Il 25% dei rifiuti europei spediti in Africa e Asia non rispetta le norme internazionali, la Cina chiude le porte, il sistema va in tilt, tutto va in fumo: stando alla Commissione d’inchiesta, gli incendi sono delitti d’impresa e non delitti di mafia
La situazione dei rifiuti in Italia, ma anche in Europa, sembra al collasso. Titoli in prima pagina parlano di “emergenza smaltimento”, e a ciò va aggiunta un’altra ‘nuova emergenza’ che colpisce in particolar modo la Lombardia: i roghi dei capannoni stipati di rifiuti.
Che cosa si nasconde dietro queste emergenze? Quali sono i reali interessi? Dove il meccanismo si è inceppato? Quali possono essere le reali risposte? Per fare un po’ di chiarezza bisogna partire dalle relazioni della “Commissione Parlamentare di inchiesta sulle attività illecite connesse al ciclo dei rifiuti e su illeciti ambientali a esse correlati”.
La Commissione è stata istituita ormai da parecchie legislature, in forma stabile e a livello bicamerale. Migliaia di pagine sono state scritte sul traffico dei rifiuti e le famose ‘ecomafie’, e spesso vi si trovano alcune verità importanti che non risaltano sui grandi media. Nell’ultima Commissione, istituita con legge 7 gennaio 2014 n. 1, sono state approvate due relazioni: la prima avente per oggetto il “Fenomeno degli incendi negli impianti di trattamento e smaltimento rifiuti” (approvata il 17 gennaio 2018), la seconda riguardante gli “Aspetti critici dei fenomeni illeciti nel traffico transfrontaliero di rifiuti” (approvata il 14 febbraio scorso).
I roghi dei capannoni
Negli ultimi anni abbiamo assistito a un intensificarsi di roghi di capannoni, discariche e impianti, stracolmi di rifiuti. Una situazione che ha portato la Commissione parlamentare a indagare se negli incendi non vi fosse una causa dolosa, e quale. Con l’arresto della banda criminale che ha dato fuoco al capannone di Corteolona (Pavia) nel gennaio 2018, si è compreso che l’obiettivo di molti roghi era quello di smaltire i rifiuti. Una grossa nube di fumo aveva invaso la pianura pavese, e il livello di attenzione ambientale era salito alle stelle per la paura diossina: un falò di 2.000 metri quadrati riempiti con ogni genere di immondizia, plastica, carta e rifiuti pericolosi come olii. Nell’ottobre scorso sei persone sono state arrestate.
Si tratta di una banda di italiani e stranieri accusata di essere dedita allo smaltimento illegale di rifiuti, e si presume sia stata anche responsabile di altri incendi. Uno dei capi del sodalizio era infatti già pronto a rilevare altri capannoni vuoti da riempire, tra Bergamo, Sondrio e Novara, afferma la procura. È stato calcolato più di un milione di euro di mancato esborso per lo smaltimento lecito e quasi 70.000 euro di ecotassa mai pagata alla Regione. Questo il messaggio Whatsapp del 3 gennaio 2018 di Vincenzo Divino (uno degli indagati): “Ho ritirato la torta poco fa… ho fatto mettere la frutta… sopra tutti i lati e ho abbondato al centro con il liquore. Domani se la assaggi ti ubriacherai tanto tanto”.
Solo nella Lomellina, da dicembre 2016 a settembre 2017 si sono contati nove roghi, tra i quali quello dell’esplosione nella raffineria Eni di Sannazzaro e il rogo imponente a Mortara, oggetto di indagine della Commissione parlamentare, dove sono andati a fuoco 12.000 metri cubi di rifiuti.
Altro incendio importante è stato quello di Cinisello Balsamo del 2 ottobre 2017, nell’impianto di recupero rifiuti della società Carluccio s.r.l. Il rogo ha interessato diciotto mezzi di soccorso con quaranta operatori per tredici ore consecutive.
Stando alla relazione della Commissione: “Alcuni operanti dei Vigili del fuoco, presenti al sopralluogo, hanno evidenziato le perplessità destate sia dalla modalità di incendio, in quanto giunti sul posto notavano il portellone dell’impianto spalancato, sia dalla coincidenza per cui altro incendio si fosse sviluppato qualche mese prima – 2 luglio 2017 – presso altro impianto di proprietà della Carluccio s.r.l. a Bruzzano (MI) anch’esso di vaste proporzioni”. Quindi per la società Carluccio non era il primo caso di incendio, e stando alle parole della Commissione, entrambi estesi.
Ma quello che ha fatto più parlare ultimamente è l’incendio sviluppatosi a Quarto Oggiaro, nel cuore della periferia milanese. Il 14 ottobre, verso le 20.30, il fuoco scoppia in un capannone di IPB s.r.l. e vanno in cenere 16.000 metri quadrati di rifiuti. L’operazione di spegnimento dura una settimana e anche dopo rimangono focolai attivi. La colonna di fumo invade tutta Milano e impressiona non poco l’opinione pubblica. Nonostante l’Agenzia di tutela della salute (Ats) non abbia ritenuto di dover mettere in atto provvedimenti di carattere sanitario, era alto il rischio per la salute, vista la mole dei rifiuti bruciati.
