Da raziocinante a manipolata, in quale spazio il pensiero antagonista può opporsi a quello dominante neoliberista?
È difficile avere oggi un’idea della dimensione di quella che possiamo genericamente chiamare ‘area antagonista’, inserendo nella definizione ogni realtà culturale o movimentista della società civile che si muove in senso critico rispetto al pensiero dominante neoliberista; da quella più ‘radicale’, che si oppone al capitalismo, di cui il neoliberismo è solo l’attuale fase, a quella ‘socialdemocratica’, che non mette in discussione il sistema economico ma mira semplicemente a mitigarne le caratteristiche di sfruttamento dell’uomo e delle risorse ambientali, attraverso la difesa di uno stato sociale in fase di smantellamento e dei cosiddetti beni comuni.
Difficile perché le lotte sono frammentate, ciascuna chiusa nella propria singola identità – per la casa, per l’acqua pubblica, contro l’Expo, la riforma della scuola, la Tav… – e non fa eccezione nemmeno la battaglia per il lavoro, che pur avendo un unico tema si divide in tanti terreni di scontro quante sono le aziende che licenziano, delocalizzano, impongono ricatti ai lavoratori in termini di retribuzione e orario per non chiudere gli stabilimenti.
La debolezza delle lotte, intesa come incapacità di incidere sull’esistente, modificandolo, è evidente. Sconta sicuramente la frammentazione, l’incapacità di comprendere che la lotta è una, sebbene articolata su più campi, perché dietro le singole tematiche vi è un ‘nemico’ comune, ossia il sistema capitalistico: privatizzazioni e riduzione del welfare rispondono alla necessità del Capitale di espandersi in nuovi ambiti, il maggior sfruttamento, ossia bassi salari e lavoro precario a uso e consumo delle oscillazioni della domanda del mercato, risponde al bisogno di recuperare maggiori margini di profitto, ed entrambe le operazioni servono al capitalismo per salvarsi dall’attuale crisi – fino alla prossima, ovviamente.
Ma l’area antagonista sconta anche l’esclusione dal dibattito pubblico, che si muove sui canali mainstream, televisione su tutti e poi grandi giornali, e quando riesce a esservi presente fa i conti con la difficoltà di spostare l’opinione pubblica dalla propria parte.
Non è una questione che possa essere elusa, perché i mezzi a disposizione per cambiare l’esistente sono ben pochi; non è più il tempo di rivoluzioni, e non si vede all’orizzonte un partito che possa dare rappresentanza concreta al pensiero critico, ancor meno a quello radicale. Non resta quindi che la pubblica opinione, in teoria un potere ‘dal basso’ in grado di imporre cambiamenti alla politica. O almeno questo era quando è nata.
Non si può parlare di opinione pubblica senza citare Habermas. Nel suo saggio del 1962, Storia e critica dell’opinione pubblica, lo studioso ne evidenzia innanzitutto i natali borghesi. Tra Inghilterra e Francia, il percorso che si snoda fra il XVII e il XVIII secolo vede la nascita di libelli, opuscoli e riviste nelle quali fa la sua comparsa l’articolo ‘dotto’, l’argomentazione razionale; una nuova classe sociale, la borghesia commerciale, crea una sfera nella quale privati cittadini, raccolti come pubblico, rivendicano il ruolo di attori insieme all’autorità dello Stato nella regolamentazione dello scambio di merci e lavoro, disponendosi a costringere il potere a legittimarsi dinanzi alla rappresentanza pubblica del nascente gruppo sociale.
È un ceto che inizia a essere dominante dal punto di vista economico ma non lo è ancora sul piano politico, e dunque attacca il sistema di potere vigente. In antitesi alla Corte nascono i salotti, dove borghesi e aristocratici iniziano a incontrarsi, poi la nuova classe in ascesa si autonomizza e fanno la loro comparsa i caffè, luoghi nei quali si discute di arte, commerci e politica. In una società nella quale il modello liberale sta divenendo dominante e afferma, come presupposto, che tutti possono diventare borghesi, sempre più le questioni di cui si discute assumono valore di ‘interesse generale’; l’interesse della nuova classe viene dunque proposto come interesse della società. Ciò significa, ed è un punto focale, che l’opinione pubblica nasce come rappresentanza borghese, ossia di un interesse di classe, e grazie alla forza economica che possiede.
