Il rapporto del Pd con il pensiero di destra: ambiguità, complicità e impotenza ideologica
La debole politica di contrasto adottata dal Pd contro il pacchetto sicurezza che sancisce l’istituzione delle ronde e del reato di clandestinità, è l’ulteriore dimostrazione dell’inerzia politica dei suoi dirigenti. Un’impotenza che non può più essere attribuita solamente al grave scompenso elettorale creato dal bipolarismo; il problema è assai più grave e va individuato nel vuoto ideologico determinato da precise scelte politiche adottate dagli eredi del Pci dopo la caduta dell’impero sovietico e della prima Repubblica.
Trascorsi quasi vent’anni da quei giorni e visto il lento dissolvimento elettorale in atto, è giunta l’ora che quegli stessi dirigenti tirino le fila del discorso per concludere che, così com’è oggi, il loro Pd, non funziona; e che non funziona perché non può funzionare.
Parlano tanto di innesti giovanili, di nuove forze, di rinnovamento e di molto altro – dopo aver cambiato nome e fuso partiti – senza pensare di confrontarsi con l’essenza politica di un ex grande partito, oggi ridotto a una larva. Le stesse tanto decantate primarie, elevate a emblema di democrazia interna – da contrapporre a quel onemanshow che è il Pdl – portatrici della promessa di consegnare con il voto popolare una leadership credibile, sono una facciata, buona per nascondere i ben più gravi problemi di identità. Una pantomima che raggiunge il solo risultato di proporre agli italiani la devastante rappresentazione del gattopardesco trasformismo parlamentare, mascherato con parole quali riformismo e progressismo.
L’impostura che nasconde lo smantellamento della sinistra come forza di opposizione, appoggia sull’idea che politica e valori, con il passare del tempo, fatalmente finiscano per scadere. Un po’ come accade ai medicinali. Il che naturalmente è falso. Il capitalismo, per esempio, non è mai cambiato nella sostanza; semmai ha modificato le forme del dominio; sicuramente ha rinnovato i mezzi per mantenere immutate le proprie logiche di sfruttamento e renderle meno visibili, ma non per questo è diventato meno spietato. Un partito di sinistra onesto non avrebbe dovuto fare altro che limitarsi a prendere coscienza di tali cambiamenti formali per riclassificare contro di essi le proprie contromosse. Al contrario, il riformismo di cui il Pd si dice campione, si è rivelato solamente un trucco per cambiare casacca e carpire la fiducia di un elettorato smarrito, continuando a spacciare – proprio come fanno destra e Chiesa – l’omologazione culturale della società (consumismo e apoliticità) per assenza del conflitto di classe. Tant’è che da un po’ di tempo i dirigenti del Pd hanno smesso di parlare del proprio come di un partito ‘di sinistra’, adottando un aggettivo più duttile come ‘progressista’, in grado di comprendere mille anime diverse.
C’è poco riformismo in questo rimescolamento di carte; è più corretto, semmai, parlare di un processo di autoriformismo con il quale la ‘nuova’ sinistra ha abbandonato i lavoratori, abbracciato il neoliberismo e rinunciato alla critica marxista del capitalismo. Una muta che può anche essere interpretata, cambiando la prospettiva, come l’ennesimo cambio di pelle da parte dei capitalisti italiani, oltre che come la sanzione di un patto avvenuto tra la forza economico-finanziaria e quella politica. Un accordo concretizzatosi nella consegna chiavi in mano del Parlamento a industriali, professionisti e banchieri, in cambio della possibilità per la ‘nuova’ sinistra di salire al governo, secondo la logica di una fittizia alternanza parlamentare. Tali scelte si sono innestate in quel determinato momento storico – Tangentopoli seguita al 1989 – in cui al Potere occorreva ‘ripulire’ la politica, applicandole un calibrato restyling democratico che si adattasse alle rinnovate esigenze economiche. Il risultato è la costituzione di due partiti principali, entrambi in grado di governare gli interessi della classe dirigente, ma impossibilitati, per mancanza di argomenti, a costruire una reciproca opposizione credibile che non siano la diffamazione o l’insulto personale.
