Ultima di una serie di riforme bipartisan, la ministra Gelmini ha giusto prestato il nome a una legge che completa un percorso durato vent’anni, consegnando definitivamente a Confindustria l’azienda-università che il potere economico chiedeva a gran voce
Una riforma bipartisan
Il 6 dicembre scorso Repubblica rende noti i risultati di un sondaggio condotto da Demos & Pi che riguarda il parere degli italiani circa lo stato di salute della scuola pubblica (in particolare delle università), e circa le proteste contro la riforma Gelmini. I risultati non sono sorprendenti, anche se immaginiamo che i politici – di destra e di sinistra – debbano aver fatto un salto sulla sedia. Secondo il 69,2% degli intervistati, la scuola negli ultimi dieci anni è peggiorata, e peggiorerà ancora dopo la riforma Gelmini (50,6%); se ci si concentra sulla sola istruzione universitaria, i dati si modificano appena marginalmente: il 58,4% è convinto che sia peggiorata e il 49,8% ritiene che peggiorerà ulteriormente dopo la riforma.
La maggioranza degli italiani è dunque convinta che la scuola pubblica stia andando alla deriva, e che le contromisure pensate per invertire la tendenza siano nonsolo inefficaci, ma addirittura controproducenti: sono infatti favorevoli alle proteste il 55,3% dei cittadini. Eppure la riforma si farà perché, al contrario di quanto sostenuto negli ultimi giorni dalle opposizioni (Pd, Sel, Idv, Udc, Fli), che cavalcano il particolare momento politico (mentre scriviamo il governo è in crisi e la fiducia verrà votata la prossima settimana), questa non solo è una legge bipartisan per eccellenza, ma si colloca come conseguenza logica delle precedenti riforme anche ‘di sinistra’.
Fino a qualche mese fa, il senatore del Pd Mauro Ceruti, professore ordinario di Filosofia della scienza all’università di Bergamo (gli dobbiamo l’introduzione in Italia dell’epistemologia della complessità, se ne sentiva davvero l’esigenza), sosteneva su L’Unità (10 luglio 2010) che “i princìpi ispiratori alla base del progetto Gelmini sono condivisi dal Partito democratico così come dalle parti sociali, dalla Confindustria e dagli attori del mondo accademico”. Sul fatto che le organizzazioni che rappresentano le università fossero d’accordo c’era già allora qualche fondato dubbio, mentre è vero che Pd, Confindustria e alcuni attori del mondo accademico (i cosiddetti professori-opinionisti, ma soprattutto la Conferenza dei Rettori) vedevano di ottimo occhio la riforma. Francesco Giavazzi, ordinario di Economia politica alla Bocconi, elogia sul Corsera del 22 luglio 2010 il nuovo ruolo dell’Anvur (Agenzia nazionale per la valutazione delle università e della ricerca), come “il vero perno della riforma”; Fabio Mussi, ministro per l’Università e la Ricerca nel governo Prodi e membro del comitato scientifico di Sinistra ecologia e libertà, polemizza ricordando di aver voluto l’Anvur ben prima del ministro Gelmini.
Lo stesso giorno scrive sulle pagine di Repubblica Tito Boeri, ordinario in Bocconi come Giavazzi (ma di Economia del lavoro) e direttore della fondazione Rodolfo De Benedetti, lamentandosi del rischio che il peso degli esterni nei consigli di amministrazione delle università venga ridotto nelle successive stesure della riforma. Strano che agli esperti (economisti), scelti dai due maggiori quotidiani italiani, stiano a cuore l’Anvur e la composizione del consiglio di amministrazione, due tematiche di cui il ministro Gelmini non parla mai, tutta concentrata nella difesa della meritocrazia e nella lotta ai baroni, e su cui la sinistra non si azzarda a metter becco (se non per dichiararsi d’accordo). Anche le proteste delle parti in causa (studenti, ricercatori, professori) si concentrano sulla ormai endemica mancanza di fondi per l’università e sul tragico futuro dei precari. Sarà un caso?
