Craxi, Ben Ali, Tangentopoli e l’intestazione delle strade
Ci sono momenti in cui l’ipocrisia del dibattito democratico si fa talmente insopportabile da far rimpiangere la brutale schiettezza delle dittature; la sincera concisione non concessa ai regimi democratici, perennemente condannati a interpretare la fraude di un potere decretato esclusivamente dalla maggioranza dei cittadini.
Da qui, la necessità dei politici di intraprendere lunghi giri di chiacchiere per trasformare, agli occhi della popolazione, l’inaccettabile in panacea, e realizzare infine quanto segretamente stabilito in partenza. Nel frattempo è intercorsa, necessaria, la farsa delle liti tra partiti, delle discussioni, e degli accordi conclusivi.
Possiamo dunque immaginare quanto invidino oggi i nostri politici la libertà di cui gode un dittatore come Ben Ali, il quale, quando ha voluto intestare una strada al compianto amico Bettino Craxi, immediatamente l’ha fatto. E chissà la rabbia di pensare che quegli stessi agi governativi, di cui oggi gode il sovrano tunisino, siano in parte merito del Sismi, attivo collaboratore di Ben Ali, vent’anni fa, nella realizzazione del colpo di Stato che lo ha portato al potere. Un golpe dietro al quale c’era anche lo zampino di Craxi, e si può essere certi che il riparo offerto dalla Tunisia all’ex presidente del Consiglio italiano, sia stato un modo di ringraziarlo per gli antichi favori resi.
Resta il fatto che Ben Ali ha impiegato il tempo di uno schiocco di dita per realizzare un gesto simbolico cui la nostra politica anela dall’esplosione di Tangentopoli; sarebbe a dire, dai tempi del più grande scandalo di corruzione scoperto nell’Italia del dopoguerra. Un gesto tra l’altro pienamente coerente con la storia della Tunisia, e che, con buona probabilità, i cittadini consapevoli della complicità italiana nel colpo di stato del 1987, non approvano. Ma a chi importa? È forse democratica la Tunisia?
In Italia schioccare le dita non basta. Ancora troppi italiani non sarebbero d’accordo con la beatificazione di Craxi. È vero che il tempo cancella la memoria – tanto che sessant’anni sono stati sufficienti a una propaganda ben calibrata per parificare partigiani e criminali di Salò; ma è altresì vero che quindici anni sono troppo pochi per sperare che buona parte dei testimoni di Tangentopoli siano già passati a miglior vita.
Ogni nazione fonda la propria credibilità su una memoria collettiva, più o meno aggiustata. Un racconto costellato di eroi, di grandi gesta e di momenti capitali intorno al quale la popolazione elabora un forte senso di appartenenza. Il patriottismo cui puntualmente i politici fanno appello quando chiedono sacrifici alla nazione. E la toponomastica è uno dei canali con cui il potere distribuisce questa leggendaria memoria. Un nuovo nome, inserito nello stradario, rappresenta un valore che si aggiunge alla multiforme identità nazionale e individuale; qualcosa cui qualunque italiano, volente o nolente, sente di appartenere. Il che rende tutt’altro che innocente l’atto di intestare delle strade a politici e militari del passato. Esattamente come non sono innocenti le beatificazioni promosse dal Vaticano.
Probabilmente non è ancora stata fatta una ricerca seria sulla coincidenza tra la scelta del nome da assegnare a una via, e i problemi che in quella data assillavano l’attualità politica. Tuttavia la vicinanza di date che divide l’inchiesta di Mani Pulite e l’inizio di sdoganamento del nome di Craxi, può aiutare a fare luce su tale pratica del potere.
A colpire è soprattutto l’urgenza da parte della politica di trasformare, nella testa degli italiani, l’ex presidente del Consiglio da uomo più detestato dagli italiani a grande statista. Un transfert che sulla carta si presenta particolarmente impegnativo. Sono ancora troppo presenti, infatti, nella memoria degli italiani, le immagini dei politici inquisiti da Di Pietro, la bavetta agli angoli della bocca dell’infervorato Forlani e gli imbarazzanti silenzi di Bettino Craxi.
Non è il caso di ripetere nei dettagli l’entità del coinvolgimento dell’ex leader socialista nell’inchiesta di Tangentopoli. Basti ricordare che il suo nome è divenuto simbolo di un’attività giudiziaria risoltasi in milleduecento tra condanne e patteggiamenti; di un immenso giro di tangenti che ha coinvolto politici e imprenditori; di un traffico di denaro con cui i primi rimpinguavano le casse dei partiti e le proprie tasche, e i secondi, i cui nomi rientravano nel gotha dell’imprenditoria nazionale (Fiat e Fininvest su tutte), eludevano quella libera concorrenza e la dogmatica libertà d’impresa che tanto decantavano, e che tuttora a gran voce chiedono alla politica di attuare.