È indubbio che la Lombardia e il Nord sono al centro di una vera emergenza ‘roghi’. Basti pensare che, in base ai dati della Commissione, il 47,5% degli incendi analizzati è avvenuta nel Nord Italia, il 16,5% al Centro, il 23,7% al Sud e il 12,3% nelle Isole. È un dato significativo che porta ad affermare che stiamo assistendo a una inversione del flusso del rifiuto, dal Sud al Nord. È la stessa Commissione che lo riconosce nella relazione: “La distribuzione territoriale vede una prevalenza di eventi al Nord, il che, in mancanza, come oltre si dirà, di spiegazioni omogenee per il fenomeno, al di là del diffuso ‘sovraccarico’ degli impianti, conferma indirettamente quantomeno l’inversione del flusso dei rifiuti rispetto a storiche emergenze che hanno in passato colpito le regioni meridionali. Alla maggiore concentrazione degli impianti di recupero e di smaltimento rifiuti al Nord contribuisce una logica preferenza per la vicinanza alla domanda, conseguente alla maggiore presenza di impianti industriali e alla maggiore urbanizzazione del territorio rispetto al Centro-Sud e alle Isole”.
Un dato importante per capire non solo la geografia dei flussi ma anche le sue tratte, e rendersi conto del cambiamento che si è verificato. Siamo infatti stati abituati a pensare che i rifiuti venissero spediti al meridione, creando le emergenze degli anni passati e la famosa ‘terra dei fuochi’. Una dinamica innescatasi negli anni Ottanta, quando per legge furono bloccate le discariche di rifiuti solidi urbani, spesso poste in riva ai fiumi della pianura. Da quel momento, nel Nord si assiste a una vera e propria emergenza rifiuti, con discariche date alle fiamme, rifiuti tossici seppelliti abusivamente o abbandonati in riva ai fiumi nella speranza di qualche piena e, anche in quel caso, scoperte di capannoni colmi di rifiuti.
Basta consultare gli archivi dei giornali locali per rendersi conto del livello di emergenza toccato in quegli anni. In parte, la situazione di allora sembra simile all’attuale. Ma quelli erano anche i tempi delle nuove discariche al Nord, poi oggetto di inchiesta in Tangentopoli, con condanne spiccate a politici e imprenditori legati ai rifiuti. E proprio in quegli anni le mafie, in particolar modo camorra e ‘ndrangheta, entravano nel giro, trasportando camion di rifiuti al meridione in discariche abusive. Rifiuti di ogni genere, tossici e non, che hanno portato profitti agli imprenditori del Nord che smaltivano illegalmente il rifiuto e soldi alle stesse mafie. Nel frattempo assistevamo anche ad alcuni avvenimenti tra i più misteriosi e ancora irrisolti della Repubblica Italiana, l’inchiesta sulle navi dei veleni affondate nel Mediterraneo e l’esportazione illecita di rifiuti verso i Paesi africani e mediorientali, collegata alla morte di Ilaria Alpi e Miran Hrovatin e del Capitano Natale De Grazia.
Il traffico dei rifiuti ha dunque invertito la direzione di marcia che è diventata Sud-Nord e Nord-Nord. E infatti nello Sblocca Italia di Renzi sono entrati anche gli inceneritori, e il 10 agosto 2016 il governo ha provveduto a emettere il Decreto del presidente del Consiglio dei ministri (D.P.C.M.), attuativo dell’art. 35 dello Sblocca Italia, individuando nel numero di otto i nuovi inceneritori da realizzare sul territorio nazionale per soddisfare il fabbisogno. Tutti dislocati al Centro-Sud: Umbria, Marche, Lazio, Campania, Abruzzo, Sardegna e due in Sicilia.
Guardiamo qualche numero per capire se effettivamente possiamo parlare di emergenza. In Lombardia nel 2018 (dato a metà novembre) si sono contati 18 roghi di impianti di rifiuti, e secondo i dati di Legambiente dal 2015 al 2018 gli incendi sono stati 33. Una crescita improvvisa che ha fatto allertare lo stesso ministro dell’Ambiente pentastellato, che ha dichiarato: “La guerra dei rifiuti in Lombardia è una battaglia che intendiamo combattere con fermezza e risolutezza da subito. Ma la Lombardia è terra dei fuochi come il resto d’Italia, anche per questo stiamo scrivendo la norma Terra dei Fuochi”.
Sull’intero territorio nazionale, negli ultimi due anni ci sono stati più di 250 incendi. Stando alla Commissione parlamentare, dal 2014 all’agosto 2017 (data ultima dell’indagine) ci sono stati 218 roghi in impianti e 32 in discariche, con un’impennata dal 2015, e i dati riportati dal Corpo nazionale dei Vigili del Fuoco registrano un aumento tra il 2016 e il 2017 del 59%.