Lo zampino di Confindustria
Siamo a Roma, il 21 marzo 2006. Le 18 organizzazioni che rappresentano l’intero tessuto economico-produttivo del Paese (piccola, media e grande industria; banche e assicurazioni; trasporti; artigianato; commercio; servizi; cooperative; servizi pubblici locali) esprimono per la prima volta una logica comune sul futuro dell’università italiana, considerata come “una nevralgica leva dello sviluppo e motore della conoscenza”, che “ha accumulato ritardi nella competizione internazionale, ma costituisce un capitale che può essere meglio messo a profitto, se si riduce la burocrazia e crescono l’efficienza e la concorrenza” (gira e rigira si finisce sempre lì, il capitale e il profitto). Le 18 associazioni sottoscrivono un documento articolato in tre parti: la prima è dedicata all’ambiente esterno all’università, che deve diventare più aperto e competitivo e deve prevedere maggiore concorrenza per i finanziamenti (attraverso un’autonomia responsabile; il progressivo superamento del valore legale dei titoli di studio, che andrebbe sostituito con un sistema europeo di accreditamento; un maggior numero di studenti e docenti stranieri per garantire l’apertura all’estero; l’adozione di un sistema rigido di valutazione delle università e di un più forte legame con l’impresa nella formazione e nello sviluppo della ricerca; e il collegamento dei finanziamenti pubblici ai risultati della sopracitata valutazione).
La seconda parte si sofferma sull’organizzazione universitaria, che deve essere modificata per poter competere più liberamente attraverso una riduzione del centralismo e una riforma della governance. La terza sottolinea infine la necessità di differenziare l’offerta formativa dopo il diploma (lauree di primo livello, corsi di formazione professionale superiore, lauree magistrali, master e dottorati). Parlando fuori dai denti, Confindustria e associazioni sorelle chiedono che il sistema dell’istruzione universitaria venga trasformato in un mercato, di modo che si crei un parallelismo virtuoso (dal loro punto di vista) fra mercato dell’istruzione e mercato del lavoro. Chiedono inoltre “provvedimenti concreti e tempestivi per mettere gli atenei italiani in grado di competere con le migliori università del mondo” (e le aziende italiane con le migliori del mondo, immaginiamo).
Una riforma, tante riforme
Nella logica che ciò che è bene per Confindustria lo è anche per l’Italia, logica che nessuno pare più interessato a mettere in discussione (forse perché parente stretta dell’assioma ‘crescita economica uguale sviluppo sociale’), nasce la riforma ‘Gelmini’ (le virgolette sono d’obbligo, perché la ministra bresciana è – come chiariremo – tutt’al più la testimonial della nuova legge).
Il progetto, presentato ambiziosamente dai partiti di governo come la prima vera riforma organica dell’università, è in realtà solo l’ultimo tassello (e probabilmente nemmeno quello definitivo), di un processo iniziato nel 1990 con la riforma Ruberti (legge 341/1990), che ha da un lato istituito l’“autonomia finanziaria e contabile” degli atenei, aprendo ai contributi privati e alle sponsorizzazioni l’accesso alle università pubbliche (giustificando così la diminuzione dei finanziamenti), e dall’altro ha riorganizzato gli orientamenti didattici, affiancando alla laurea la minilaurea e il dottorato di ricerca. È illuminante ripescare le dichiarazioni del ministro l’11 ottobre 1988, quando spiega a Repubblica le motivazioni della riforma ancora in fieri: «Il prodotto-laureato non è costruito a misura delle esigenze del mondo del lavoro, innanzitutto perché sforniamo un solo prodotto…». Già alla fine degli anni ’80 dunque, l’esigenza di nuovi profili (prodotti, sic!), a livelli di competenza differenziati, era acutamente sentita da una classe imprenditoriale che faticava (come oggi) a tenere il passo col resto d’Europa, e la politica tendeva la mano senza nemmeno chiedersi se davvero l’obiettivo della conoscenza fosse quello di essere strumentale alle esigenze del mercato.
