluppo dei territori”, chiedendo al governo “di togliere dal pacchetto investimenti la riforma delle banche popolari e di non procedere all’abolizione del voto capitario” (13). Poi, subito dopo il varo del decreto, il quotidiano cattolico ha tuonato contro le nuove regole con tre lunghi articoli che esprimono chiaramente la linea del giornale: “Riforma sbagliata, doccia fredda per le Popolari”, l’editoriale affidato a Leonardo Becchetti su “L’arbitro smemorato”, e l’intervista al professore della Bocconi Andrea Resti dal titolo: “Nessuna necessità e urgenza, il decreto un errore madornale” (14).
Infine nemmeno i sindacati vedono di buon occhio la riforma, che, come afferma Lando Sileoni, segretario generale della Fabi (il sindacato maggiormente rappresentativo dei bancari), “mette a rischio posti di lavoro per l’inevitabile avvio di aggregazioni” e “la possibile perdita fra 18 mesi del l’italianità delle banche, a forte rischio di fronte ai capitali stranieri” (15).
Tuttavia non sono solo gli stakeholder (cioè gli interessati), a esprimere seri dubbi circa le finalità del decreto e le modalità proposte per raggiungerli. Mario Seminerio, laurea con il massimo dei voti alla Bocconi, analista finanziario e giornalista nonché curatore del blog Phastidio.net, si chiede se esista evidenza che l’assetto cooperativo delle banche maggiori agisca da freno all’erogazione del credito e contribuisca a tenere elevati i costi di sistema: “Ipotizziamo che la trasformazione in spa determini un aumento di concentrazione del credito in Italia. Secondo voi, questo scenario aumenta o riduce la concorrenza? Se un’azienda lavora con quattro banche in capo a quattro gruppi creditizi e dopo le aggregazioni le quattro banche finiscono con l’appartenere a due gruppi, saremo di fronte a un aumento di concorrenza e di volumi di credito erogato? Uhm. A meno che il governo punti a fare acquisire le popolari trasformate in spa da banche estere, credendo che questo rappresenti il prerequisito per l’ingresso in Italia di imprese non residenti, a seguito del proprio prestatore di fiducia, o che serva indirettamente ad aumentare la concorrenza, mettendo pressione agli indigeni. Ce ne viene qualcosa in tasca, in termini di disponibilità e costo del credito? Qui abbiamo e avremo seri dubbi” (16).
Sulla stessa linea il contenuto dell’appello sottoscritto da 163 economisti e accademici di tutte le università italiane, convinti che la riforma desti molte perplessità, perché “muove in direzione contraria a quanto suggerito da gran parte della letteratura bancaria negli ultimi anni, in cui non verrebbe evidenziata alcuna correlazione tra rischiosità di una banca e voto capitario e tra capitalizzazione di una banca e voto capitario”. L’appello degli economisti cita numerosi studi internazionali che rilevano la maggiore stabilità delle banche cooperative nel confronto internazionale, dimostrando anche che le banche con voto capitario prestino una quota superiore degli attivi e abbiano una volatilità degli utili minore delle banche.
Inoltre secondo gli studiosi, nessun grande Paese europeo sta pensando di abolire il voto capitario: “Le banche popolari non hanno registrato performance peggiori della media di sistema negli stress test della Bce, inoltre è un dato di fatto che la crisi finanziaria globale è stata soprattutto una crisi di grandi banche spa” (17).
Giovanni Ferri, laureato in Scienze economiche all’Università di Siena e Ph.D. in Economics alla New York University, ordinario di economia politica alla Lumsa, già principal financial economist alla Banca mondiale e condirettore del servizio studi della Banca d’Italia, nota come “a livello internazionale non è che le banche organizzate come spa abbiano avuto una performance migliore nella crisi rispetto alle cooperative, semmai ci sono è infondata ma bisognerebbe avere, di contro, amministratori delle spa responsabili verso gli azionisti.
E questo è messo in discussione dai fatti […] Durante la crisi Ceo e Ad [direttori generali e amministratori delegati, n.d.a.], hanno continuano a godere di bonus spropositati anche in presenza di performance tutt’altro che soddisfacenti. E questo rende l’obiezione contro il voto capitario decisamente fragile”. E ancora: “A mio modo di vedere vi è purtroppo una pressione regolamentare a livello internazionale verso l’adozione di un modello bancario unico in cui sia contemplato il solo obiettivo di massimizzare il rendimento per gli investitori. Ma ridurre la diversità delle strutture di governance aumenta la fragilità sistemica dei vari sistemi bancari nazionali. Lo dimostra il fatto che la probabilità di entrare in crisi nel 2008 era più bassa per i sistemi bancari diversificati rispetto a quelli a modello unico. Allo stesso modo, il nostro sistema bancario rispetta il nostro sistema produttivo fatto di tantissime Pmi in cui generalmente proprietà e controllo familiare coincidono. E queste Pmi possono trovare la via per accedere ai capitali su mercati, ma generalmente ciò è difficile. Dunque non si può prescindere dal relationship banking” (18).
