di Sabrina Campolongo |
Recensione di Un uomo a pezzi, Michael Thomas
“Un inesorabile ritmo interno”. Questa definizione del blues, coniata dal
protagonista-narratore di Un uomo a pezzi, sembra la più adatta a definire la prosa di Michael Thomas e il suo lungo romanzo-monologo-flusso di coscienza.
Un inesorabile ritmo interno, che si muove da un presente in equilibrio precario, affonda e accarezza un passato gonfio di dolore quanto di speranza, e sfiora, tremando, un futuro decisamente incerto.
Il protagonista è un uomo di colore, colto, insegnante e aspirante scrittore, rimasto solo e al verde in una nera New York ingorgata di traffico anche alla fine di agosto, nera di diffidenza, di polvere e di antiche mai sanate fratture, coperte dallo stucco di una multietnica, emancipata mentalità. Ospite di un amico avvocato bianco (che guadagna in un giorno quanto lui potrebbe guadagnare in un mese), ha ricevuto dall’amata moglie – WASP di Boston, al momento in vacanza dalla madre, che garbatamente ha sempre detestato quel genero nero e artistoide – l’incarico di “inventarsi qualcosa” per riprendere il treno delle opportunità vincenti. In sostanza, egli deve trovare qualche migliaio di dollari per la caparra di un nuovo appartamento – dal momento che hanno dovuto abbandonare il vecchio che non si potevano più permettere – e per pagare la rata della scuola privata dei figli, già scaduta.
La crisi, senza che ci siano svelati particolari eventi scatenanti, è stata dichiarata una mattina di primavera, la tavola della cucina ingombra di bollette, rate scolastiche, premi di un’assicurazione sulla vita stipulata in un momento in cui sembrava che il protagonista fosse destinato a guadagnare sempre di più, la lettera della proprietaria di casa con l’aumento dell’affitto, la testa tra le mani e la disposizione d’animo che, un conto dopo l’altro, passa “dal pragmatismo alla disperazione”.
Sembrerebbe che il reale costo di una vita borghese per una famiglia con tre figli piccoli sia stato sottovalutato, o forse sono stati sopravvalutati il talento del protagonista e la sua possibilità di ‘fare il salto’ (con un romanzo, per esempio, che ancora non ha trovato un editore), o semplicemente la benevolenza del destino.
L’uomo, scopriremo a circa metà del libro, si chiama Ismaele.
Un nome troppo particolare per essere una scelta casuale. Il legame con il celeberrimo romanzo di Melville ci viene confermato, se ce ne fosse bisogno, all’inizio dell’ottavo capitolo: “Come Achab io non dormo”.
Ismaele, dunque, colui che resta, ma anche il testimone, colui che può raccontare.
Raccontare la parabola di un “povero ragazzo nero di intelligenza superiore alla media e senza deformità fisiche” nato in America e che dell’America ha sperimentato quasi tutto quello che un uomo nero può sperimentare: “il bello e il brutto, soprattutto il brutto”.
Già, perché in una società in cui la misura del bene è diventata la possibilità o meno di potersi permettere il proprio standard di vita, Ismaele ha avuto il suo riconoscimento, grazie al fatto di avere sposato una donna bianca e grazie alla sua intelligenza superiore alla media, ma l’ha perduto: il lettore lo trova già, da ogni punto di vista, tra gli inadempienti.
Non ha mantenuto le promesse, ha perso la sua occasione, ha deluso le doppie aspirazioni del sogno americano e del sogno di un nero americano, il sogno bianco dei padri pellegrini della Mayflower e quello nero di Martin Luther King, il sogno di una madre che l’ha fatto studiare in una scuola giusta pagando con sudore e menzogne, il sogno di un professore che tiene la propria foto assieme a King sul muro del suo ufficio e che aveva “grandi progetti per lui”, i sogni alcolici condivisi con gli amici di gioventù, sbandati senza ritorno. E paradossalmente, lui che aveva ritrovato la retta via, ora rischia lo stesso di ritrovarsi con il sedere a terra quanto loro.
Se si era sentito l’eletto, in qualche momento, la “luce del mondo”, come lo definiva sua madre tra una sferzata di cinghia, un bacio e un bicchiere colmo di whisky, quella luce sa di averla perduta per strada.
Si chiede se ha subìto un danno irreparabile, forse nel bagno del campo estivo in cui è stato stuprato a sette anni, forse nel letto di una ragazza bianca di nome Sally che, anni dopo, non riuscirà a toccare, forse ogni volta che la polizia l’ha fermato per strada solo perché era nero, o forse il danno c’è sempre stato. Sa di fare parte della prima generazione nera che ha avuto una vera opportunità di mettere fuori il naso dal ghetto, di essere uno dei primi veri figli dell’integrazione, eppure il sogno gli è passato accanto e non è riuscito ad afferrarlo. Forse il problema è proprio nel sogno.
“Saremmo potuti essere definiti vincenti visto che siamo sfuggiti al nostro destino: lavori di fatica, mogli alcolizzate e violenze domestiche”. Forse il punto è che il sogno non era il suo, che la morale bianca non è la sua, nemmeno quella più emancipata, che quel noi di completi giacca e cravatta e di sottocompleti color kaki, quel noi ripartito nell’unica dicotomia adempienti- inadempienti, non è il suo. Forse non c’è un noi che racchiuda un ragazzo nero con sangue irlandese e apache nelle vene, con una moglie bianca e tre figli di tutti i colori. Forse lui sarà sempre il terzo escluso.
“È strano vivere la vita come se fosse un esperimento sociale”.