Tanto è vero che la successiva riforma Berlinguer-Zecchino del 2000 si inserisce nella medesima scia: introduce i ‘crediti formativi’ per rendere più elastica la rigidità dell’organizzazione didattica (o almeno questo è lo scopo dichiarato), e riconosce livelli intermedi di formazione universitaria (dopo la laurea triennale di primo livello gli studenti possono scegliere se interrompere gli studi, proseguire con un master universitario di un anno, oppure accedere alla laurea specialistica biennale). Gli approfondimenti che gravavano sul corso di laurea tradizionale vengono dunque trasferiti a eventuali titoli successivi, eccezion fatta per pochi ordinamenti didattici speciali coordinati a livello europeo: medicina, veterinaria e architettura in particolare, per le quali invece i neomaturi si iscrivono direttamente a un corso di laurea specialistica di sei o cinque anni. Altra innovazione della riforma Berlinguer-Zecchino è l’inserimento del numero chiuso anche nelle facoltà per cui uno sbarramento all’ingresso non era tradizionalmente considerato necessario. La riforma introduce quindi i ‘debiti formativi’ e amplifica la funzione dell’orientamento, sia in fase di scelte didattiche che occupazionali, attraverso il meccanismo delle ‘preiscrizioni’ nell’ultimo anno delle superiori.
Gli studenti, nella visione del ministro, non sono più “passivi soggetti di imposta”, ma “parti di un accordo contrattuale” con gli istituti universitari: cioè non sono più considerati come individui che debbano apprendere conoscenze prefissate (perché ritenute indispensabili), ma come consumatori che, a seconda degli orientamenti del mercato del lavoro, possano e debbano contrattare con gli atenei i contenuti della propria formazione. Detto in altri termini, lo studente è un semilavorato che compra competenze specifiche con l’obiettivo di diventare la perfetta materia prima per l’uso aziendale. Altre finalità la formazione universitaria non sembra averne, e infatti con la riforma Berlinguer viene invertito per la prima volta il primato culturale delle materie umanistiche, non funzionali all’inserimento professionale, sulle materie tecnico-scientifiche. Ne seguì una polemica persa in partenza (che cosa potevano contrapporre i classicisti a uno stipendio assicurato?, o così si diceva…), e la vittoria dei tecnici sarebbe stata poi sancita da Romano Prodi, quando in un celebre confronto televisivo pre-elettorale con Berlusconi si meritò applausi scroscianti consigliando a tutti i maturandi di iscriversi a ingegneria.
Ma anche la riforma Berlinguer avrà vita breve. Nel 2005 viene infatti sostituita dalla riforma Moratti. Oltre al riassetto di tutto l’ordinamento, dalla scuola materna al liceo (attuato due anni prima con la legge53/2003), il ministro modifica nuovamente la didattica universitaria e l’organizzazione degli atenei: dopo il diploma di maturità ci si potrà iscrivere all’università (sempre nella formula 3+2), oppure optare per l’Istruzione e Formazione Tecnica Superiore (IFTS). La finalità dei corsi IFTS è quella di formare “tecnici, professionisti d’azienda, operatori qualificati, rapidamente inseribili nelle imprese, nelle pubbliche amministrazioni, nelle professioni, attraverso un sistema formativo in linea con gli standard europei”. L’organizzazione dei corsi è basata sulla concertazione tra quattro attori (la scuola, la formazione professionale, l’università, l’azienda), e prevede la progettazione di stage che coprano un arco di tempo non inferiore al 30% della durata complessiva dei corsi (da 1.200 a 2.400 ore). Gli IFTS non sono legati alle tradizionali scansioni temporali dell’anno scolastico o accademico, ma sono programmati da ciascuna regione sulla base del fabbisogno locale. Ogni esperienza formativa è certificata in crediti, che possono essere usati sia nell’ambito di altri percorsi di formazione (nel sistema universitario e in quello della formazione professionale), sia nel mondo del lavoro.
