Sabrina Campolongo
Recensione de Il caso Eddy Bellegueule, Édouard Louis
Il caso Eddy Bellegueule arriva in Italia, grazie a Bompiani, con un titolo diverso dall’originale (che suonerebbe come Farla finita con Eddy Bellegueule), forse giocando sul ‘caso’ in senso psicanalitico, oppure in riferimento al vero e proprio ‘caso’ creatosi in Francia all’uscita di questo romanzo autobiografico. La storia è quella di Eddy (che ora ha ventun anni, studia alla Normale e ha ottenuto dall’anagrafe di poter essere liberato da quel nome ‘da duro’ che sembra uno pseudonimo ma non lo è – bellegueule si può tradurre come faccia di bronzo, o spaccone – scegliendo per sé il più neutrale Édouard Louis), effeminato da sempre, e della sua dolorosa battaglia per integrarsi dapprima e poi, preso atto del proprio fallimento, per fuggire dal paese natio, un villaggio operaio della Piccardia, e soprattutto dalla classe sociale in cui è nato, quel sottoproletariato disperato e violento di cui la sua famiglia costituisce la perfetta cristallizzazione.
La sua storia ha scatenato un dibattito non propriamente letterario in patria; qualche giornalista si è avventurato nel piccolo centro nel nord della Francia (poco più di 150 km sopra Parigi, in effetti) per intervistare i locali (munito di casco da esploratore e dopo essersi sottoposto a opportuna profilassi vaccinale, si è portati a immaginare, dal tono di certi articoli), riportando le parole di sdegno e di rabbia della famiglia Bellegueule e della comunità intera di fronte a ‘bugie’ e mistificazioni dell’autore, ma anche – perché “bisogna pure che qualcuno lo dica” – rendendo conto del razzismo e dell’ignoranza diffusa, del successo strepitoso di Marine Le Pen, dei gagliardetti razzisti portati a scuola, del termine intellettuale (intello) lanciato come insulto, alla stessa stregua di pédé (frocio).
Certo, la definizione ‘romanzo’, se da un lato implica la creazione letteraria, quindi l’inserimento di elementi di fiction, non può impedire che la famiglia, sbattuta in copertina (pare che lo stesso autore avesse chiesto a Seuil di togliere il proprio cognome almeno dal titolo, ma l’editore se ne è guardato bene, naturalmente), si senta ferita e offesa, messa alla berlina di fronte alla Francia intera, tanto più se la verità fosse stata ritoccata per esigenze letterarie.
Il solito giornalista ha ricordato Proust, e le nobildonne sue contemporanee, che leggevano di nascosto La recherche temendo di riconoscervisi, trascurando forse il fatto che oggi nessuno cerca la cronaca dentro il capolavoro di Proust, che a nessuno importa molto chi si nascondesse dietro ogni personaggio, e se avesse davvero pronunciato quelle determinate parole, durante quel tè pomeridiano.
Con tutta la comprensione e il rispetto dovuto alla signora Bellegueule, come alle contesse tirate in ballo da Proust, quello che dovrebbe interessare non è se l’autore di un romanzo abbia mentito o meno su alcune circostanze narrate, ma se quel romanzo sia o no letteratura. Trovo che ciò che distingue certa autofiction pruriginosa dalla letteratura autobiografica, Christine Angot da Marcel Proust, sia la capacità del suo autore di affondare, dentro personaggi e situazioni, senza semplificarli, e al tempo stesso la capacità di distanziarsene, vederli dentro il loro tempo, più grandi dei piccoli conflitti umani che pure li compongono, di restituirli nella loro complessità, senza cedere alla tentazione di ritagliarli dentro la comoda figurina di uno stereotipo, di risolverli, in qualche modo.
Questa profondità e ampiezza dello sguardo appartengono a Édouard Louis?
Leggendo le sue pagine, per quanto dolorose o violente, non si ha mai l’impressione di essere chiamati ad assistere a una vendetta privata, di essere tirati a parteggiare per il protagonista, chiamati a giudicare chi lo ha ingiustamente umiliato, chi ha esercitato violenza su di lui. La voce narrante è straordinariamente equilibrata in ogni istante; anche mentre ci descrive i due bulletti che raggiungono il piccolo Eddy nel corridoio della biblioteca scolastica per insultarlo e sputargli addosso, non trascura la complessità dell’essere la vittima che ogni giorno si fa trovare, consapevolmente, in quel corridoio, in attesa dei propri carnefici.
