di Sabrina Campolongo |
Recensione di Troppa felicità, Alice Munro
Lo so, difficile immaginare Alice Munro che ascolta il celebre pezzo della sfortunata Amy Winehouse (così poca musica, nella sua prosa, in fondo, pensando alla straordinaria ricchezza di colori, profumi, paesaggi), ma l’accostamento è meno eretico di quanto si potrebbe credere. Leggendo questi nuovi racconti della grande scrittrice canadese è facile pensare che converrebbe con la fragile ragazza perduta del soul inglese (così simile a molti personaggi che appaiono nelle sue storie) sul fatto che l’amore è un gioco perdente.
Così poco amore in Troppa felicità, almeno di quella fiammata iniziale, quel momento perfetto così spesso e così mirabilmente raccontato nelle storie che l’hanno resa celebre anche qui da noi, da Nemico, amico, amante a Il percorso dell’amore, in cui una delle protagoniste dichiarava: “Secondo me, il momento migliore è sempre l’inizio. L’inizio e basta. È l’unica parte autentica. Anzi, forse perfino l’attimo prima dell’inizio. Forse quando ti balena in testa l’idea che possa succedere. Forse è quella, la parte migliore” (1).
In questa nuova raccolta, Troppa felicità, di inizi se ne trovano pochi. Lasciata alle spalle “la parte migliore”, forse l’unica autentica, l’amore è qui impastato nelle realtà che costruisce o che distrugge, scoperto nelle sue contraddizioni, smascherato, spogliato del suo mito. O al limite lasciato fuori dalla narrazione, nel regno dell’inesprimibile, dei misteri della fede. A ottant’anni, forse Alice Munro non è più così interessata alla magia degli inizi. Più che sul meccanismo che scatena l’attrazione, o sul mistero dietro le porte chiuse (l’enigmatico gesto, fortemente simbolico, che viene richiesto alla protagonista di Certe donne, rimane in fondo senza spiegazione, eppure, forse proprio per questo è così lampante: “Non dovevo far sapere a nessuno che avevo la chiave, finché non tornava sua moglie, e a quel punto dovevo consegnarla a lei”) preferisce usare il suo bisturi affilato per cercare la natura più profonda, incondivisibile dell’essere umano, la sua fibra segreta.
I protagonisti di questi racconti sono, per un verso o per l’altro, dei sopravvissuti.
Sopravvissuti alla fine dell’amore (più che alla fine di un amore), sopravvissuti all’orrore, sopravvissuti a un trauma di cui ignorano fino in fondo la portata, sopravvissuti alla violenza altrui o alla propria.
La violenza è indubbiamente uno dei fil rouge di queste storie. Molti dei racconti sono costruiti attorno ad avvenimenti particolarmente duri, di quelli che fanno tremare i polsi, ma Munro sceglie, come sempre, la via meno spettacolare e non li racconta direttamente, se non con rapide, forse per questo ancora più evocative, pennellate, mostrandoci invece ciò che si è costituito attorno a quel segreto, la perla attorno al granello di violenza, formatasi con il tempo, con strati sovrapposti di sedimenti, così simili a quelli che hanno composto le più tranquille esistenze, così poco sensazionali e così vicini da piegarci le ginocchia.
Alice Munro ci porta in territori spietati e paurosi, da cui gli affetti non sono esclusi, ma spogliati di ogni trascendenza. L’amore, l’amicizia… niente più che un’alleanza, una complicità tra animali fondamentalmente solitari, a volte (per un’alchimia misteriosa) per la vita, a volte per il tempo di un misfatto.
In questi racconti della piena maturità, Munro mette da parte i cliché romantici con i quali ha magistralmente giocato in altre occasioni, divertendosi a ribaltarli e a rimescolare le carte, e meno presenti sono anche i riferimenti letterari, all’opera shakespeariana, per esempio, da cui ha spesso giocosamente attinto.
Quando un riferimento viene lanciato, prima della lunga ecfrasi in Racconti (un racconto viene narrato per diverse pagine), questo punta evidentemente all’autrice stessa, un tocco di ironia che non può non strappare un sorriso al fedele lettore: “È una raccolta di racconti; non un romanzo. Il che è già di per sé una delusione. Sembra sminuire l’autorevolezza del libro e far apparire l’autore come qualcuno che sta solo appeso ai cancelli della letteratura”.
Ma l’impressione è che mai come ora Alice Munro, la scrittrice di racconti e solo racconti, voglia fare sul serio. Con un nuovo disincanto, una consapevolezza totale, il suo sguardo punta direttamente alla realtà, senza filtri letterari, alle cose come accadono e non come le ricomponiamo nella narrazione scegliendo alcuni elementi ed eclissandone altri, riannodando fili dove serve e sostenendo la trama con un ordito etico di cui non vi era traccia, nelle nostre azioni. “Ci ripetiamo spesso che esistono cose imperdonabili, o delle quali non ci perdoneremo mai. Non è vero: non facciamo altro” (2).
Così come non è vero che ci sono cose che non potremmo mai superare, oltre le quali non si può andare. Alice Munro ci spinge oltre, supera non solo la mitopoiesi dell’amore, ma anche quella del dolore, mostrandoci come la vita bruta in noi sia più forte anche della nostra capacità di vivere, in una delle storie più potenti della raccolta: Dimensioni.