Niente di strano, dati simili presupposti, che la sopravvivenza politica della ‘nuova’ sinistra abbia finito per legarsi a doppio filo alla presenza di una figura come Silvio Berlusconi. Rivale ideale cui appoggiarsi per costruire la finta opposizione e così nascondere lo svuotamento ideologico. Senza di lui, e con un normale partito conservatore come avversario, sarebbe stato difficile inventare qualcosa che la rendesse credibile di fronte a un elettorato per buona parte cresciuto sotto il più forte partito comunista d’Occidente. Sarebbe sparita, proprio come sta accadendo alla ‘nuova’ sinistra francese, inglese e del resto d’Europa. E se oggi è ancora lì che veleggia nel panorama politico italiano con un abbondante 25% in cascina deve ringraziare colui che può additare come il mostro, il parvenue della politica in cui è incarnato un micidiale conflitto d’interessi e perennemente impegnato a giustificare il proprio passato di affarista di fronte ai giudici. Costringendo il popolo di sinistra, vittima di un beffardo contrappasso, dopo avere ingoiato cinquant’anni di Dc, a turarsi il naso e a votare per il meno peggio. Aveva provato Veltroni a sganciarsi dall’antiberlusconismo e si è visto com’è finita.
In un siffatto quadro politico, anche l’inserimento di nuove leve come Serracchiani e Civati, brave a raccogliere amicizie su Facebook, è l’ennesima cortina fumogena finto progressista impostata su giovani formati successivamente a questo patto; incapaci, per conformismo mentale, di pensare a una sinistra costruita in difesa dei diritti dei lavoratori, contrapposta in modo radicale alla voracità e alla potenza distruttiva delle dinamiche capitalistiche.
Gli argomenti adottati dal Pd nella discussione della scorsa estate sulla legittimità delle ronde e del reato di clandestinità, sono peculiari di questa rinuncia. Per questo possono venire assunti a esempio generale e indicati come risultante di quanto detto sopra.
Impossibilitati a contrastare l’argomento delle ronde con il vecchio bagaglio culturale, gli uomini del Pd si sono ritrovati costretti a opporre al pacchetto sicurezza categorie etiche e giuridiche, limitandosi a confutare Maroni agitando il dubbio che gruppi di privati cittadini potessero andare a caccia di delinquenti in un quadro di legalità e a denunciare l’anima razzista della proposta di legge.
Esemplificativo dell’ambiguità di un Pd imprigionato tra la necessità di apparire ancora un po’ di sinistra agli occhi del proprio elettorato e contemporaneamente negarlo nei fatti, è il giusto timore con cui esso ha ipotizzato il pericolo di una politicizzazione delle ronde, laddove politicizzazione traduce in politichese: ‘autorizzazione a esercitare per legge atti di violenza di matrice classista’. Ricordando, nell’ansia di dire e non dire, che in una democrazia borghese che si rispetti, la violenza deve venire insufflata nella società per inerzia attraverso vettori istituzionali: con le leggi, i protocolli sul welfare e, in sottotraccia, nei vari decreti sicurezza, per creare un determinato sistema di produzione, e badando bene che le cause del disagio prodotto da tutto ciò non possano venire ricondotte al complesso degli interessi politici ed economici. A cosa servirebbe sennò un Parlamento! Va da sé che una legge che trasformi detta violenza inerte in risse da strada, mostrando una sospetta commistione tra classismo e democrazia, rischierebbe di svelare il giochino. È questo il motivo per cui un tempo, a sinistra, denunciavano la natura di classe dell’impianto giuridico eretto in difesa degli interessi economici di industriali, banchieri e finanzieri. Per cui a voler anche dar per vero che il problema della sicurezza non sia né di destra né di sinistra, è sicuramente vero che di destra o di sinistra è l’approccio con cui lo si affronta. In piena coerenza con quanto detto delle leggi, il medesimo ragionamento può essere applicato ai valori e alla teoria della politica capitalista, di cui il razzismo, come la Storia mostra ampiamente, è un necessario artificio culturale.