In un’audizione alla Commissione, Sandro Raimondi, ex procuratore aggiunto di Brescia e uno dei magistrati più impegnati nelle inchieste sui roghi in Lombardia, ha dichiarato: “Ormai si può fare a meno, per certi aspetti, di rivolgersi obbligatoriamente alla criminalità organizzata. È diventato un modo intelligente di fare impresa da parte di alcuni operanti del settore. Io lo definisco un reato di impresa dove l’imprenditore ha imparato come fare da solo, in modo autarchico”.
In un’altra audizione alla stessa Commissione, Franco Roberti, procuratore nazionale antimafia, ha affermato: “Vi ho detto sommariamente che, quando parliamo di reati in materia di rifiuti, è più vicino alla realtà parlare di delitti di impresa che non di delitti di mafia, perché sono le imprese che attivano il ciclo illegale di rifiuti, non le organizzazioni mafiose. Le organizzazioni mafiose svolgono un servizio rispetto alle imprese, che, per risparmiare e soprattutto per nascondere i rifiuti provenienti dalla propria produzione in nero, che non possono che essere smaltiti in nero, si rivolgono alle organizzazioni criminali, o comunque a organizzazioni di smaltitori disposte a smaltire illegalmente. Dunque, l’impulso viene dalle imprese e le organizzazioni criminali, anche mafiose, svolgono il servizio di smaltimento illegale”.
Stando a Roberto Pennisi, magistrato della Direzione distrettuale antimafia, specializzato in crimini ambientali: “Oggi in Italia c’è una gestione dei rifiuti deviata, in cui la regola è questa: il rifiuto meno lo tocchi più guadagni. Ragione per la quale l’interesse di chi ha acquisito i rifiuti sarebbe quello di portare tutto in discarica”; poiché le discariche sono attualmente poco funzionanti e i rifiuti hanno bisogno di trattamento, che ha un costo, “per evitare di toccare questi rifiuti tante volte arriva il benedetto fuoco. Quello che brucia va in fumo e il fumo non si tocca più”.
Purtroppo la stessa magistratura sembra non riuscire ad arrivare a questi reati. La Commissione riporta che circa la metà dei roghi ha dato luogo a procedimenti a carico di ignoti, e di questi quasi la totalità è stata archiviata. Solo per il 13% dei casi si è andati verso l’azione penale, ma per appena cinque l’imputazione è stata di incendio, doloso o colposo; in tutti gli altri sono stati contestati reati ambientali, derivanti da irregolarità nella gestione degli impianti.
Emergenza e questione cinese
Sono solo i rifiuti del Sud ad aver creato l’emergenza? È cambiato qualcos’altro rispetto agli anni passati? Si può parlare davvero di emergenza?
Risposte a queste domande le fornisce in parte la Commissione, citando quanto segnalato dall’Agenzia delle Dogane circa la collaborazione istituzionale della stessa Agenzia con le autorità della Repubblica Popolare Cinese: “Con comunicazione del 25 ottobre 2017 […] l’Addetto doganale dell’Agenzia, operante presso l’Ambasciata d’Italia in Pechino, ha comunicato, tra l’altro, che in occasione dell’incontro tenutosi in Cina nell’ambito del progetto finanziato Nazioni Unite Dotcom Waste […] la delegazione internazionale […] ha evidenziato le problematiche inerenti: le distorsioni di flusso di rifiuti a rischio di illecito da un Paese membro all’altro, all’interno del territorio della Unione europea, tendenti a eludere il controllo presso i valichi doganali dei Paesi più reattivi in termini di tutela ambientale, per l’impatto criminogeno che le differenze di sensibilità dei vari dispositivi di controllo nazionali, in Europa e in Cina, hanno sulle scelte degli operatori. Con la stessa comunicazione, l’Addetto doganale italiano in Cina ha segnalato che, secondo fonti del Ministero di Protezione ambientale, oltre seicento aziende del settore sono state chiuse in Cina, per avere importato rifiuti non adeguatamente trattati e che, anche in ragione delle segnalazioni inoltrate alle autorità cinesi da questa Direzione Centrale Antifrode e Controlli nell’ambito della cooperazione internazionale, la Repubblica Popolare Cinese sta valutando la possibilità di inserire con norma interna il divieto all’importazione di materiali plastici che non siano di provenienza industriale”.
La Cina insomma inizia a chiudere le porte ai rifiuti plastici. A quanto evidenziato nella relazione della Commissione, infatti, si deve aggiungere che la nuova politica cinese, come risulta dalla notifica del 18 luglio 2017 (con effetto dal primo gennaio 2018) alla Wto, ha chiuso all’importazione di una serie di rifiuti solidi destinati al riciclo. La Cina assorbiva oltre il 72% della plastica mondiale da riciclare, e il blocco ha letteralmente mandato in tilt il sistema dei rifiuti europeo.
