La sinistra e l’Unione europea, storia di una resa: dalla netta opposizione all’impianto liberista dei trattati istitutivi al definitivo ripudio della propria cultura politica; oggi, che fare?
Quando i toni della propaganda sfiorano, anzi invadono, il campo del ridicolo, ricordando quelli del Cinegiornale Luce – al punto da domandarsi chi possa crederci, se il popolo sia davvero così bue o se lo creda tale solo la classe dirigente – significa che c’è un problema. Talmente serio da far venir meno la consueta sicurezza e lasciar trasparire una insolita coda di paglia: “Informare, non influenzare” recita la scritta finale degli spot Rai sull’Europa in onda da aprile scorso. La costruzione stessa dei ‘video promozionali’, l’abbondanza di enfasi, i simboli e i valori richiamati, danno la misura di quanto sia temuto il dissenso dei cittadini verso la Ue – non perché abbia un potere effettivo, ma perché sapientemente cavalcato da alcuni partiti per ottenere voti alle ultime elezioni europee.
C’è dunque bisogno di agire sull’immaginario collettivo, costruire un mito, una narrazione epica dell’Unione, aspetto fino a oggi trascurato dalla classe dominante. Si può dire che se finora l’approccio comunicativo della propaganda europea è stato ‘freddo’ – principalmente argomenti economici, volti a sottolineare razionalmente la convenienza, e l’ineluttabilità, di una Ue – ora è divenuto ‘caldo’, con temi che puntano alla sfera emotiva e irrazionale: gli spot evocano i milioni di morti delle due guerre mondiali e legano la nascita dell’Unione a “sessant’anni di prosperità e democrazia ma soprattutto di pace”; richiamano la creazione della Ceca, affermando che “non è nata per ragioni economiche ma per mettere in comune le materie prime degli armamenti e rendere materialmente impossibile un’altra guerra”; citano “l’inno che parla di gioia” e celebrano “l’idea straordinaria di due giovani antifascisti al confino nata sulla piccola isola di Ventotene”. D’altra parte la recessione, la disoccupazione, la troika, la politica neoliberista che sta smantellando il welfare e abbassando il livello della qualità di vita dei cittadini, rendono impossibile utilizzare un messaggio razionale di tipo economico rappresentandolo ancora in termini positivi.
Una cosa è certa: una riflessione seria sull’Unione europea, sul continuare a farne parte o meno, va fatta. E non può che prendere avvio da un percorso storico, quella storia che sempre la propaganda seleziona, omette e riscrive.
In una rapida cronistoria, nel marzo 1946 viene ufficialmente dichiarata la guerra fredda, con il discorso di Churchill a Fulton, e un anno dopo prende avvio la dottrina Truman, mentre il Congresso Usa vota una risoluzione che impegna la politica americana ad agire per promuovere la creazione degli Stati Uniti d’Europa; a corollario, nel giugno 1947 viene annunciato il Piano Marshall.
Il tempo, sessant’anni, ci ha perlomeno regalato un po’ di onestà intellettuale e la fine delle dispute accademiche su questo importante passaggio storico, trovando tutti gli analisti ormai concordi nell’affermare che dietro gli aiuti americani spingevano forti motivazioni economiche, e non solo ragioni politiche: gli Usa avevano bisogno di creare un mercato dove poter esportare il surplus produttivo di un’industria bellica che andava riconvertita, un mercato che fosse stabile (pacificato) e sufficientemente ampio, e all’epoca solo l’Europa poteva diventarlo. Nell’idea originale del Piano, gli aiuti dovevano finanziare un progetto di trasformazione strutturale e integrata dell’economia dei diversi Paesi – da cui l’idea degli Stati Uniti d’Europa – e non alimentare le differenti politiche nazionali; a tale scopo venne creata nel 1948 l’Organizzazione per la cooperazione economica europea (Oece, che nel 1960 si trasformerà nell’attuale Ocse), con il compito di controllare la distribuzione dei fondi del Piano Marshall, sviluppare i piani nazionali di ricostruzione e favorire la liberalizzazione degli scambi commerciali intraeuropei.