Sotto una simile vergogna la prima Repubblica è caduta, ed è proprio dalle sue ceneri che la seconda è sorta, imbarcando sul traghetto lo stesso maleodorante e fumante carico della precedente. Le medesime facce, gli stessi ceffi e i medesimi sorrisi di quando avevano in mano il potere, prima che lo scandalo scoppiasse. Rieccoli di nuovo tutti, avvolti da nuove bandiere, leggermente invecchiati, qualcuno forse meno ballerino e mondano, anche se non per questo meno ricco e arrogante. Tutti meno uno, Craxi, e più uno, Berlusconi. Un’equazione nella quale si nasconde l’arcano che oggi ci porta a scrivere di intestazioni di strade e di storia italiana, e i cui termini sono rispettivamente simbolo della caduta e della restaurazione.
“Se vogliamo che tutto rimanga com’è, bisogna che tutto cambi” e “Ora che l’Italia è fatta, dobbiamo farci gli affari nostri” sono le due frasi che rappresentano ancora oggi il più ricco lascito politico della letteratura italiana. La restaurazione come costante storica di una classe dirigente che ininterrottamente da centocinquant’anni detiene il potere. Un fenomeno molto italiano definito Trasformismo da una storiografia che non si è mai sentita in dovere di inquadrare – vuoi per malafede, e vuoi per deviazione ideologica – un fenomeno preponderante nelle strategie di governo, per coglierlo nella sua pesantezza e gravità politica.
Storicamente, gli emblemi di questa costante sono due: la vicenda dei contadini e dei piccoli artigiani della Sicilia dopo lo sbarco di Garibaldi. Buoni quando servivano a cacciare i Borboni e in seguito nuovamente sottomessi a schioppettate dai nuovi dittatori, con la complicità dei vecchi signori della terra. E quella dei partigiani rossi e degli operai del nord, dopo la cacciata dei nazisti, scaricati nel momento in cui a De Gasperi, Einaudi e agli americani ha fatto gioco rimettere al potere le antiche oligarchie e mantenere le vecchie strutture fasciste.
Una dialettica storica mai sfociata in una soluzione di sintesi che configurasse l’Italia secondo uno dei modelli a disposizione tra le moderne democrazie europee, e che, nell’alleanza tra politica e padronato, ha trovato una linea di continuità conservativa da parte dello Stato, spesso costretto a violente prese di posizione contro i lavoratori. Gli eccidi commessi da Bava Beccaris (premiati con medaglia dal re Umberto I), da Scelba sotto il governo De Gasperi, le sparatorie di Tambroni, messo al potere da Gronchi e le varie stragi di Stato degli anni Settanta, sono lì a dimostrare una logica politica tutt’altro che estinta: il rifiuto di riconoscere il lavoratore salariato come un interlocutore politico. La riforma pensionistica attuata l’estate scorsa, lo scippo del Tfr e la conferma della legge 30 (come a dire che dalle schioppettate si è passati a Padoa Schioppa), testimoniano il filo rosso che lega le scelte economiche odierne alla Storia italiana del passato.
Una dialettica mancata, che solamente il fatto di non essere mai stata raccontata per intero permette di incancrenirsi in ideologia. Al punto che ancora oggi sul Corsera, Ernesto Galli della Loggia può tranquillamente scrivere che la lotta armata in Italia è sempre stata rossa, senza porsi il problema del perché.
Da questo punto di vista, Tangentopoli sarebbe potuto essere un momento di fulgida chiarezza per gli italiani. Un risveglio, per quanto brusco, dalla narcosi collettiva che per un decennio (ma sarebbe più opportuno parlare di mezzo secolo) aveva stuprato il loro immaginario, snaturandolo profondamente. Finalmente un gruppo di giudici aveva sollevato il problema del diritto in una società dominata da un capitalismo feudale di stampo familiaristico, grazie al quale un ristretto manipolo di potenti si spartiva l’Italia orientandone le politiche secondo i propri bisogni.
Ne è sorta una guerra (e tale tuttora si configura) tra politici e industriali da una parte e la magistratura dall’altra, in cui la politica le ha tentate tutte per difendersi. Falsi dossier sui giudici, costruiti ad arte da giornalisti compiacenti, teorie complottistiche di chissà quale potere occulto, denuncia della politicizzazione dei giudici… Tutto e il suo contrario è stato lanciato sul circuito mediatico, al punto che molte delle storie divulgate, ancora radicano negli arcigni cervelli di molti italiani.