In questo racconto – il primo dei dieci – si ritrovano, spinti all’estremo, gli stessi nodi tematici di un altro gioiello, In fuga, che apriva l’omonima raccolta: l’unione della protagonista con un uomo sottilmente impositivo, il crescendo strisciante della violenza e della paura in lei, l’amicizia con un’altra donna che viene percepita come un tradimento e infine il sacrificio di esseri innocenti necessario a ristabilire l’ordine. La capretta di In fuga si può allora vedere come l’agnello che l’uomo accetta in sacrificio dalla donna risparmiandola da uno ben più oneroso, una volta soddisfatto della sua dimostrazione di fedeltà, mentre in Dimensioni non c’è sconto e il sangue preso è quello più sacro. Infatti, il marito di In fuga era un uomo-dio ragionevolmente certo di avere ripreso il controllo (la sua costola era tornata da lui di sua volontà), mentre quella di Dimensioni è una divinità detronizzata e resa folle dalla paura. La sua mostruosa reazione riporta alla mente, ribaltato nei ruoli, un altro mito, quello della Medea sanguinaria di Euripide.
“È stata tutta colpa tua”, dirà poi, alla donna che ha osato uscire dalla sua influenza.
Ma non è qui che si chiude il racconto, anzi, la narrazione comincia a fatto già compiuto, presentandoci una protagonista mortalmente ferita, sterile come un fantasma, incomprensibilmente ancora in vita e pronta a un’ultima resa, ancor più disperata del suicidio. “Quel che è successo non ha forse tagliato fuori dal mondo me quanto lui? Chiunque fosse al corrente dei fatti non mi vorrebbe attorno. Io riesco solo a ricordare agli altri qualcosa su cui nessuno può soffermare il pensiero”.
Eppure, malgrado l’enormità del suo dolore e la sua stessa volontà, il soffio vitale in lei, spinto allo scoperto da uno scherzo del destino, è ancora così forte da riportare in vita uno sconosciuto, che diventa, senza fare nulla, strumento della svolta, come spesso accade nei racconti di Munro. La famiglia, di contro, è molte volte dipinta come il luogo dell’estraneità, delle regole che impediscono alla verità di manifestarsi, degli antichi rancori, dei pericoli striscianti.
Eppure la famiglia è anche il luogo della narrazione, della saga, di cui la stessa Munro è appassionata, tanto da dedicare alla storia della propria un libro intero, Vista da Castle Rock e molti racconti, in passato. Ma, in questa nuova raccolta più che mai, il filo è spezzato, la realtà immaginabile solo dalla sovrapposizione di molti strati di colori diversi, a volte discordanti come lo sono le molteplici visioni degli avvenimenti, viziate dalle menzogne con cui ci proteggiamo o ci assolviamo.
Troppa felicità – già nel titolo, richiamo forse ai Giorni felici beckettiani – manifesta la ribellione all’epica, la rinuncia alla coerenza forzata imposta dalla narrazione. La casualità dell’esistenza, il suo essere inconclusa, indifferente, benevola o crudele senza disegno è la vera protagonista di queste storie.
Come già in molte delle sue opere precedenti, ma qui in modo più pungente e meno paradossale, gesti compiuti con le migliori intenzioni portano a piccoli o grandi disastri, mentre crudeltà, scherzi o beffe ai danni di qualcuno provocano inimmaginabili svolte positive, incredibili rivolgimenti. I delitti restano quasi sempre impuniti, i peggiori rovesci del fato piovono su chi non ha colpe e accade che il dramma di qualcuno sia allo stesso tempo, in modo del tutto involontario e inconsapevole, la grande felicità di qualcun altro.
Non c’è ragione, dobbiamo ammettere, per cui un figlio molto amato e protetto ci volti le spalle, finisca per abbandonarci, per odiarci, per volerci umiliare, come accade in Buche profonde.
Come non c’è una ragione per cui veniamo investiti di immeritato amore, al limite del fanatismo, come in Faccia (o in Bambinate, per certi versi). La purezza dell’amore degli altri può lasciarci del tutto indifferenti, quando non infastidirci. Possiamo calpestarlo e, il più delle volte, restare impuniti.
Eppure, tolta di mezzo anche l’ultima traccia di assoluto, rinunciando a voler a ogni costo cercare un senso, un contrappasso, un filo a cui aggrapparci, non possiamo evitare di commuoverci, di ritrovarci, di emozionarci, di farci trafiggere da questa umanità immensa e ordinaria, precaria e determinata.
Lo sguardo di Alice Munro, per quanto impietoso, non è disperante. Nell’evidente mancanza di senso della realtà sta anche la nostra illogica possibilità di essere felici. Niente è definitivo, dicono queste storie: non l’amore ma nemmeno il senso di colpa, o il dolore.
Nella grandezza di questa riservata ottantenne canadese c’è l’abilità di smontare le nostre confortanti illusioni, prima fra tutte quella della nostra inconfutabile bontà, dipingendo al tempo stesso vite così piene, vibranti e vivide, così affamate di altra vita, nonostante tutto, che ogni ricerca oltre le soglie dell’immanenza appare semplicemente senza senso.
(1) Cit. dal racconto Mucchio bianco, contenuto nella raccolta Il percorso dell’amore
(2) Cit. dall’articolo: Dear Life. A Childhood Visitation, New Yorker, September 19, 2011
Troppa felicità, Alice Munro, Einaudi, 2011