Secondo lo studio di un gruppo di ricercatori dell’Università della Georgia, riportato in un articolo apparso su Le Scienze il 21 giugno, l’aumento del sistema di importazioni ed esportazioni di plastica è stato dell’800% dal 1992 al 2016, con un peggioramento della qualità, al punto di rendere difficile e non vantaggioso il riciclaggio: solo il 9% di tutta la plastica prodotta è stata riciclata, mentre la maggior parte è finita nelle discariche e nell’ambiente; il blocco cinese, stima infine lo studio, può portare ad accumulare 110 milioni di tonnellate di rifiuti plastici entro il 2030.
Il cinese National Sword
Il blocco delle importazioni della plastica non è l’unico problema cinese.
Il National Sword è una misura protezionistica applicata dalla Cina che blocca 24 tipologie di materiali da rifiuto e definisce un criterio più severo per i livelli di contaminazione di altre tipologie di rifiuto. Se da un lato questa misura rischia di creare una catastrofe in Europa con impatti ambientali devastanti, dall’altro cerca di migliorare una situazione già oltre i limiti per l’inquinamento cinese. Nella sua forma più semplice è un regolamento stringente in materia di importazione di rifiuti solidi come materie prime: carta, plastica, PET, PE, PVC, PS.
Fissa inoltre limiti più severi per le contaminazioni dei rifiuti di materia plastica, zorba e altri metalli, con una purezza percentuale che passa dal 90-95% al 99,5%; obiettivo e-vidente è migliorare la qualità dell’aria, bloccare il contrabbando illegale, ridurre l’inquinamento di rifiuti sporchi e pericolosi – i container saranno anche scansionati ai raggi X. Da un lato ne beneficeranno gli esportatori di prodotti ‘puliti’, ma questo per l’Europa ha un costo enorme: si stima che da 3,5 milioni di tonnellate di plastica importate dalla Cina nel 2017 si sia passati a 21.300 tonnellate nei primi sei mesi del 2018.
Nella “Relazione della Commissione al Parlamento europeo e al Consiglio sugli ostacoli al commercio e agli investimenti del periodo 2017”, la Cina spicca al secondo posto mondiale, dopo la Russia, per maggiori ostacoli nello scambio e nel commercio. Si legge: “La Cina resta uno dei partner dell’Ue che applica le politiche più restrittive degli scambi. Da tempo le imprese dell’Unione che operano nel Paese devono affrontare una serie di ostacoli complessi, tra cui gli obblighi di costituire joint venture, le restrizioni all’ingresso sul mercato, gli obblighi in materia di trasferimento di tecnologie e regolamentazioni tecniche ingiustificate; a questo si aggiungono preoccupazioni di carattere sistemico, riguardo al massiccio eccesso di capacità produttiva della Ci-na, non solo in settori tradizionali come quelli dell’acciaio e dell’alluminio, ma sempre di più anche nei settori ad alta tecnologia.
“Nel 2017 si è osservato un aumento considerevole degli ostacoli, con dieci nuovi ostacoli agli scambi registrati. Benché due di queste misure siano già state eliminate nel corso del 2017 […] è possibile delineare chiaramente una tendenza all’insorgere di nuovi ostacoli […] Per quel che riguarda altri settori, l’introduzione di una serie di misure non tariffarie sotto forma di prescrizioni tecniche complesse e norme rivedute dovrebbe inoltre avere un impatto, tra l’altro, sulle industrie del legno, conciaria, della carta e della pasta da carta. Recentemente le autorità cinesi hanno introdotto un ampio divieto sulle importazioni di rifiuti che colpisce 24 prodotti ed è entrato in vigore il primo gennaio 2018; hanno inoltre adottato un corpus riveduto di norme per altri 34 prodotti che è applicato dal primo marzo 2018 e riguarda in particolare i rifiuti di pasta di legno, di polimeri, i cascami metallici nonché i minerali metallici e la plastica”. Una preoccupazione di non poco conto quindi, frutto delle nuove politiche protezionistiche messe in atto da diversi Paesi e che stanno mettendo fine al sistema globalizzato che abbiamo conosciuto in questi anni.
Geometrie neocoloniali del rifiuto
L’Europa è il primo Paese esportatore di rifiuti in Cina, e spesso non arrivavano nel miglior dei modi. Come vedremo e come è stato dimostrato dalla Commissione parlamentare, dietro all’esportazione cinese era nato un business che registrava maggiori profitti esportando rifiuti non perfetti e contaminati. Nel tempo questa situazione ha portato situazioni paradossali: oltre all’inquinamento del territorio, con rischi per la salute dei cittadini, la Cina si ritrovava a produrre plastica riciclata contaminata, plastica che poi veniva bloccata all’importazione europea in quanto non rispettava i parametri ambientali. In pratica, l’Europa forniva alla Cina plastica di bassa qualità per il riciclo, ma non importava le sue merci prodotte con la plastica riciclata.