Il passo successivo, nel 1951, fu la creazione della Ceca, la Comunità europea del carbone e dell’acciaio, quella che oggi viene identificata come la prima pietra nella costruzione dell’Unione europea.
Formata da Francia, Germania occidentale, Belgio, Italia, Olanda e Lussemburgo, la Ceca non era altro che un trattato economico che istituiva, tra i sei Paesi aderenti, un unico mercato del carbone e dell’acciaio, eliminando sovvenzioni statali alle produzioni, diritti doganali e restrizioni quantitative all’import/export. Di fatto, sottraeva ai sei Stati la sovranità nazionale sulla politica economica delle due materie fondamentali per la ricostruzione industriale, trasferendola all’Alta Autorità, organo della nuova entità sovranazionale composto da nove membri nominati dai governi dei sei Paesi, che aveva il compito di stabilire le politiche di produzione e circolazione in un regime di libera concorrenza. L’ideologia economica alla base di una simile impostazione era chiaramente il liberismo di stampo statunitense: capitalismo privato, libero mercato, lo Stato fuori dall’economia.
Ciò che oggi più colpisce è la capacità di analisi della sinistra europea dell’epoca, che si oppone al trattato – neanche a dirlo, il confronto con il pensiero della ‘sinistra’ di oggi è desolante. Sono i socialisti a sviluppare le critiche più pertinenti e approfondite, arrivando a contestarne l’impianto economico; i comunisti, soprattutto il Pci, sono troppo concentrati sulle conseguenze politiche della guerra fredda, e denunciano la nascita dell’integrazione europea solo sotto il profilo dei suoi natali made in Usa e della sua funzione, militare e geopolitica, anti-Urss e anti-comunismo – questioni certamente presenti, visto che nel 1951 la guerra fredda è già ampiamente combattuta e il riarmo dell’Europa già all’ordine del giorno, ma che escludono dall’analisi il piano economico.
È il Partito laburista a sviluppare il dibattito più ampio, paradossalmente in una Inghilterra che si considera estranea al processo di unione, per il suo rapporto privilegiato con gli Stati Uniti e per la forza economica del suo impero; la Gran Bretagna non accetta infatti l’invito ai negoziati, autoescludendosi.
Il deputato labour John Strachey afferma in uno dei numerosi confronti pubblici sul tema: la Ceca è “lo strumento per porre il controllo dell’industria del carbone e dell’acciaio europea nelle mani di un consiglio di otto o nove persone, che non rispondono a nessun governo, Parlamento o ad altra istanza democratica. Se questi dittatori dovessero avere il potere potrebbero decidere di chiudere metà delle miniere del South West o le acciaierie di Sheffield ove solo ritenessero che questo darebbe profitto agli azionisti. […] Ne avremo molti altri di questo genere di piani, che sotto la maschera dell’internazionalismo si propongono di impedire ai popoli di controllare i loro sistemi economici” (1).
In Germania, Kurt Schumacher, presidente del partito socialdemocratico, al congresso del 1950 della Spd definisce il progetto della Ceca la “dittatura dei manager”, e l’anno successivo pronuncia la frase divenuta poi nota: “No all’Europa dei sei e delle quattro K: Konservativ, Klerikal, Kapitalist, Kartellist”.
Nel 1957 gli stessi sei Paesi firmano a Roma il trattato che istituisce la Cee, la Comunità economica europea, che non si limita a estendere il ‘mercato comune’ a tutti i settori manifatturieri, ma sancisce i quattro pilastri fondamentali della futura Unione, da rendere effettivi in tre fasi successive nello spazio di dodici anni: libera circolazione delle merci, delle persone, dei servizi e dei capitali. È l’impianto neoliberista dell’attuale Ue.