È Marx a evidenziarne la natura classista, mentre John Stuart Mill e Tocqueville, da buoni liberali, si pongono il tema del suo contenimento nel momento in cui, con la diffusione della stampa e della propaganda, il pubblico si amplia e perde l’esclusività borghese; mentre viene quindi implicitamente riconosciuto che non tutti possono accedere alla proprietà privata, negando dunque il presupposto iniziale, un’opinione pubblica non più coesa negli interessi da difendere ma divenuta terreno di scontro di interessi contrapposti deve essere sottoposta a una limitazione. Perché rischia di divenire un ‘giogo’ per il potere politico, che può emanare leggi ‘sotto la pressione della piazza’, ed essere dominata dal punto di vista dei molti e dei mediocri; la stampa, infatti, per aumentare la diffusione ha abbassato il proprio livello culturale, e l’opinione pubblica è divenuta più una spinta al conformismo, dominata dalle passioni della massa, che una forza critica razionale contro il potere; può dunque servire per limitarlo, ma non deve influenzarlo. Occorre quindi strutturare una sorta di gerarchia, nella quale un’élite di pochi cittadini istruiti e potenti si faccia carico di influenzare l’opinione pubblica con scritti e discorsi.
Chiaramente si può concordare con parte dell’analisi dei due pensatori – il minore livello culturale, la spinta al conformismo – ma è il presupposto di base il punto fondamentale: lo Stato di diritto borghese nato sull’idea della libera autodeterminazione di una società civile raziocinante diviene reazionario nel momento in cui nella sfera pubblica fanno sentire la propria voce le classi subalterne.
Alla sua nascita, la locuzione pubblic opinion identifica l’attività razionale di un pubblico capace di giudizio; ufficialmente conserva tuttora questo significato, ma è chiaro che oggi non lo rappresenta più. Il percorso che l’ha portata a trasformarsi da spazio critico a dimensione manipolata è andato di pari passo con la crescita della società dei consumi.
La sfera letteraria, che ha prodotto quella politica, si trasforma in un consumo culturale di massa che ha ben poco a che fare con una crescita intellettuale: il fine è vendere una merce, non ‘educare’ un vasto pubblico, quindi il livello del pensiero si abbassa. Scompaiono i circoli, e le discussioni vengono formalmente organizzate in convegni, seminari, e poi tribune politiche e programmi televisivi e radiofonici, appannaggio di quella élite auspicata da Mill e Tocqueville, e diventano anch’esse bene di consumo; il pubblico, sia esso borghese o classe lavoratrice, diviene ascoltatore e spettatore: riceve un pacchetto di opinioni preconfenzionato e in assenza degli strumenti culturali per metterlo in discussione lo assorbe, incapace di ribattere e parlare.
Nascono le pubblicità commerciali e gli uffici di pubbliche relazioni, che si occupano di costruire il consenso intorno a una merce come a una persona; una forma di consenso che ha più nulla a che vedere con i criteri del ragionamento ma si basa su una fascinazione emotiva indotta da un’operazione pubblicitaria. Sulla materia oggetto di promozione non viene infatti aperto un pubblico dibattito ma inscenata una rappresentazione: le discussioni in Parlamento come quelle in televisione diventano spettacoli (talk show, appunto), e la sfera pubblica non è più il luogo in cui si manifesta la critica ma lo spazio in cui prende forma l’acclamazione.