Oltre alla didattica, Letizia Moratti si preoccupa anche di metter mano all’organizzazione degli atenei: per essere assunti come professori o ricercatori, invece dei tradizionali concorsi banditi dalle università, che hanno dato luogo a eccessivo localismo, insufficiente selettività e, talora, dubbi di trasparenza (clientelismo, nepotismo, baronie), viene introdotta una idoneità nazionale sulla base di “trasparenti procedure di valutazione comparativa”; nasce la nuova figura di ricercatore a tempo determinato, che dovrebbe assicurare “la necessaria formazione di professionalità elevate, sia per l’accesso alla docenza universitaria, sia per le esigenze del sistema produttivo e degli enti di ricerca”; sempre per favorire “un maggiore raccordo con il mondo produttivo”, vengono istituite le cattedre convenzionate e le convenzioni di ricerca, che potranno prevedere compensi aggiuntivi a favore dei professori che vi partecipano.
La riforma provoca feroci proteste a tutti i livelli dellascuola (taglia i fondi e indebolisce la scuola pubblica a tutto vantaggio di quella privata, si dice), ma le opinioni dell’opposizione politica sono molto più sfumate. L’8 marzo 2004, in un articolo in prima pagina, il quotidiano Il Riformista sostiene che la scuola ridisegnata da Letizia Moratti “potrebbe anche non funzionare”, ma che va riconosciuto al contestato ministro il merito di tentare strade nuove e di aver provocato un dibattito serio su questioni di fondo: i limiti dello statalismo, la flessibilizzazione dell’offerta formativa in funzione della domanda, la personalizzazione dei curricula. “Se la Moratti ci mette tutti di fronte a temi di questa portata, vuol dire che è un buon ministro”, sostiene il corsivista del quotidiano. Per l’opposizione resta valido dunque non solo il concetto che quello dell’istruzione è un mercato funzionale a quello dell’occupazione, ma addirittura che l’intervento dello Stato nella formazione (cioè il fondamento della scuola pubblica) non sia necessariamente un bene.
Anche la riforma Moratti avrà tuttavia vita breve: il 16 marzo 2007 Mussi emana i nuovi decreti sulla riforma universitaria, che dovranno essere adottati entro il 2010. Il nuovo ministro ci tiene a precisare che non si tratta di una rivoluzione, tutt’al più di un ‘aggiustamento’, e dà infatti vita al sogno morattiano di sostituire il 3+2 con il cosiddetto ‘modello a Y’ dei Paesi anglosassoni, fortemente sostenuto dalla Conferenza dei Rettori. Per ogni corso di laurea sarà prevista una base comune (un anno e 60 crediti) e poi una separazione: il percorso professionalizzante, che conduce alla laurea triennale (1+2 anni, 60+120 crediti) e il percorso metodologico che prepara al biennio successivo e porta fino al quinto anno con la laurea magistrale (1+2+2 anni, 60+120+120 crediti).
Per giungere alla laurea triennale non devono essere necessari più di 20 esami (invece di 30 e oltre), e non più di 12 per ottenere quella magistrale; il fenomeno di ‘laureare l’esperienza’, introdotto con la riforma Moratti, viene arginato con un tetto al riconoscimento delle esperienze di formazione pregressa, fissato a 60 crediti per le lauree triennali, 40 per le magistrali. Per porre un freno alla proliferazione dei corsi di laurea, che all’epoca erano circa 5.400, la riforma stabilì che non avrebbero più potuto essere istituiti corsi di laurea nella stessa classe se le attività formative non si fossero differenziate di almeno 40 crediti per la triennale e 30 per la magistrale; per entrare nei nuovi ordinamenti, i corsi avrebbero infine dovuto garantire che almeno la metà degli insegnamenti, 90 su 180 crediti complessivi, fossero tenuti da professori di ruolo (i cosiddetti “requisiti minimi di docenza”).