Stando alla Commissione: “L’audizione, svolta il 23 aprile 2015, dei rappresentanti del consorzio Polieco aveva consentito di evidenziare tre elementi ulteriori: la flessibilità degli esportatori, che, a fronte del restringersi del canale cinese per motivi contingenti, deviano i flussi verso altri Paesi dell’estremo Oriente (in quella fase Malesia e Laos); il riflesso possibile sulla tutela della salute in ambito nazionale derivante del reingresso sul territorio nazionale di beni prodotti a partire da materie contaminate in precedenza esportate. «Quando un manufatto entra in Italia è, per ciò che è possibile, sicuramente controllato […]. Ma questi manufatti, il più delle volte, non entrano direttamente dall’Italia, ma da altri porti, da dove vengono distribuiti in territorio europeo direttamente ai magazzini.
“Pertanto, quando arrivano in Italia si presume che siano controllati. Beninteso, è difficile controllarli tutti, ma vengono fatte delle analisi e dei test. Più difficile è quando questi arrivano da un altro Paese comunitario, perché di solito si fanno dei grandi magazzini di stoccaggio, da dove vengono poi presi per essere mandati ai singoli distributori al dettaglio.» Il collegamento di questi fenomeni con il tema della tutela globale dell’ambiente: «Se fate un giro nella provincia di Tianjin, in Cina, vi renderete conto che lì ci sono siti contaminati, con villaggi do-ve arrivano i rifiuti dall’Occidente, che poi vengono lavorati in condizioni sanitarie davvero deplorevoli, portando non solo all’inquinamento dell’ambiente, al danno per la salute, ma anche, appunto, alla produzione di rigenerato che poi ci ritroviamo nei prodotti che tornano indietro»“.
Stiamo parlando della globalizzazione del rifiuto che vede politiche neocoloniali per smaltire milioni di tonnellate di rifiuti prodotti dal modello economico occidentale, che ha cercato di spostare il problema verso terre lontane e meno sviluppate. Non è la prima volta. Come sopra accennato, già avveniva negli anni Ottanta con le navi dei veleni e le inchieste della Alpi e di De Grazia.
“I traffici di rifiuti illecitamente trattati o non sottoposti ai dovuti trattamenti previsti dalla normativa ambientale” scrive la Commissione, “diventati oggetto di movimentazioni transfrontaliere internazionali, sono in larga maggioranza riferibili a cascami e a-vanzi di lavorazione di prodotti industriali, destinati in esportazione verso i circuiti industriali asiatici perché vengano riciclati, utilizzati quali materie secondarie e reintrodotti nel mercato dei prodotti finiti da essi derivate”. C’è quindi una responsabilità della classe dirigente imprenditoriale, ma anche di quella politica: la prima ha aumentato i propri profitti abbassando – illegalmente – i costi di smaltimento, la seconda ha investito pochissimo nel riciclo, creando ora una situazione drammatica di fronte al cambio della politica cinese.
Abbassare i costi è la questione centrale, come riconosce anche la Commissione: “Dietro le esportazioni illegali vi sono forti interessi economici rappresentati dai costi di trattamento e smaltimento dei rifiuti notevolmente inferiori nei Paesi in via di sviluppo, determinati principalmente da norme ambientali e sanitarie meno severe di quelle applicate nell’Unione europea e, in alcuni casi, dalla possibilità di eludere totalmente i controlli. Se il Paese di destinazione non dispone di norme e capacità di riciclaggio adeguate, non si fa altro che esportare in altre parti del mondo potenziali rischi ambientali e sanitari. L’abbandono dei rifiuti o il loro trattamento non conforme alle norme costituisce una grave minaccia per l’ambiente ed espone i cittadini e gli addetti ai lavori a rischi di salute a lungo termine. Inoltre, le sostanze rilasciate dai rifiuti abbandonati possono inquinare il suolo, le acque e l’aria attraverso l’emissione di metalli pesanti e di inquinanti organici persistenti. Tali emissioni sono inoltre causa del surriscaldamento climatico e del buco dell’ozono”.
Quello che emerge dunque è una dinamica di dumping ambientale, a opera di soggetti italiani, europei e genericamente occidentali che per eludere le norme sui rifiuti si organizzano con strutture sia criminali che legali e trasferiscono rifiuti verso Paesi caratterizzati da norme più permissive o privi di leggi in materia di tutela ambientale. Spesso le esportazioni si concludono con abbandoni incontrollati, come era già emerso nelle inchieste come quella della Alpi sulla Somalia.
I principali terminali, come in passato, restano i porti. Scrive la Commissione: “Le audizioni del direttore generale dell’Agenzia delle Dogane, hanno consentito, insieme alle elaborazioni condotte dalla direzione centrale antifrode e controlli dell’Agenzia, di individuare le distorsioni dei flussi di rifiuti oggetto di movimentazioni transfrontaliere rappresentate da aziende nazionali che scelgono di esportare le proprie spedizioni destinate nei mercati dei riciclo industriale dell’estremo Oriente e, in particolare, della Cina, attraverso i porti di Koper, Rotterdam, Anversa invece che per i porti di Genova, La Spezia, Venezia, Trieste, Gioia Tauro e Taranto, le cui filiere logistiche so-no attive sulle stesse rotte orientali”.