L’onestà della scrittura – che nulla ha a che vedere con la verità oggettiva degli episodi narrati – è tale da rendere davvero difficile, arduo, il giudizio.
La deriva del padre operaio verso l’alcolismo, dopo aver perso il lavoro, ci appare fatidica, così come la marcia decisa della sorella verso una gravidanza precoce, un lavoro come cassiera e un marito violento. Il suo percorso, come molti altri narrati, si muove ineluttabilmente verso l’autodistruzione, a partire dalla fisicità più elementare, da quello che mangia (solo fritti), quello che beve (litri di pastis), per finire con ciò di cui la sua mente si nutre: solo televisione e storie di altri disperati come lui.
Impossibile non restare colpiti dalla sua solitudine, dalla solitudine di un’intera classe sociale.
Le regole di quel mondo, quello del lumpenproletariat moderno, appaiono evidenti dentro le storie dei singoli, e persino nella ribellione del protagonista, che non sa trovare una via diversa dall’integrazione o dalla fuga. Allo stesso tempo, ciascuno dei personaggi si muove dentro e oltre il proprio habitus, esce dal trattato di sociologia e prende vita sotto gli occhi del lettore, soprattutto grazie alla forza del linguaggio, al contrappunto costante del lessico familiare alla narrazione. “I miei genitori si impegnavano per darmi una buona educazione, «mica come i delinquenti e gli arabi delle città». L’orgoglio che mia madre ne traeva: «I miei figli sono educati bene, mica come i teppisti», o […] «mica come gli algerini, sai gli algerini sono i peggiori, se ci pensi sono molto più pericolosi dei marocchini o degli altri arabi»“.
L’inconsapevolezza di fondo è resa attraverso le affermazioni contraddittorie, i comportamenti incoerenti, il fastidio nel dare spiegazioni, la violenza verbale e fisica a mascherare la paura verso l’ignoto, verso i meccanismi oscuri che determinano le esistenze. La ‘diversità’ di Eddy è un ennesimo spaventoso mistero, per i suoi familiari, e per Eddy stesso, un’anomalia da correggere. Di questo si compone la quasi totalità del racconto, che si interrompe sulla soglia della ‘nuova vita’ di Édouard, in un liceo di città, tra i rampolli della buona borghesia, ancora una volta a cercare di adattarsi, mentendo su un passato di cui si vergogna e correggendo gli indizi che potrebbero farlo sospettare: gli abiti troppi vistosi, l’abitudine a parlare con voce troppo alta, i denti mai curati, forse ancora una volta l’omosessualità, perché se è vero che i borghesi “non usano il corpo allo stesso modo” e che “tutti avrebbero potuto essere trattati da froci alle medie”, resta il fatto che non tutti lo sono, omosessuali, come lo è invece Édouard.
Ma il presente non ci viene narrato, non è la loro storia, e non è nemmeno una storia sull’omosessualità. L’omosessualità è solo un aspetto della vicenda, e non forse il più importante. Il bisogno di risposte di Eddy, e la sua sete di qualcosa di diverso da una vita passata in fabbrica o al bar o davanti all’onnipresente, onnipotente televisione, sarebbe già un motore sufficiente a spingerlo fuori, lontano dall’ambiente in cui è nato, eppure probabilmente sarebbe più forte il suo bisogno di integrarsi, se non fosse per ciò che non riesce a nascondere. La storia di Eddy è quella di una feroce battaglia contro se stesso, prima che contro la famiglia, contro la forza del desiderio di omologarsi, di essere ‘degno’ di quel nome da duro, di quella vita che dall’esterno appare come una condanna.
L’immane fatica non è tanto quella di accettare la propria omosessualità, quanto quella di concepire l’idea di potersi negare a un destino che appare granitico, vincendo l’opposizione di una comunità in cui le uniche vie di fuga contemplate sembrerebbero essere quelle della follia o del suicidio.
Per questo forse gli è stato così necessario ‘mettere in piazza’ la vita violenta e misera, povera di stimoli e limitata da cui si è sottratto, perché il destino dei personaggi potesse apparire al lettore come deve apparire a loro stessi, l’unico possibile; per mostrare come l’ignoranza, il razzismo, l’omofobia, la violenza diventino valori, in mancanza di strumenti per comprendere la propria condizione di inferiorità e l’ingiustizia subita.