La riforma ‘Gelmini’
Siamo nel 2010, e la riforma Mussi non fa quasi in tempo a essere applicata che viene tempestivamente superata (ma sarebbe meglio dire integrata), dalla riforma Gelmini. La legge si articola in tre titoli: il primo riguarda l’organizzazione del sistema universitario; il secondo le norme e la delega amministrativa in materia di qualità ed efficienza del sistema universitario; il terzo le norme in materia di personale accademico e il riordino della disciplina concernente il reclutamento.
La prima cosa che salta agli occhi senza neppure aver bisogno di scorrere il testo è il taglio (e il linguaggio), aziendalistico: organizzazione, amministrazione, qualità, efficienza, personale accademico. La trasformazione dell’università in impresa, durata vent’anni, si è dunque compiuta.
Ora è necessario dotarla degli organismi e delle regole di funzionamento che disciplinano la vita aziendale. E infatti la legge si concentra immediatamente sulla riforma della governance, in particolare sulla creazione di un consiglio di amministrazione plenipotenziario e aperto al settore privato (titolo I, art. 2.2.f e 2.2.g): “Si attribuiscono al consiglio di amministrazione le funzioni di indirizzo strategico, di approvazione della programmazione finanziaria annuale e triennale e del personale, nonché di vigilanza sulla sostenibilità finanziaria delle attività; della competenza a deliberare l’attivazione e la soppressione di corsi e sedi; della competenza ad adottare il regolamento di amministrazione e contabilità, il bilancio di previsione annuale e triennale e il conto consuntivo […] nonché, su proposta del rettore e previo parere del Senato accademico per gli aspetti di sua competenza, il documento di programmazione strategica”. Sarà il cda d’ora in avanti (come è logico che sia, visto che stiamo parlando di un’impresa) a stabilire la strategia dell’università, e in primo luogo la definizione del prodotto (le facoltà e i corsi), che si ritengono più interessanti per il mercato; il Senato accademico è relegato al ruolo di consulente per la didattica, senza nessun potere reale. Viene da chiedersi a che pro mantenerlo, se non per evitare indesiderate rimostranze ‘baronali’.
Per quanto riguarda la composizione del cda, essa è fissata “nel numero massimo di undici componenti, inclusi il rettore componente di diritto e una rappresentanza elettiva degli studenti; designazione o scelta degli altri componenti […] tra personalità italiane o straniere di comprovata esperienza in campo gestionale e di un’esperienza professionale di alto livello; non appartenenza di almeno il 40% dei consiglieri ai ruoli dell’ateneo a decorrere dai tre anni precedenti la designazione e per tutta la durata dell’incarico; elezione del presidente del consiglio di amministrazione tra i componenti dello stesso […]”. Nessun accademico in consiglio, per carità: che ne sanno professori e ricercatori di quel che serve per far funzionare l’università come si deve? Da oggi solo manager di alto profilo, di cui almeno il 40% reclutati all’esterno (ma anche gli altri, ci immaginiamo, a meno che nonsiano professori di economia: che esperienza gestionale potrebbe avere un matematico o un filosofo?).
E qui si pone un grosso problema. Nelle università private, che ovviamente si sono date governance di questo tipo ben prima della riforma Gelmini, gli statuti specificano anche in quali organismi debbano esserne scelti i componenti esterni. Nel caso esemplare della Bocconi, il cda è composto da 19 membri in carica per un quadriennio e i consiglieri esterni sono otto: un rappresentante del ministero dell’Università, uno della regione Lombardia, uno della provincia di Milano, uno del comune di Milano, un rappresentante della fondazione Cariplo e tre della Camera di commercio di Milano. In questo modo l’università (o meglio, la proprietà dell’università) chiarisce chi siano i propri partner strategici. Una trasparenza dovuta, perché i consiglieri esterni partecipano a tutte le decisione chiave della vita accademica. Con la legge Gelmini, viene invece garantita alle università pubbliche la più assoluta opacità: da dove verranno i membri esterni? Saranno politici? Imprenditori? Mogli dei rettori? Puri prestanome? Non è dato saperlo, ma visto quanto e come vengono rispettate le istituzioni nel nostro Paese, è lecito immaginarsi il peggio.