Poiché le misure di controllo nei porti italiani sono aumentate, almeno stando alle parole della Commissione, è divenuto più difficile esportare direttamente nei Paesi poveri e, per eludere la normativa, si è ricorso alla pratica del port hopping. In pratica, gli esportatori di rifiuti illegali scelgono di far transitare le spedizioni negli Stati membri della Ue che applicano controlli meno severi. Siamo di fronte a nuove tratte intraeuropee.
Sempre la Commissione sottolinea: “Lo stesso quadro di riferimento, considerata la libertà di movimento dei flussi transfrontalieri inerenti i settori merceologici più interessati da illeciti ambientali, quali i rifiuti di polietilene, di carta da macero, di rottami ferrosi, è stato evidentemente considerato anche dagli operatori economici che hanno compiuto scelte elusive, per beneficiare della mancanza di uniformità e di sensibilità – in termini di prevenzione e contrasto dei traffici illeciti di rifiuti – dei sistemi di controllo doganale a livello dell’Unione europea. Si può ritenere sussistente il rischio che, almeno in parte, la scelta di spostare dall’Italia verso porti di altri Stati membri parte dei volumi delle transazioni internazionali di rifiuti, abbia corrisposto – a valle e in Paesi extracomunitari – agli interessi patrimoniali di strutture criminali in grado di curare volumi assai considerevoli di rifiuti industriali non adeguatamente trattati dal punto di vista ambientale”.
Soprattutto da altri porti europei partono dunque i carichi di rifiuti illegali, e i dati non sono per nulla incoraggianti. La Commissione stima che il 25% delle spedizioni inviate dalla Ue ai Paesi in via di sviluppo di Africa e Asia avvenga in violazione delle normative internazionali. Al loro arrivo i rifiuti sono spesso abbandonati o scaricati in discariche abusive o trattati in modo scorretto. Le principali destinazioni sono Ghana, Nigeria e Cina, tramite il porto di Hong Kong.
Queste tratte intraeuropee avvengono il più delle volte via terra, come nel caso dell’inchiesta Grenzag del 2014, che ha portato al blocco sull’autostrada E4111, che collega il Lussemburgo con il Belgio e quindi con il porto di Anversa, di un centinaio di camion dell’Est europeo che trasportavano rifiuti destinati ad Asia e Africa. Stessa situazione si è verificata tra Italia e Slovenia.
“Tra il 2013 e il 2014 le esportazioni di cascami di materie plastiche [sono] diminuite del 25%, passando dalle circa 106.000 tonnellate del 2013 alle circa 79.000 tonnellate del 2014, mentre [sono] aumentate le cessioni intracomunitarie dell’Italia verso altri Paesi dell’Unione europea, in particolare verso la Slovenia, che si conferma come secondo Paese destinatario delle cessioni intracomunitarie italiane verso altro Stato Ue di cascami e avanzi di materie plastiche anche nel 2015”, scrive la Commissione. Ciò che è emerso è che dal porto sloveno di Koper partivano carichi verso la Cina, visto che la Slovenia aveva misure meno restrittive in materia di certificati richiesti dalla normativa cinese.
Altro dato importante è quello relativo al porto di Rotterdam: oltre il 40% del totale esportato dall’Italia e la carta da macero diretta verso l’estremo Oriente passano attraverso brokers olandesi. La ragione è che in Olanda sono stati creati i fast corridors, corridoi privilegiati con le dogane cinesi, che attuano procedure molto più semplificate. Nel porto di Rotterdam vengono trattati annualmente 1,2 milioni di container di rifiuti, in un’area di 65 chilometri quadrati; circa il 30% delle merci esportate e importate dalla Ue passa da qui.
C’è poi il porto di Anversa, secondo solo a quello di Rotterdam, dove si stima un traffico di 9,6 milioni di TEU (unità di misura che equivale a un container di 20 piedi). L’infrastruttura logistica è gigantesca, anche perché è presente il più grande complesso petrolchimico europeo. Secondo le autorità locali i controlli sono estremamente laschi, tanto che si stima che solo lo 0,5% dei container sia soggetto a scansione elettronica; ed è da sottolineare che dello 0,5% controllato ben il 19% rileva trasporti illegali.
Prodotti esportati e loro problematiche
Proprio la plastica è uno dei punti deboli del sistema rifiuti in Europa e Italia, al punto che il governo gialloverde e il ministro dell’Ambiente Costa si sono impegnati nella battaglia Plastic Free. Battaglia giusta, ma del tutto insufficiente.
La questione della plastica e del suo riciclo è stata affrontata anche dalla Commissione, con una relazione intitolata “I Consorzi nel Mercato del riciclo”. L’analisi conclude che l’esportazione verso i Paesi stranieri può derivare indirettamente da limiti tecnico impiantistici o normativi, che minano la possibilità del riciclo dei rifiuti.
In particolar modo gli imballaggi finiscono in discariche e inceneritori oppure, come abbiamo visto, nei Paesi in via di sviluppo attraverso modalità illegali. In Italia riciclare Plasmix, imballaggi post-consumo che possono essere impiegati per produrre granuli da riciclo a base poliolefinica, paragonabili ai polimeri vergini, ha costi superiori alla produzione stessa di polimeri vergini, perché il tipo di impianti necessario è ancora alla prima fase di sviluppo.