L’autore, che invece questi strumenti li possiede, che ha letto Bourdieu e Geoffroy de Lagasnerie, non li usa per condannare o giudicare, ma per identificare gli elementi fondanti di questa omologazione, e per mostrarli, dopo aver sventrato la propria infanzia, evitando sia la retorica della povertà ‘buona’ e dignitosa, sia il disprezzo e la superiorità borghese che invece trasudano da alcuni articoli scritti in relazione al suo stesso libro.
La soverchiante presenza della tv (un televisore in ogni stanza, nella casa di famiglia, la stessa in cui una finestra rotta viene riparata con il cartone e lasciata così, nell’eterna attesa di potersi permettere di sostituirla), la drammatica assenza di libri, il disprezzo verso ‘i borghesi’ o ‘gli intellettuali’, che non è rabbia di classe per le opportunità migliori offerte dal denaro, o per lo sfruttamento subìto dagli operai, ma cieca invidia, travestita da repulsione, per quelle esistenze così facili, che si preferisce dipingere come vite da rammolliti, il machismo come ultima difesa, ultimo disperato salvagente per tenere a galla un barlume di dignità personale, a cui gli uomini quanto le donne si aggrappano (“io almeno sono un uomo, lui è fatto così, è un uomo”), l’odio per il ‘diverso’ (omosessuale, arabo, ma anche timido, debole, e persino troppo povero per i poveri) come più efficace collante sociale.
Non sorprende che il dolore, la paura e il senso di inferiorità del personaggio-madre rendano impossibile alla donna che ne è il modello di comprendere che pure brilla, nella storia, commuove ed emoziona. La coerenza e la complessità dei personaggi è tale che il protagonista, pur dipingendo se stesso come una vittima, a tratti risulta meno ‘simpatico’ di chi, non capendolo, tenta comunque, goffamente, di amarlo. “Una mattina [mia madre], prima che uscissi per andare a scuola, mi aveva detto «Sai, Eddy, dovresti smetterla di fare tante moine, la gente ti prende in giro, io me ne accorgo, e poi dovresti distrarti, vedere delle ragazze». L’aveva detto, come mio padre, divisa tra lo smarrimento, la vergogna, il fastidio”.
Il padre che, pur vergognandosi di lui e denigrandolo quasi sempre, gli consegna più soldi di quanto potrebbe permettersi per andare in città a sostenere gli esami di ammissione al liceo che nessuno degli altri figli o cugini, rassegnati al loro destino in fabbrica, si è mai sognato di voler frequentare, mentre lo mette rudemente in guardia contro l’esercito di arabi che, nel suo immaginario, infestano le strade, pronti a uccidere per rubare pochi spiccioli, rende difficile condannarlo per la volgarità dei suoi discorsi, la violenza delle sue parole. “Ai suoi compagni di fabbrica, che me lo riportavano, confidava: «Mio figlio va molto bene a scuola, intelligente e forse è addirittura molto dotato. È intelligente, andrà alle scuole superiori e soprattutto (era questa la cosa che lo rendeva più felice) soprattutto mio figlio diventerà ricco». Lui, che diceva di detestare i borghesi almeno quanto gli arabi o gli ebrei, si augurava che passassi dall’altra parte”.
Da questo equilibrio fragile, inesprimibile, tra repulsione e rabbia, si accende un istintivo moto di ribellione, non tanto nel protagonista, che fugge per non soccombere, alla fine, e lo fa senza alcun eroismo, quanto nel lettore, messo di fronte a una Francia (ma potrebbe benissimo essere l’Italia) che si muove a una doppia velocità, lasciando drammaticamente più indietro le periferie, le campagne, gli strati più deboli della popolazione, abbandonati anche dalle sinistre, consegnati agli sfruttatori d’odio dell’estrema destra (per poi mostrarsi sorpresi quando il Fronte nazionale conquista il 25% alle elezioni europee). In questo senso il frammento autobiografico o il romanzo di Louis costituisce molto più di un ‘caso’, è tanto un atto politico quanto un bisogno privato: facendola finita con Eddy Bellegeule, Édouard Louis non rinnega le sue radici, al contrario le espone a nudo e ci sputa sopra, io credo con l’ambizione e la volontà di produrre un cambiamento.
Il caso Eddy Bellegueule, Édouard Louis, Bompiani, 2014