Oltre al nuovo assetto del consiglio di amministrazione, per perfezionare la governance dell’università-impresa la legge si preoccupa anche di sostituire la figura del direttore amministrativo con quella del direttore generale (titolo I, art. 2.2.i), “da scegliere fra personalità di elevata qualificazione professionale e comprovata esperienza pluriennale con funzioni dirigenziali”, senza nessuna necessità di una precedente esperienza in istituzioni scolastiche. Potrebbe provenire dal settore dell’arredamento, da un’acciaieria, da un ospedale, addirittura da una banca; a lui sarà attribuita “la complessiva gestione e organizzazione dei servizi, delle risorse strumentali e del personale tecnico-amministrativo dell’ateneo”, e parteciperà, senza diritto di voto, alle sedute del cda.
Inoltre, d’ora in avanti le università potranno federarsi o fondersi (titolo I, art. 3.1), “al fine di migliorare la qualità, l’efficienza e l’efficacia dell’attività didattica, di ricerca e gestionale, di razionalizzare la distribuzione delle sedi universitarie e ottimizzare l’utilizzazione delle strutture e della risorse”. Assisteremo dunque a fenomeni di concentrazione anche nel mercato universitario, e non sfugge a nessuno che questi fenomeni comportino necessariamente tagli al personale (perché questo significa ottimizzare le risorse). Non solo: il governo è delegato ad adottare, “senza maggiori oneri per la finanza pubblica” (il ritornello della nuova legge), decreti legislativi per introdurre “meccanismi premiali nella distribuzione delle risorse pubbliche”, mediante un sistema di accreditamento periodico delle università, e “meccanismi di commissariamento in caso di dissesto finanziario degli stessi” (titolo 2, art. 5.1). Come ogni azienda che si rispetti, anche le università potranno fallire. Ma chi sarà a decidere quali atenei saranno promossi all’esame per i finanziamenti pubblici? La fantomatica Anvur tanto cara al professor Giavazzi e al suo creatore, il senatore Mussi.
L’Anvur è un ente pubblico vigilato dal ministero e costituito nel 2006 dal governo Prodi per “sovraintendere al sistema pubblico nazionale di valutazione della qualità delle università e degli enti di ricerca”. È composto da un consiglio direttivo che elegge il presidente, determina gli indirizzi della gestione dell’Agenzia e i criteri di valutazione, predispone il programma di attività, approva i bilanci e i rapporti di valutazione; ne fanno parte sette membri, anche stranieri, “di alta qualificazione ed esperienzanel campo dell’istruzione superiore e delle ricerca”, nominati con decreto del presidente della Repubblica, su proposta del ministro dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca, sentite le commissioni parlamentari; ai fini della proposta, il ministro in carica sceglie fra una rosa di candidati, in numero compreso fra 10 e 15, indicati da un comitato di selezione composto da cinque membri designati, uno ciascuno, dal ministro stesso, dal segretario generale dell’Ocse (Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico), e dai presidenti dell’Accademia dei Lincei, dell’European Research Council e del Consiglio nazionale degli studenti universitari.