La tecnologia esiste, ma vince la logica del profitto, e i dati forniti dalla Commissione sono disarmanti: “Ogni anno in Italia si immettono sul mercato circa 5 milioni di tonnellate di plastica, ma solo 2 milioni sono imballaggi. Di questi 2 milioni di tonnellate solo la metà viene raccolta in maniera differenziata. Del milione di tonnellate raccolte in modo differenziato meno della metà (400.000 tonnellate stimate) viene recuperata in materia. Attualmente dunque più della metà degli imballaggi plastici raccolti non ha una filiera del recupero e viene considerata come uno scarto che non solo non ha valore, ma rappresenta un costo di smaltimento: di qui la possibilità di volersi liberare di questi ‘scarti’ anche attraverso un illecito trasferimento transfrontaliero”. Altro che il riciclo tanto sbandierato dai Comuni.
Un capitolo a parte si deve aprire in merito agli enormi profitti che si celano dietro l’industria del fossile (petrolio) e del petrolchimico. Gli ultimi governi, nonostante gli accordi di Cop21 e altri per la lotta al riscaldamento climatico e alla riduzione del fossile, non hanno fatto nulla e anzi, forse hanno fatto di tutto per incentivare le lobby del petrolio. Basti ricordare il referendum sulle trivelle, la strategia energetica nazionale, i progetti dell’hub del gas, lo Sblocca Italia, e sopratutto gli incentivi annuali dati alle industrie nocive e del fossile (1).
Basti ricordare che l’Italia spende ogni anno 14,8 miliardi di euro in sussidi ai combustibili fossili, su un totale di 16,1 miliardi di euro di sussidi destinati a fonti energetiche ambientalmente dannose, a fronte dei 15,6 miliardi di sussidi per fonti ambientalmente favorevoli. È ciò che emerge dal “Catalogo dei sussidi ambientalmente favorevoli e dei sussidi ambientalmente dannosi” del 2016 elaborato dal Ministero dell’Ambiente (2).
Alla luce dei dati si può tranquillamente sostenere che non c’è alcuna intenzione di andare verso il riciclo. L’unica azione messa in atto per abbattere l’uso della plastica è stata la discussa sostituzione dei sacchetti per frutta e verdura nei supermercati con sacchetti biodegradabili, che ha provocato proteste per il costo aggiunto. Ma oltre alla plastica ci sono anche altri prodotti che non vengono riciclati in mo-do corretto e finiscono nel traffico internazionale lecito e illecito di rifiuti. I veicoli da demolire, per e-sempio. Basti pensare che tra il 2009 e il 2013 il numero delle demolizioni effettuate in Italia è passato da 1,7 milioni a 947 mila, mentre i veicoli esportati sono passati da 491 mila a 753 mila. Sarà interessante vedere cosa succederà con le nuove norme che mettono al bando gli euro 3 e che prossimamente (si parla del 2020) metteranno al bando anche gli euro 4. Dove finiranno questi veicoli? Si creerà una nuova emergenza?
Ci sono poi le apparecchiature elettroniche ed elettriche, da cui si possono ricavare metalli preziosi da riciclare, invertendo le politiche coloniali di estrazioni di minerali. Ma come ammette anche la Commissione, in Italia non esiste nessuno che si occupa di questo tipo di riciclo.
L’emergenza fanghi
C’è anche un’altra nuova emergenza, quella dei fanghi di depurazione, che andrebbero trattati in apposite discariche, che ha portato il governo a inserire articoli appositi nel Decreto Genova. Ma anche in questo caso una manina ha voluto introdurre un limite per gli idrocarburi: i fanghi potranno contenere idrocarburi fino a una quantità di 1.000 milligrammi per kg, un aumento di 50 milligrammi rispetto al valore precedente. Non contenti, con specifico emendamento votato a maggioranza, nei fanghi potranno esserci anche PCB (il famoso PCB della Caffaro di Brescia) e diossine. Il PCB potrà contenere una quantità di 0,8mg/Kg di sostanza secca ‘ss’, quando sono soggetti a bonifica i suoli con 0,06 mb/Kg di ‘ss’: si potranno quindi utilizzare su terreni agricoli fanghi con sostanze tossiche 10 volte superiori alla legge che fa scattare la bonifica dei suoli. Una pazzia, dettata probabilmente dall’emergenza rifiuti, come dichiarato dai ministri Toninelli e Costa.
Proprio Costa ha riconosciuto: “Abbiamo inserito l’articolo sui fanghi di depurazione nel decreto Genova perché c’erano le condizioni della decretazione d’urgenza. Sì, quest’estate siamo stati in emergenza con tonnellate di fanghi accumulate soprattutto nelle regioni del Nord, e abbiamo sfiorato un disastro ambientale per l’accumulo nei depositi di stoccaggio dei fanghi industriali”.