È ancora il Labour inglese a essere il più acuto osservatore di quanto accade. Aneurin Bevan, leader della sinistra del partito, afferma nel momento della firma del trattato: “In assenza di una sovranità più vasta, ogni ipotesi di mercato comune significa offrire al mercato lo status di cui oggi godono i Parlamenti europei. È a questo punto che i socialisti diventano sospettosi di cosa si intende fare. Significa lo svuotamento del potere del popolo e la delega del potere alle forze del mercato? Dobbiamo aspettarci di arretrare ora di quasi un secolo, rigettare il socialismo e abbracciare il libero scambio come se fosse la soluzione ai nostri guai sociali? […] L’ipotesi del Mec è il risultato di un malessere politico che fa seguito all’incapacità dei socialisti di usare il potere sovrano dei loro Parlamenti per pianificare la vita economica. Si tratta di una concezione ‘escapista’ nella quale le forze di mercato prenderanno il posto della responsabilità politica”.
Ci si sorprende a volte della lungimiranza di alcune analisi; eppure non si tratta di saper prevedere il futuro, ma di essere capaci di leggere il proprio presente. Bevan sintetizza, con estremo acume, il conflitto che un’Unione europea concepita su base liberista è destinata a innescare con le politiche socialdemocratiche già avviate nei singoli Paesi. È il conflitto che ora stiamo vivendo.
Alla fine della seconda guerra mondiale, i partiti di sinistra sono predominanti in tutti i fronti antifascisti, e comunisti e socialisti, pur su posizioni differenti, condividono l’impostazione secondo cui l’economia deve essere pianificata dalla politica. Negli anni immediatamente successivi, i partiti comunisti legati a doppio filo con l’Urss raccolgono consensi crescenti, soprattutto in Italia e in Francia: tra il ‘45 e il ‘56 il Pcf francese raggiunge percentuali di voto costanti tra il 26 e il 28%, e alle elezioni del 1948 Pci e Psi, uniti dal Patto di unità di azione, registrano il 31%; alla tornata elettorale successiva, nel ‘53, il solo Pci arriva al 21%.
Gli Usa sono consapevoli della pericolosa presenza di un ‘nemico interno’ agli Stati dell’Europa occidentale, e capiscono che l’unico modo per cercare di contenerne l’avanzata sul piano del consenso popolare è permettere ai governi nazionali di applicare politiche socialdemocratiche. Nasce qui il welfare state europeo. Gli stessi finanziamenti del Piano Marshall – che a dispetto dell’idea iniziale finiranno per essere utilizzati in modo autonomo da ogni Paese, a seconda delle diverse necessità – immettono liquidità in bilanci nazionali in forte deficit finanziario, consentendo di evitare politiche restrittive e così allontanare il rischio di conflitti sociali.
Contemporaneamente, però, gli Usa promuovono la creazione di un libero mercato a livello sovranazionale, e i governi conservatori europei – i partiti di sinistra sono soggetti alla conventio ad excludendum che li emargina dalle alleanze governative – sottoscrivono i trattati economici che istituiscono la Ceca prima e la Cee poi. Quindi politiche socialdemocratiche nazionali, e politiche liberiste sovranazionali. Due impostazioni antitetiche che sono riuscite a convivere fino agli anni Ottanta. Quando il ‘nemico interno’ è imploso sotto il crollo dell’Urss – con la crisi che ne è seguita sul piano ideologico – il neoliberismo non ha più avuto, nel pensiero di sinistra, un antagonista, e le politiche socialdemocratiche sono state messe in cantina. Nel 1992 il Trattato di Maastricht ha aggiunto l’unione monetaria a quella economica già esistente, sottraendo agli Stati anche la sovranità sulla politica finanziaria, ed è iniziato lo smantellamento del welfare e la fuoriuscita dello Stato dall’economia, con la progressiva privatizzazione delle imprese pubbliche. È accaduto quel che paventava Bevan.