Ne L’uomo a una dimensione Marcuse scrive che “la cultura industriale avanzata è, in senso specifico, più ideologica della precedente, in quanto al presente l’ideologia è inserita nello stesso processo di produzione”. È l’ideologia promossa dalla cultura di massa diffusa dai mass media: apparentemente impolitica, in quanto promuove semplicemente un prodotto, è in realtà fortemente politica, perché contiene in sé l’ideologia capitalista, che non agisce più sul pensiero ma si concretizza nello spazio dei comportamenti: l’abitudine al consumo di merci che vanno a soddisfare falsi bisogni, indotti ed eterodiretti per alimentare un sistema produttivo che per fare profitti ha bisogno di crescere incessantemente.
Il pensiero politico critico, dunque, quando non viene censurato e riesce a raggiungere il dibattito pubblico, oggi ha davanti a sé come vero antagonista non tanto un pensiero politico contrapposto, ma un’ideologia trasformatasi in merce, promossa a suon di slogan pubblicitari, inconsapevolmente assorbita da una massa di cittadini divenuti consumatori. Ed è chiaro che un pensiero politico che si oppone alla mercificazione dell’esistente non è vendibile sui media, televisione e grandi quotidiani, che sono gli strumenti principali di diffusione dell’ideologia dei consumi; non può raccogliere consenso tra quel pubblico.
Il problema è che quel pubblico è oggi l’opinione pubblica: una massa di consumatori analfabeti funzionali, spettatrice di messinscene politiche, manipolata da una ristretta élite di opinion maker che si occupa di dirigerla promuovendo il pensiero neoliberista sotto forma di concetti estremamente superficiali e semplificati. Di fatto la pubblic opinion, nel suo reale significato, non esiste più.
Quando nei primi anni Novanta nasce il web, il mondo antagonista che dopo il riflusso degli anni Ottanta è tornato a organizzarsi nel Movimento della Pantera e nei centri sociali, vede nella nuova tecnologia una possibilità di azione; un mezzo per creare una rete di collegamento e comunicazione tra le varie realtà, innanzitutto, attraverso la messaggistica e le mailing list, e successivamente uno strumento per fornire contenuti. Parallelamente al Movimento no global nascono realtà come Indymedia e Autistici/Inventati, che grazie alla nuova tecnologia iniziano a produrre controinformazione in opposizione all’informazione mainstream, raccontando direttamente le manifestazioni e creando siti web nei quali il pensiero critico può esprimersi e confrontarsi. La rete sembra essere quello spazio libero che mancava, un territorio in cui poter far crescere una rete antagonista globale, parallelamente e in opposizione alla globalizzazione del Capitale.
La rapida diffusione della cultura e del movimento no global tra il 1999 di Seattle e il 2001 di Genova dà l’impressione, e la speranza, che una nuova opinione pubblica antagonista possa crearsi grazie al web, e che il suo peso possa incidere sul potere politico ed economico nel momento in cui si concretizza scendendo in piazza, in manifestazioni di una tale partecipazione e forza da ricordare quelle degli anni Settanta del Novecento.
La violenza della repressione messa in atto a Genova taglia le gambe al movimento, ma forse sull’ennesimo processo di riflusso seguito al G8 e allo stato di eccezione messo in piedi dopo l’11 settembre 2001 molto di più ha inciso la trasformazione della stessa rete che aveva permesso la nascita di quella opinione pubblica raziocinante. Il Capitale aveva già iniziato la colonizzazione del territorio del web attraverso la cosiddetta new economy – è del 2000 l’esplosione della bolla finanziaria delle dot.com – e la rete diventa social. Nasce MySpace e poi Facebook, Twitter e social network di ogni genere.
Ora il pensiero antagonista deve lottare per non essere marginalizzato in quello stesso spazio che aveva creduto di poter usare a proprio vantaggio, e che è divenuto non solo un altro territorio in cui il Capitale promuove e diffonde l’ideologia della mercificazione, contribuendo a creare lo stesso pubblico dei media mainstream e lo stesso consumo culturale di massa, ma anche un luogo di compensazione di frustrazione e alienazione e uno strumento che disinnesca il conflitto: condivido un post critico, metto un ‘mi piace’ a un articolo di un sito di controinformazione, segno la mia partecipazione a un dibattito e poi non non vado, e ho l’impressione di aver fatto qualcosa, di avere ‘contato’, mentre ho fatto nulla che possa minimamente incidere sull’esistente.