Le valutazioni dell’Anvur, fino a oggi solamente indicative, diventeranno quindi operative, e decideranno di fatto quali atenei potranno accedere ai finanziamenti pubblici e quali dovranno ricorrere al settore privato (cioè privatizzarsi), oppure scomparire. Visti i chiari di luna del bilancio statale e la continua diminuzione dei fondi disponibili, immaginiamo che saranno sempre meno le università, anche di alto profilo, che potranno accedere ai finanziamenti pubblici, o in alternativa che la loro quota di finanziamento pubblico sarà sempre più esigua: la legge infatti non chiarisce (ahimè), il metodo di distribuzione delle risorse fra gli istituti promossi dall’Anvur: in modo proporzionale al ranking? Oppure con identiche quote? E quanti saranno gli atenei presi in considerazione? I primi dieci, cento, mille? Mistero. Ma il risultato sarà che le università italiane, oltre a dover aumentare le rette, dovranno competere le une contro le altre per ottenere sempre più denaro dalle imprese, e di conseguenza dovranno sottostare alle loro richieste di indirizzo strategico (ecco il mercato concorrenziale tanto auspicato da Confindustria & C).
Ma non è questa l’unica grande concessione al sistema privato: per ‘tutelare’ il diritto allo studio, viene istituito presso il ministero dell’Economia e delle Finanze un fondo speciale per il merito, “finalizzato a promuovere l’eccellenza fra gli studenti mediante prove nazionali standard” (titolo II, art. 4.1), destinato a erogare borse di studio, buoni studio che prevedano una quota da restituire una volta laureati (variabile sulla base dei risultati raggiunti) e (novità all’americana) prestiti d’onore, il cui ammontare andrà interamente rimborsato al termine del percorso accademico secondo modalità che la legge lascia indeterminate. E non sarà lo Stato ad alimentare il fondo, come svela l’art. 6: “Il fondo speciale è alimentato con versamenti effettuati a titolo spontaneo e solidale effettuati da privati, società, enti e fondazioni, anche vincolati, nel rispetto delle finalità del fondo, a specifici usi, nonché con eventuali trasferimenti pubblici previsti da specifiche disposizioni”. Quindi le imprese potranno scegliere se e quanto finanziare gli studenti meritevoli e quali percorsi di studio privilegiare, mentre le finanze pubbliche interverranno con “eventuali trasferimenti” (eventuali?), e solo in via residuale.
Considerazioni finali
I desiderata di Confindustria, nell’esplicita definizione del 2006, riguardavano l’aumento della competitività dell’ambiente universitario attraverso l’incremento dell’autonomia statutaria, come è stato stabilito dalla legge Ruberti e perfezionato dalla legge Gelmini; una maggiore concorrenza per i finanziamenti, ottenuto con la legge Gelmini; la valutazione dell’apprendimento basata sui crediti formativi, conquistata con la legge Berlinguer-Zecchino, la legge Moratti, e la legge Mussi; un maggior numero di studenti e docenti stranieri, voluto dalla legge Moratti e dalla legge Gelmini; l’adozione di un sistema rigido di valutazione delle università, trasformato in norma dalla legge Moratti, dalla legge Mussi e dalla legge Gelmini; il collegamento dei finanziamenti pubblici ai risultati della valutazione, come ha garantito la legge Gelmini; la creazione di un più forte legame con l’impresa nella formazione e nello sviluppo della ricerca, cui hanno contribuito la legge Ruberti, la legge Berlinguer-Zecchino, la legge Moratti, e la legge Gelmini. Il mondo imprenditoriale italiano riteneva poi necessaria una riduzione del centralismo e una riforma della governance, puntualmente realizzate dalla legge Gelmini, e la necessità di differenziare l’offerta formativa dopo il diploma, recepita dalle riforme Ruberti, Berlinguer-Zecchino, Moratti, Mussi e Gelmini.
Tutte le modifiche pretese dalle associazioni imprenditoriali sono divenute dunque legge dello Stato. Manca solo il superamento del valore legale del titolo di studio, affinché sia il mercato a stabilire liberamente quali titoli siano da ritenere validi e quali carta straccia. Ma di questo, ne siamo certi, si occuperà la prossima riforma.