L’Europa quindi nasce come un insieme di trattati economici di impostazione liberista, e tuttora non è nulla più di questo. Occorre tenerlo a mente – ed è quello che la propaganda, con i suoi spot, vuole far dimenticare – perché è il punto centrale della riflessione se restare o uscire dall’Unione: un trattato economico lo si rispetta, o lo si denuncia, a seconda che se ne traggano benefici o danni. “L’idea straordinaria di due giovani antifascisti al confino nata sulla piccola isola di Ventotene”, il Manifesto di Altiero Spinelli e Ernesto Rossi che auspicava la nascita di un’Europa federalista, ossia una realtà politica e non solo economica, non solo non si è mai realizzata, ma non è realizzabile. È stata definitivamente affossata a Maastricht, quando vengono assunte le decisioni sull’allargamento. Nel 1992 i Paesi aderenti erano dodici, oggi sono ventotto; e hanno presentato domanda di adesione altri sei. È razionalmente non ipotizzabile un’unione politica tra ventotto, o trentaquattro, o ancora di più, Paesi.
Oltretutto occorre domandarsi che unione sarebbe stata, se mai si fosse concretizzata: con tutta evidenza, una unione nella quale sarebbe stato predominante un progetto politico di destra. Quindi per fortuna le condizioni storiche e politiche non hanno permesso la nascita degli Stati Uniti d’Europa: è il passaggio mancante che ha consentito ai governi nazionali di mantenere per quarant’anni la sovranità sufficiente a mettere in atto politiche socialdemocratiche.
Non ha parimenti senso alcun discorso sul maggiore livello di democrazia che la Ue dovrebbe raggiungere. È il tranello in cui sono caduti i partiti comunisti a partire dagli anni Sessanta, il Pci più degli altri, quando, abbandonata la prima fase del rifiuto, si è arreso all’esistenza dell’Unione e ha cominciato a discutere su come modificarla dall’interno, rendendo più democratiche le sue istituzioni e più socialista la sua politica. Quanto il progetto sia fallito è oggi sotto i nostri occhi.
La storia del rapporto Pci-Europa è la storia di una resa, di un lento sentiero in discesa percorso perdendo per strada pezzi del proprio pensiero e della propria cultura, fino al dirupo di Maastricht nel quale il neonato Pds si è lanciato senza più alcuna remora, votando a favore: consenso all’esistente in cambio della legittimazione a governare.
Berlinguer è l’ultimo segretario che parla ancora di socialismo: immagina una “terza via” in cui l’Europa non sia solo equidistante dai due blocchi Usa e Urss ma anche realizzatrice di un socialismo diverso da quello sovietico e da quello socialdemocratico, che critica accusandolo di avere abbandonato l’obiettivo di trasformare la realtà e di essere divenuto organico al capitalismo, un sistema che non può uscire dalla logica di sfruttamento e imperialismo: per salvare la democrazia occorre superare il capitalismo, afferma Berlinguer.
Al Congresso del 1986, il primo dopo la sua morte, non c’è più nulla. Occhetto ha appena scritto la prefazione all’edizione italiana del Manifesto per una nuova sinistra europea di Peter Glotz, esponente del Comitato esecutivo della Spd tedesca, in cui si afferma che la ‘democrazia sociale’ può e deve basarsi sul capitalismo; Natta, all’epoca segretario, nella sua relazione parla di “politica riformatrice” e inscrive il Pci tra le “forze progressiste”; propone “di aprire una nuova fase della nostra politica e di promuovere il rinnovamento ideale, programmatico, organizzativo del nostro partito”; afferma che al Pci “non deve essere insegnata l’esigenza del mercato […]. Noi non dipingiamo per nulla un quadro a fosche tinte dei Paesi capitalistici sviluppati né siamo cosi sciocchi da predicare la possibilità della fine di tutte le contraddizioni. Ma altra cosa è considerare il profitto come un misuratore della efficienza di una impresa, altra cosa è erigerlo a valore assoluto” (2): è la fine della critica economica marxiana al capitalismo, che legge il profitto come risultante dello sfruttamento dell’uomo.