Ma, come sempre accade, la verità è più semplice. Tangentopoli è stato il normale fruttare di un seme innaffiato da cinquant’anni di governo corrotto, sregolato, assassino e puttaniere, che a un certo punto ha cominciato a marcire per consunzione interna. Il che, in parole povere, significa che quando la magistratura ha scoperto il vaso di pandora i cui miasmi da tempo cercavano di forzare il coperchio, Bettino Craxi, in quanto simbolo terminale di una parabola storica tutta italiana, si è ritrovato con la peppa tencia in mano.
La narrativa insegna che i personaggi sono portatori di significati più alti di quanto la vicenda raccontata non illustri; che, nel corso della vicenda, assumono il valore di forza tematica, mentre la situazione conflittuale che li mette in moto, diventa via via una rappresentazione di un valore più profondo.
Ben lontano dall’essere quel grande statista che i politici oggi in maniera strumentale si affannano a dipingere, Craxi è salito al potere negli anni Ottanta alla fine di un decennio tormentato, con la missione di rilanciare il capitalismo nostrano e condurre l’Italia nella modernità.
Avrà anche fatto del buono, e saranno gli storici (quelli veri) a spiegare se, come e quando. Di sicuro restano le condanne, insieme ad alcune inchieste meno note, ma non meno gravi, che sin dagli inizi degli anni Ottanta, partite da indagini apparentemente lontane dai giochi politici, hanno finito per condurre gli inquirenti regolarmente nella sede del partito socialista, prima di finire insabbiate.
Il giudice Carlo Palermo, per esempio, era risalito a lui partendo da un traffico di droga e armi di piccolo cabotaggio, che l’avrebbe condotto in un giro di portata internazionale che coinvolgeva il Psi, l’Argentina (e quindi la P2) e la guerra delle isole Falkland, oltre a diversi paesi del Terzo Mondo. Un traffico d’armi inserito in una specie di gioco dell’oca grazie al quale il partito socialista, attraverso i canali governativi a disposizione, pagava con denaro pubblico alcune società di mediazione (appartenenti al suo partito) che facevano da tramite tra nazioni africane e aziende produttrici di materiale da guerra come l’Agusta (anch’esse collegate al Psi). Un’inchiesta bloccata sul nascere e costata al giudice una campagna diffamatoria di cui lo stesso Craxi si era fatto portatore, anche scrivendo articoli apparsi sulla prima pagina de Il Giornale, allora diretto dall’‘insospettabile’ Indro Montanelli (1).
Anche nel 1981, durante l’inchiesta sulla Loggia massonica P2, sarebbe uscito il nome di Craxi insieme a quello di Martelli. Pronunciato da Calvi, il quale avrebbe fatto esplicito riferimento ai finanziamenti occulti dati al partito socialista, oltre a parlare di un conto, sulla cui esistenza si sarebbe fatta luce solamente durante l’inchiesta Mani Pulite. Tuttavia, già allora, l’importanza dei nomi tirati in causa avrebbe suscitato un clamore tale da costringere lo stesso Craxi a uscire allo scoperto. Memorabili i suoi attacchi ai giudici di Milano da lui definiti “irresponsabili e politicizzati” affetti da “furia accusatoria” e colpevoli di emettere “condanne sulla base di un semplice sospetto”.
Come abbiamo visto, per Ben Ali si è trattato di una questione di coerenza. Anche se una ricorrenza che cade al settimo anno di un decesso, è talmente insolita da indurre al sospetto che dietro si nasconda una cortesia chiesta dai nostri, per intraprendere la messa in scena morale della rivalutazione di Craxi. Una manovra tra tante che tuttavia rivela quanto la necessità di un forte atto simbolico si stia rendendo urgente per i politici.
L’improvvisa riesumazione del leader socialista non può essere un caso. Al contrario trova ragione nel perdurare del conflitto tra magistratura e politica, ferocemente apertosi proprio quindici anni fa con l’esplosione di Mani Pulite. Un clima che l’aggravarsi delle indagini sul coinvolgimento attivo di politici nelle scalate delle banche non potrà che rendere più pesante.
Ufficialmente, l’uomo della terza grande Restaurazione italiana, nascosta dietro il nome nuovo di seconda Repubblica, è stato Silvio Berlusconi. Braccato dai giudici, e costretto per questo a entrare in politica, una volta eletto, nel 2001, ha immediatamente reso il progetto di riforma giudiziaria una priorità dell’agenda del suo governo. E, forte della maggioranza schiacciante concessagli dagli italiani, si è prodotto in una serie di leggi pro domo sua che lo hanno salvato dall’eventualità del carcere.