Quando fiorisce sulla bocca di un politico, il razzismo risponde sempre a una logica progressiva. Occorre aspettare che, una volta divenuto trama e narrazione della piccola e media borghesia, si trasformi in legge per comprendere quali interessi economici miri a preservare. Come l’uso dell’antipolitica (1), anche il razzismo è una strategia che produce molti frutti e la sua affermazione è la cartina di tornasole dello stato di debolezza ideologica a cui si è abbandonata la sinistra. Un tempo, di fronte al razzismo avrebbe parlato di funzione sovrastrutturale. Ovvero, di quel brodo culturale creato da un utilizzo massiccio dei massmedia per nascondere, dietro un’ideologia fittizia, determinati interessi economici. È la vecchia storia sempre vera della classe dominante che, detenendo i mezzi di produzione, è costretta a infiorettare con belle parole l’illegittimità dell’indebita appropriazione con cui alimenta la propria ricchezza.
C’era una certa forza in queste teorie: non a caso per almeno un quarantennio hanno fornito a scrittori, critici, politici, pensatori e a buona parte della società civile, una solida chiave di lettura del mondo, tanto da portare il vecchio Pci a un passo dal diventare partito di maggioranza. Altri tempi, sicuramente: Berlinguer stesso sapeva che mai sarebbe stato concesso a un partito comunista occidentale di governare, ma è altresì probabile che proprio grazie a tale certezza il Pci poteva esercitare con una certa sincerità il proprio ruolo di oppositore tout court, non solo della Dc, bensì dell’intero impianto capitalistico. Mai avrebbe spinto alla rivoluzione, tuttavia la sua analisi del capitalismo e la sua politica di opposizione denunciavano l’anima violenta del sistema di produzione.
Senza una proposta alternativa di società e con programmi elettorali di governo simili a quelli del centro-destra, il Pd si ritrova oggi a recitare il ruolo di sbiadito doppione del rivale, con l’unica differenza, autoreferenziale, di considerarsi depositario (per via di quella stessa eredità che nei fatti rinnega) di una modalità politica più buona, più seria, più onesta, in contrasto con la brutalità e la cattiveria degli avversari.
Dell’onestà ostentata diranno le numerose inchieste della magistratura sulla corruzione imperante nelle giunte in mano al centro-sinistra. Una deriva morale che non può e non deve sorprendere: un patto con le forze economiche appartenenti a un capitalismo chiuso e oligopolistico come quello italiano, non può che includere la collusione con un sistema corrotto.
In quanto all’essere ‘più buoni’, il Pd si ritrova, per un curioso gioco del destino, ad adottare come se fosse propria la dottrina espressa dal Vaticano in tutte le encicliche sociali (2). Inevitabile: privo com’è ormai di una critica economica agli interessi del capitale, impegnato a smorzare ogni istanza conflittuale da parte dei lavoratori – incentivando un’alleanza tra sindacati e ad affermare (fino a sfiorare il ridicolo) che gli attuali interessi dei lavoratori sono i medesimi dei padroni. Finendo così per essere anche in campo etico lo sbiadito doppione di qualcun altro; in questo caso di un’istituzione da secoli preposta, a parole, alla fustigazione dell’avidità e della cupidigia e che in più gode dell’indiscutibile vantaggio di rifarsi a due cavalli decisamente vincenti. Cristo e Dio sono sicuramente riferimenti morali più credibili di Bettino Craxi (3). E proprio come la Chiesa, il Pd oggi si ritrova a difendere strenuamente solidi dogmi del capitalismo quali la piccola proprietà privata e la proprietà privata dei mezzi di produzione, e per questo a negare la mercificazione dell’uomo costretto a svendere la propria forza lavoro.