Quando Occhetto arriva alla segreteria, non vengono spazzati via solo gli ultimi elementi residuali del pensiero socialista ma anche di quello socialdemocratico. Nella sua relazione al XVIII Congresso, nel marzo 1989, parla di ecologia, diritti delle donne, giovani; sostituisce il concetto di ‘classe’ con quello di ‘cittadino’: “Al centro della nostra attenzione sono l’uomo e il cittadino”, afferma. Non più conflitto Capitale/lavoro ma diritti individuali. Dichiara il suo pieno appoggio al capitalismo (“noi non consideriamo affatto l’impresa come qualcosa di ostile a noi o di estraneo al processo di crescita democratica”, “non si può rinunciare al processo di accumulazione”) e al libero mercato (“il mercato costituisce un metro di misura per l’efficienza dell’intero sistema economico e un suo insostituibile fattore propulsivo”); sostiene che compito dello Stato non è gestire i processi economici ma regolarli dall’esterno, per “orientare il mercato secondo finalità umane ed ecologiche, verso uno sviluppo sostenibile” (3).
Non siamo più alla resa al neoliberismo; siamo all’abbraccio volontario.
Berlinguer sosteneva che l’Unione europea, e la lotta per modificarla in senso socialista, dovevano diventare il punto di riferimento del Pci perché gli Stati, singolarmente, non erano più in grado di contrastare gli effetti sociali prodotti dalla internazionalizzazione del mercato e dei capitali; ciò che non aveva capito è che la Ue non era riformabile, come non lo è il capitalismo. Ma erano gli anni Settanta, e forse ci si poteva ancora illudere. Oggi non è più ammissibile, né giustificabile. Per questo progetti come la Lista Tsipras sono avvilenti. Viene da chiedersi se la riproposizione attuale dei temi della democratizzazione dell’Europa e della modifica del suo impianto neoliberista siano figli dell’ingenuità, o della medesima incapacità di analisi che la sinistra comunista ha dimostrato in passato.
Accettare l’Europa, oggi, non significa più rinunciare al socialismo, ma alla socialdemocrazia. Al welfare, ai diritti dei lavoratori. Significa arrendersi alla logica di sfruttamento e al darwinismo sociale; significa creare una società feroce e violenta – non c’è nulla di più violento del costringere l’uomo a impegnare tutto il proprio tempo per cercare di sopravvivere, anziché vivere. Una sinistra che possa ancora definirsi tale, nel senso più ampio del termine, non può che aprire la discussione sulla fuoriuscita dell’Italia dall’Unione europea. Non è affatto semplice. Le implicazioni sono enormi, al punto di interdipendenza economica e finanziaria a cui siamo arrivati. Per questo occorre un progetto di ampio respiro, che coinvolga persone competenti in economia, finanza, geopolitica, capaci di analizzare le conseguenze e programmare le soluzioni per un’uscita ‘da sinistra’.
Oltretutto, si corre seriamente il rischio di uscire un giorno ‘da destra’, visto l’identità delle forze politiche che oggi, almeno sulla carta, parlano di fuoriuscita dall’euro.
Sembra impossibile, ma non lo è: l’Europa appare ineludibile solo perché il nostro pensiero è stato colonizzato dalla cultura dominante e non ha più il coraggio e la capacità di immaginare qualcosa di diverso. A questo mirano gli spot sull’Unione: a colonizzare, dopo il nostro pensiero, anche le nostre paure – la guerra – e i nostri sogni – l’idea straordinaria di due giovani antifascisti. “Di notte sogna e vengon fuori i sogni di altri sognatori”, cantava Gaber. È forse la cosa peggiore.
(1) Cfr. Strachey Papers, cit. in L. Castellina, Cinquant’anni d’Europa, Utet, 2007
(2) Relazione Natta al XVII Congresso del Pci, in L’Unità, 10 aprile 1986
(3) Relazione Occhetto al XVIII Congresso del Pci, in L’Unità, 19 marzo 1989