Calca la mano Leonardo Becchetti, economista esperto di microcredito, editorialista di Avvenire e autore di un blog pubblicato sul sito de La Repubblica, secondo il quale la riforma rappresenta “un provvedimento coercitivo affine alla logica dell’esproprio” come non si è mai visto in nessun Paese democratico. “È una misura senza eguali in un’Europa che custodisce e valorizza le esperienze di credito cooperativo e territoriale […] La storia dimostra che più le banche crescono più aumenta il rischio di grandi crisi sistemiche finanziarie. Nessuna delle quali è stata provocata da banche popolari o di credito cooperativo. […] La riduzione delle tutele sul lavoro e l’iniziativa per rendere scalabili istituti creditizi ricchi e in salute crea uno scenario appetibile per molte realtà finanziarie. Non conosco i loro nomi. Ma rilevo come l’economista Salvatore Bragantini abbia individuato sul Corriere della Sera la ragione dell’intervento del governo «nella necessità di ristrutturazione delle banche italiane uscite male dagli stress test della Bce». Per Monte dei Paschi di Siena e Carige, rimarca l’editorialista, si parla di aumenti di capitale o fusioni che coinvolgerebbero istituti creditizi popolari” (19).
Che il problema Monte dei Paschi possa essere una delle ragioni occulte della riforma lo ipotizza anche Neil Unmack di Reuters, dal momento che la banca senese deve ancora raccogliere 2,5 miliardi di risorse fresche dopo aver fallito gli stress test europei, ma che anche dopo l’aumento avrà un problema di dimensione: “Gli investitori potrebbero essere più disponibili a sostenere la terza banca italiana se facesse parte di un gruppo più grande: Mps potrebbe essere in quel caso più stabile e più redditizia. Ma vendere una banca quotata a una popolare, l’unica vera opzione, sarebbe del contrario. Diciamo che se c’è una certezza è che la governance cooperativa non ha fatto male”; e, a proposito del tanto bistrattato voto capitario: “I detrattori obiettano che questo sistema produce un eccesso di autoreferenzialità per le popolari, facendo sì che gli amministratori siano poco o per nulla responsabili nei confronti degli azionisti. Questa critica non una cattiva pubblicità. Togliere la norma ‘una testa un voto’ – almeno per le popolari quotate – potrebbe aprire la strada per una fusione tra Mps e una delle maggiori popolari, come Ubi. Ne risulterebbe una nuova entità con il 12% di quota di mercato del credito in Italia e avrebbe sinergie per 600 milioni di euro, secondo Exane BNP” (20). Viva il mercato, dunque.
E non lamentiamoci alla prossima crisi.
1) S. Gasparetto, Scatta riforma Popolari, entro 18 mesi 10 diventano Spa, Ansa, 20 gennaio 2015
2) Ibidem
3) Cfr. M. Girardo, Banche popolari, riforma sbagliata, Avvenire, 21 gennaio 2015
4) Cfr. Classifica di Borsa. Le prime 10 banche italiane: in testa Intesa, seconda Unicredit, firstonline.info, 8 gennaio 2015
5) Banche popolari, Renzi: «Con patrimonio di 8 miliardi, 18 mesi per diventare spa», Il fatto quotidiano, 20 gennaio 2015
6) Ibidem
7) Riforma Popolari e speculazioni: per la Consob “attività anomale”, 10 milioni di profitti, La Repubblica, 11 febbraio 2015
8) E. Petti, Veneto Banca, Bpm e Ubi, così Rossi (Bankitalia) elogia la riforma alla Renzi delle Popolari, formiche. net, 18 febbraio 2015
9) A. Bolis, Popolari: Goldman Sachs vede ondata di fusioni dopo la riforma, Bper e Bpm le preferite, finanza.com, 9 marzo 2015
10) A. Pitoni, Decreto banche popolari, M5S all’attacco: «Violazioni costituzionali», Il fatto quotidiano, 12 marzo 2015
11) Ibidem
12) Renzi: «10 banche popolari dovranno diventare spa entro 18 mesi», redazione online, corriere.it, 20 gennaio 2015
13) C. Conti, Riforma banche popolari, si muovono le lobby. 60 giorni per cambiare verso alla norma. Primi a partire sono i cattolici, L’Huffington Post, 21 gennaio 2015
14) Ibidem
15) I sindacati: «Più rischi per il lavoro», Corriere della Sera, 21 gennaio 2015
16) M. Seminerio, Editti popolari, phastidio.net, 21 gennaio 2015
17) «Popolari, riforma da rifare» Un appello a cambiare, L’Eco di Bergamo, 5 marzo 2015
18) L. Magna, Perché è sbagliato snaturare le popolari. Parla il prof. Giovanni Ferri, formiche.net, 19 gennaio
19) E. Petti, Perché il decreto di Renzi contro le popolari è un attacco alla democrazia e al mercato. Parla il prof. Becchetti, formiche.net, 21 gennaio 2015
20) N. Unmack, Riformando le banche popolari Renzi può risolvere il caso Mps, Reuters Italia, 19 gennaio 2015