Proprio per tali presupposti, gli argomenti contro il pacchetto sicurezza contenevano il difetto di restare alla superficie del problema. E non può essere diversamente. Come emerge con evidenza ogni qualvolta è costretto a contrastare il razzismo della Lega nord – la violenza del suo linguaggio, e il consenso che razzismo e violenza incontrano tra la piccola borghesia –mostrandolo come un disvalore, contrario alla decenza umana. Fingendo così che la posta in gioco sia una questione etica e morale e non la difesa, retorica, di quello che da secoli viene considerato il valore universale, il sacro dogma del capitalismo, e cioè la proprietà privata. Sia quella del cittadino comune – ovvero la sacra casetta in mezzo ai pini – sia quella dei mezzi di produzione – ergo: la fabbrica, l’azienda, l’industria. Difficile colpire la violenta difesa della proprietà privata mossa dalla Lega nord, senza contemporaneamente colpire il comune sentimento sociale che pone la proprietà privata e la sua difesa in testa a ogni altro principio. Oltre a questo, implicite nella questione sono le due cose che il Pd non può denunciare, a patto che non voglia dare contro a Confindustria e ai ‘capitani coraggiosi’ che tengono per lo scroto la politica italiana. E cioè:
1) che la paura da parte di chi ha tutto nei confronti di chi ha niente ha trovato la sua soddisfazione nell’istituzione delle ronde, e si è trasformata in razzismo dopo anni di campagne mediatiche contro lo straniero… e,
2) che questo dai e dai ha permesso di promulgare la legge Bossi-Fini, la cui funzione consente di ricattare e sfruttare all’inverosimile il lavoratore straniero; alla quale oggi, con l’esplosione della crisi, fa seguito la promulgazione del reato di clandestinità, con cui lo Stato può espellere la mano d’opera divenuta eccedente, prima che si trasformi in delinquenza comune.
Una lampante dimostrazione del continuo confronto dialettico con cui viaggiano la sovrastruttura culturale (il richiamo al razzismo) e la struttura economica che di tale rapporto è il beneficiario ultimo (la regolamentazione del mercato del lavoro).
Costruire un’opposizione denunciando tale logica per quello che è, anche se sarebbe tuttora possibile per una forza di opposizione onesta, equivarrebbe a mettere in crisi la cellula costitutiva di un sistema che produce diseguaglianza sociale, che trasforma il lavoratore in una merce sottopagata, che rende l’uomo un delinquente nella povertà e un criminale su larga scala nella ricchezza. Ma significherebbe altresì chiamare il governo, quale sia il suo colore, a rendere conto delle proprie azioni, e con esso chiamare in causa gli interessi di chi finanzia l’intero sistema politico. Cosa che il Pd non vuole e non può fare, perché ne andrebbe del suo rapporto con i poteri forti dell’economia e, di conseguenza, della sua stessa esistenza. Per non perdere tutto questo, preferisce andare a picco. Una scelta di sicuro politicamente poco lungimirante, ma che garantisce, qui e ora, ai suoi attuali dirigenti sopravvivenza e congrui privilegi, lasciando la patente da idiota a quei giovani emergenti che credono veramente in una funzione sociale del mercato.
Piaccia o non piaccia, una vera riflessione sul futuro della sinistra non può che passare per un recupero della vecchia utopia e per la proposta di una società diversa. Anche perché, se mai è esistito un momento adatto per attaccare il sistema, quel momento sembra essere arrivato, adesso che la crisi economica sta mandando a spasso migliaia di lavoratori, mentre nel contempo abbatte le certezze di piccoli artigiani e commercianti.
In caso contrario, il Pd potrà anche andare al governo, ma si tratterà comunque di una vittoria di apparati, di altri comitati di affari e di politici che a sinistra non hanno nemmeno il cuore. Non certo della società civile.
(1) La politica dell’antipolitica di Walter G. Pozzi, PaginaUno n. 5/2007
(2) La legittimata opposizione della Chiesa cattolica romana di Walter G. Pozzi, PaginaUno n. 13/2009
(3) Veltroni elogia Craxi: grande interprete delle novità, il Manifesto 15 luglio 2009