Anche in questo caso l’emergenza è quindi il passepartout che consente lo spandimento di fanghi contenenti idrocarburi, PCB e diossine, che hanno ben poco da spartire con i fanghi di depurazione civile. È ovvio l’intento di sversare fanghi industriali, in piena contraddizione con il Testo unico ambientale e le leggi in materia di sversamento fanghi sui terreni agricoli.
Accettare l’emergenza o cambiare il paradigma?
Già nel 1940 Walter Benjamin, nell’ottava delle sue Tesi di filosofia della storia, scriveva: “La tradizione degli oppressi ci insegna che lo ‘stato di emergenza’ in cui viviamo è la regola. Dobbiamo giungere a un concetto di storia che corrisponda a questo fatto”. Agamben nel suo saggio Lo Stato d’eccezione afferma: “La creazione volontaria di uno stato di emergenza permanente (anche se eventualmente non dichiarato in senso tecnico) è divenuta una delle pratiche essenziali degli Stati contemporanei, anche di quelli cosiddetti democratici […] lo stato di eccezione tende sempre più a presentarsi come il paradigma di un governo dominante nella politica contemporanea.
“Questa dislocazione di una misura provvisoria ed eccezionale in tecnica di governo minaccia di trasformare radicalmente – e ha già di fatto sensibilmente trasformato – la struttura e il senso della distinzione tradizionale delle forme di costituzione. Lo stato di eccezione si presenta anzi in questa prospettiva come una soglia di indeterminazione fra democrazia e assolutismo”. E conclude: “Lo stato di eccezione ha anzi raggiunto oggi il suo massimo dispiegamento planetario. L’aspetto normativo del diritto può essere così impunemente obliterato e contraddetto da una violenza governamentale che, ignorando, all’esterno, il diritto internazionale e producendo, all’interno, uno stato di eccezione permanente, pretende tuttavia di stare ancora applicando il diritto […] dallo stato di eccezione effettivo in cui viviamo non è possibile il ritorno allo stato di diritto, poiché in questione ora sono i concetti stessi di Stato e di diritto”.
Il disastro ambientale, dettato da politiche sbagliate e fondamentalmente orientate a favorire il business e il profitto privato, produce situazioni ‘di e-mergenza’ in cui il diritto viene sospeso. È il caso emblematico dell’impunità penale applicata all’Ilva di Taranto, estesa per legge all’acquirente Arcelor Mittal (3): “L’osservanza delle disposizioni contenute nel Piano di cui al D.P.C.M. 14 marzo 2014, nei termini previsti dai commi 4 e 5 del presente articolo, equivale all’adozione ed efficace attuazione dei modelli di organizzazione e gestione, previsti dall’articolo 6 del decreto legislativo 8 giugno 2001, n. 231, ai fini della valutazione delle condotte strettamente connesse all’attuazione dell’A.I.A. [Autorizzazione integrata ambientale, n.d.a.] e delle altre norme a tutela dell’ambiente, della salute e dell’incolumità pubblica. Le condotte poste in essere in attuazione del Piano di cui al periodo precedente non possono dare luogo a responsabilità penale o amministrativa del commissario straordinario, dell’affittuario o acquirente e dei soggetti da questi funzionalmente delegati […]. Per quanto attiene all’affittuario o acquirente e ai soggetti funzionalmente da questi delegati, la disciplina di cui al periodo precedente si applica con riferimento alle condotte poste in essere fino alla scadenza del 30 giugno 2017 […]”.
Il Decreto della Presidenza del Consiglio dei ministri del 29 settembre 2017 ha poi esteso l’immunità fino al 23 agosto 2023. Di fatto Arcelor Mittal può produrre in condizioni contrarie alle norme ambientali stabilite e non essere penalmente perseguita per questo.
Stesso discorso di ‘emergenza’ sta alla base della norma fanghi introdotta nel decreto Genova, e anche il precedente Sblocca Italia ha evocato l’urgenza a propria legittimità. Richiamare l’emergenza permette di silenziare la protesta dei territori, sia mediaticamente che legalmente.
Ritornando ai roghi di rifiuti, possiamo dire che la situazione ricorda quella degli anni Ottanta, quando di fronte agli incendi delle discariche e agli abbandoni selvaggi è partita una campagna mediatica a favore degli inceneritori? Di fatto oggi se n’è tornato a parlare, tra favorevoli e contrari.
La questione dei rifiuti investe il campo del sistema economico. Bisogna uscire dalla logica del profitto e considerare il rifiuto un bene da riciclare. La tecnologia lo permette. È il capitalismo che spinge in altra direzione.
1) Cfr. articoli vari pubblicati sui numeri precedenti di Paginauno, a firma di Enrico Duranti, leggibili nella categori “ambiente”
2) Come stabilito dall’art. 68 della legge 28 dicembre 2015 n. 221, Collegato Ambientale – Disposizioni in materia ambientale per promuovere misure green economy e per il contenimento dell’uso eccessivo di risorse naturali
3) Cfr. decreto n. 98/2016, art. 1 comma 4 lettera b, convertito in legge n. 151/2016, che ha modificato il precedente decreto n. 191/2015 convertito nella legge n.13/201