Naturalmente, beato Ben Ali, in democrazia nessuno può compiere nefandezze del genere, così, alla luce del sole. Come si diceva all’inizio, occorre ammantare di valori etici e morali le proprie ragioni e renderne la popolazione non solo convinta, ma anche felice di esserlo. Per farlo, Berlusconi, pesantemente coinvolto nell’inchiesta del pool di Milano, ha dovuto organizzare lunghe campagne di affossamento di Mani Pulite, di demonizzazione della magistratura, e prestare le proprie televisioni a un lento e lungo lavoro di revisionismo storico e di pulizia del nome del suo antico protettore politico Bettino Craxi, tanto da caricarlo di un enorme peso simbolico. Un doppio binario, parlamentare e mediatico che gli ha permesso di togliersi in tempi relativamente brevi dagli impicci e che, tuttavia, non gli ha permesso il colpo definitivo: la vittoria del Sì al referendum, indetto per realizzare la riforma costituzionale che gli avrebbe permesso di subordinare la magistratura al Parlamento (2). Anche se il nuovo governo di centro sinistra, stranamente tiepido nell’indirizzare gli italiani a votare No, oggi è tornato a parlare di riforma costituzionale, dimostrando di condividere il sogno proibito di Berlusconi. Evidentemente, anche per il nuovo governo, la magistratura è troppo libera in un Paese pieno di misteri come l’Italia. Per il momento si limita a recuperare l’ottimo lavoro compiuto dalle televisioni del rivale (che nemmeno si sogna di togliergli, alla faccia del conflitto d’interessi, ormai precipitato nell’oblio), e inserisce Craxi nel Pantheon del neonato Partito democratico.
A questo punto, l’intestazione della strada a Craxi diventa un importante atto simbolico per saldare definitivamente i conti storici con Tangentopoli. Occorre spostare il confronto nell’onirico reame dei simboli, del soggettivo. Il primo spostamento si è dimostrato un involontario capolavoro di ambiguità. Un misto tra verità e mistificazione. La trasformazione della condizione di latitanza (Craxi scappato ad Hammamet) in esilio (Craxi rifugiato politico tra le dune di Hammamet), pur costituendo il tentativo, abbondantemente riuscito, di ribaltare i termini nella testa degli italiani, e spostare così l’attenzione dal condannato a chi la condanna ha emesso, rivelava nel contempo, sottilmente, un’ulteriore sottaciuta realtà dei fatti. Una verità che riporta la memoria a un lontano mese di luglio quando Craxi alla Camera lanciò agli altri partiti una vera e propria chiamata di correità: “Nessun partito è in grado di scagliare la prima pietra”.
L’esilio è l’allontanamento forzato di un uomo che rappresenta una minaccia per il potere. E in effetti, la fuga di Craxi ha salvato il Sistema. La possibilità che gli è stata concessa di scappare, lo avrebbe salvato.
La prima Repubblica, senza il bisogno di pronunciare alcun editto, spedisce in esilio coatto l’uomo che potrebbe distruggerla con la propria testimonianza, in attesa che si compiesse la naturale ricorrenza storica della restaurazione.
Perché, del fatto che ancora una volta, tutto sarebbe cambiato per rimanere intatto, i politici erano certi. Così come sapevano che i cambiamenti necessari per conservare il Sistema si sarebbero rivelati una benefica pulizia del Capitale, nonché l’occasione di nuovo rilancio.
Amato (ex braccio destro di Craxi!), nel ’93, dichiara la bancarotta dello Stato italiano, e decreta necessario l’inizio della privatizzazione di quelli che fino al giorno prima erano definiti Beni pubblici.
E così, mentre gli italiani si vedono addossare il peso di un debito statale gonfiato da anni di tangenti e di corruzione della sua classe politica, il Paese entra a pieno titolo nel capitalismo neoliberista. E, per farlo, cede il proprio corpo in pasto a figure, le cui aziende svettano nel registro degli indagati dei giudici milanesi.
Di questo grande passo, nessuno ha maggiori meriti di quanti ne abbia Craxi. La qual cosa rende l’intestazione di una strada, una semplice questione di coerenza storica. Un riconoscimento dovuto, perfettamente in linea con la logica con cui, in passato, lo Stato ha reso omaggio a personaggi come Giolitti, Crispi, Umberto I, Cadorna, De Gasperi, Gronchi, Aldo Moro, Togliatti (l’unico a non avere ancora capito perché anche quest’ultimo debba rientrare a pieno titolo tra i santi laici, pare essere il ministro Giovanardi), in un elenco da cui solo un persistente rigurgito di ipocrisia fa sì che restino esclusi personaggi come Bava Beccaris, Scelba, Tambroni e un altro famoso socialista: Benito Mussolini. Tuttavia, verrà il momento.
(1) L’attentato di Carlo Palermo, Publiprint, Trento 1992
(2) Differenze antropologiche di Erika Gramaglia, PaginaUno n. 2/2007