In aggiunta, dal punto di vista della crescita intellettuale indispensabile alla creazione di un’opinione pubblica raziocinante, il web si è trasformato in una contraddizione paradossale: non ha problemi fisici di spazio e ha minimi costi economici, a differenza del supporto cartaceo, può dunque contenere articoli lunghi di analisi e approfondimento, e invece ha eliminato quel tipo di lettura ‘lenta’ e ragionata promuovendo la velocità, l’articolo breve, l’informazione superficiale, l’ansia di essere continuamente aggiornati su tutto ciò che accade senza avere né gli strumenti né il tempo per comprenderlo davvero, in una continua deconcentrazione.
Che fare, dunque?
Se c’è una cosa che il percorso dell’opinione pubblica borghese insegna è innanzitutto che la sua partenza è culturale e di classe. Per cercare di modificare l’esistente occorre dunque per prima cosa (ri)costruire una cultura di classe, e poi trasformarla in opinione pubblica. Certo, da questa parte è più arduo: la borghesia era ceto dominante economico – dunque aveva soldi – e agiva in una società liberale che già rispecchiava il suo modello di sistema produttivo; doveva solo conquistare il potere politico, e trasformare in borghese lo Stato. Ma resta il fattore culturale come punto centrale: è dalla sfera letteraria che nasce quella politica.
Non è un caso infatti che la crescita della società dei consumi sia andata di pari passo con lo svuotamento della cultura di sinistra – non solo politica, anche letteraria e cinematografica – fino al suo totale annientamento che ha registrato come contraltare la mercificazione totale dell’esistente e la vittoria dell’ideologia neoliberista. Si tratta dunque di ripartire da lì, dalla sfida culturale, ma non per farne un esercizio astratto bensì per radicarla nella conflittualità sociale esistente.
Occorre poi capire che i media mainstream non possono essere il terreno di questa battaglia e il loro pubblico non può essere conquistato; per quanto rappresenti la maggioranza, è a tal punto annichilito e manipolato che ora non si può che rinunciarci. È nella rete che si muove quella ristretta minoranza di persone che sente il bisogno di informarsi, capire, approfondire in modo critico; si deve dunque accettare che solo il web, pur con tutto ciò che rappresenta in termini di colonizzazione dell’immaginario e controllo sociale (1), può essere lo spazio in cui il pensiero antagonista può muoversi e crescere. È una contraddizione, ma bisogna essere consapevoli che non esiste più alcun territorio che il Capitale non abbia conquistato e mercificato, dunque l’alternativa sarebbe l’immobilità, e non è un’alternativa.
Come non lo è quella messa in atto da molti centri sociali, che si sono ripiegati all’‘interno’ in forme di autogestione mutualistica e hanno rinunciato a opporsi alle dinamiche di potere che si muovono all’‘esterno’ nella società.
È poi fondamentale che l’area antagonista comprenda che il nemico è uno e che la frammentazione delle lotte gioca a suo vantaggio; e se c’è una cosa che il web può offrire è proprio la connessione tra le diverse conflittualità in campo.
Ma il mondo virtuale va sfruttato per uscirne, per creare luoghi fisici di incontro, confronto, progettualità e lotte comuni. Perché la partecipazione virtuale è una non-partecipazione; non c’è alcuna differenza tra l’essere spettatore di un talk show televisivo e mettere un click a un dibattito senza andarci: in entrambi i casi si resta muti davanti a uno schermo. Ma allo stesso modo, scendere in piazza senza la forza di un bagaglio culturale, soprattutto oggi, nella complessità finanziaria ed economica dell’attuale capitalismo, significa essere disarmati di fronte all’ideologia neoliberista e dunque comunque perdenti. L’opinione pubblica è raziocinante. La lotta è teoria e prassi.
1) Cfr. Renato Curcio, Colonizzazione dell’immaginario e controllo sociale, Paginauno n. 47/2016