Questa sorta di refrain, che percorre tutto il romanzo, dà la misura del disorientamento non solo di Ismaele ma di tutta questa nuova generazione nera, integrata a parole, discriminata nei fatti, negli sguardi, nei toni, nelle intenzioni.
Una generazione che non trova forza da radici così lontane da sfiorare la mitopoietica, ma che allo stesso tempo non può ritrovarsi nei valori di una società per cui un ragazzino nero in una classe di bianchi costituisce materiale di studio per l’ora di educazione civica, quando non una garanzia vivente di avvenuta espiazione.
E allora, in quattro giorni febbrili, tra duro lavoro manuale, pasti saltati e incontri che lasciano il gusto amaro di un’ennesima occasione mancata, Ismaele-il testimone sogna di avere davvero una scelta che faccia la differenza.
“Scelgo di non essere desolato, di non essere un testimone”.
Ma l’invocazione rimane inascoltata, l’incantesimo non funziona. Quella che gli rimane è solo la scelta tra l’affondare o l’andare avanti, con l’antico spettro dell’alcolismo che ammicca al suo fianco, con le scadenze che stringono, con palmi desolati che si aprono e teste che si scuotono, in una generale, incurabile sembrerebbe, inadattabilità alla vita. Tutti i personaggi che intrecciano le proprie storie con quella di Ismaele appaiono infatti troppo intelligenti o troppo stupidi, troppo spaventati o troppo visionari, troppo deboli o troppo duri per stare al mondo, in quel mondo. Resta solo l’andare avanti. Non diritto, non da eletti, avanti.
Una sorta di quieto furore scorre tra le righe, punteggia le parole. Una rabbia palpabile che sembra lì per fare implodere il protagonista, una rabbia più grande di lui, sembrerebbe, atavica, la rabbia per un colossale tradimento.
La vita come esperimento sociale non è divertente. Non quando si allunga, come un’ombra scura, sopra il futuro dei tuoi figli. Non quando ti rendi conto di non fare parte di nessun insieme, che la tua gente non esiste, che la tua prospettiva più verosimile è una deriva solitaria. Che l’esperimento è destinato al fallimento e tu sei la cavia.
Osservando la realtà americana attraverso gli occhi di Ismaele, non ci si può che fare delle domande, non solo sulla reale possibilità di un’integrazione razziale, ma anche sul senso stesso del parlare di integrazione in un contesto che si muove verso il più completo ed edonistico individualismo. Esiste ancora un tessuto sociale in cui integrarsi?
Nell’America di Thomas, questo tessuto appare a brandelli. Un parallelo con la realtà italiana, indietro anni luce anche da quell’imperfetto concetto di integrazione, farebbe quasi ridere, se non fosse drammatico, se il livello di razzismo, di maschilismo, di omofobia nostrani non facessero impallidire quelli denunciati da Thomas nel suo romanzo. Forse per questo fa più impressione scoprire che, in un’America retta da un presidente afroamericano, in un’America in cui un nero può venire incluso nel noi dei bianchi, se se lo può permettere economicamente, la concentrazione di melanina nella sua pelle possa tornare subito a essere un problema, non appena quella possibilità venga meno; o forse non cessi mai, di essere un problema. Non quando guida un’auto di lusso (soprattutto se non sua, magari avuta in prestito da un amico), non di notte, quando corre da solo o quando bussa a una vetrina di un negozio aperto 24 ore su 24, non quando pubblica un libro o quando vuole affittare un appartamento e si vede chiedere un supplemento di garanzie.
Allo stesso tempo, nemmeno il noi dei ragazzini neri dei quartieri poveri, il noi delle bande e dell’hip hop include Ismaele. Non c’è noi per un nero di intelligenza e cultura superiore alla media, senza deformità fisiche, con una moglie bianca, un passato da alcolista, tre figli iscritti a un’ottima scuola privata, ma in ritardo quasi fatale con la retta del prossimo anno. Ovunque si cerchi, Ismaele è destinato a non trovarsi.
“E gli scrittori di colore, che ostentano la loro alterità, fingendo di essere fedeli a una presunta madrelingua o fingendo che il linguaggio dell’uomo bianco serva allo scopo –la verosimiglianza attraverso l’assimilazione”. E di questo si è sempre trattato, probabilmente.
Di essere assimilato, non certo integrato. Di fingere, di barare.
Non a caso, tutti i lavori duri e onesti nei quali Ismaele si impegna durante i suoi quattro giorni di improbabile riscatto, lo lasciano allo stesso punto di prima, tanto guadagna tanto gli viene in un modo o nell’altro sottratto.
I soldi per pagare la retta della scuola privata, li farà barando a golf con due bianchi ricchi; la lettera di referenze per ottenere un mediocre appartamento a New York nel quartiere giusto, la otterrà chiedendola allo sconsolato professore, cui la foto con Martin Luther King è stata rubata, e sarà ovviamente falsa – proprio come era falso l’indirizzo fornito anni prima da sua madre per consentire a lui di studiare nella scuola giusta.
Veri sono però i volti dei suoi figli, la stretta di sua moglie, vero il loro respiro all’interno della macchina che lo verrà a prendere alla fermata dell’autobus, veri i maldestri gesti di solidarietà raccolti lungo la via. Sul volto della figlia di Ismaele, ancora troppo piccola per capire se sarà più nera o più bianca, “la faccia cangiante dell’amore”, si chiude il romanzo. Un finale non tragico, un finale aperto. Forse a suggerire la speranza che il sogno potrebbe essere solo differito.
Un uomo a pezzi, Michael Thomas, Nutrimenti, 2010