intervista di Giuseppe Ciarallo |
“Se non posso ballare,
non è la mia rivoluzione!”
Emma Goldman
Marco Rovelli è uno degli artisti più poliedrici in circolazione. Musicista e cantautore (è del 2015 l’album Tutto inizia sempre, secondo disco solista dopo Libertaria, del 2009 e l’esperienza con i Les Anarchistes), drammaturgo, scrittore (Lager italiani, Rizzoli 2006, Servi, Feltrinelli 2009, La parte del fuoco, Barbès 2013, Il contro in testa, Laterza 2013) ha da poco pubblicato il suo ultimo libro La guerriera dagli occhi verdi (Giunti 2016), romanzo ambientato nei luoghi della lotta di resistenza del popolo curdo alla ricerca di patria e libertà. Tratto caratteristico dell’espressione artistica di Rovelli è la continua ricerca e il recupero della memoria e della storia – soprattutto quella del movimento anarchico e libertario – attraverso un impegno civile di cui le sue opere sono testimonianza diretta.
Dunque Marco, quando e come nasce l’idea di dedicare un romanzo alla ‘tua’ guerrigliera della resistenza curda? E soprattutto perché hai sentito l’esigenza di narrare questa storia?
Da almeno vent’anni sentivo parlare della questione curda, ma non l’avevo mai focalizzata come una questione decisiva e centrale. La lotta contro l’Isis nel Rojava, il Kurdistan siriano, l’ha portata alla ribalta anche mediatica, facendoci immaginare quella regione come un luogo dove si sta svolgendo una lotta che riguarda tutti. Che non è però la lotta tra Occidente liberale e Isis barbaro, visto che i curdi del Rojava non rappresentano affatto le istanze dell’Occidente, ma cercano di costruire una società nuova, diversa dal capitalismo. Loro parlano di ‘confederalismo democratico’, ciò che potremmo tradurre come una democrazia radicale, dal basso, socialista, libertaria, ecologista, dove nessuna etnia, nessuna lingua, nessun genere, nessuna religione vengano discriminate. Perciò ho deciso di farne romanzo. “Romanzo storico ed esistenziale”, è stato di recente definito in una recensione, ed è esattamente quello che volevo fare: raccontare l’epica di un popolo attraverso la storia della tragedia di un singolo (e dico tragedia in senso proprio, nel senso della tragedia greca, dove si è costretti a essere quel che si è, a compiere il proprio destino). Volevo raccontare l’anima di una persona, il suo itinerario psichico, il suo sguardo sul mondo – e vedere se questa geografia psichica raccontasse qualcosa dell’umano in quanto tale.
Ricorre di frequente, nelle parole di vari personaggi, un rimprovero, anzi, meglio, un’accusa verso l’esercito oppressore, di aver costretto alle armi un popolo per natura pacifico e lavoratore…
Non credo che vi siano popoli pacifici ‘per natura’, e se ci sono di certo i curdi non sono tra questi: la loro storia è fatta di epopee belliche, di grandi guerrieri (il Saladino, per esempio, era curdo), di scontri continui tra clan. Chi viene costretto alle armi, se mai, è il singolo individuo, il quale non avrebbe voluto scegliere la via dei monti. Se tu neghi la mia libertà, se neghi la possibilità di avere un’infanzia serena, se uccidi mio padre, mio fratello, un amico – stai costringendomi a reagire, e a consegnare la mia vita a un ineluttabile.
La questione della lingua. Al di là del dualismo strettamente identitario ‘lingua/terra’, secondo te ci sono altri motivi per i quali un sistema dittatoriale debba sentirsi minacciato da un popolo che del tutto naturalmente si esprime nel proprio idioma? Nei Paesi Baschi succede la stessa cosa e la Spagna è una democrazia occidentale e non una satrapia come la Turchia di Erdogan. La faccenda mi ricorda tanto la favola del lupo e dell’agnello…
Lo si capisce mettendo la questione in prospettiva storica. L’Impero Ottomano era sovranazionale, come tutti gli imperi che sono durati per secoli. Di fronte alla sua crisi, ci fu all’inizio del Novecento un’accentuazione della componente turcomanna, e la progressiva riduzione degli spazi di agibilità per le altre etnie: il genocidio degli armeni va visto su questo sfondo. La Turchia moderna si forma proprio sulla turchizzazione dello Stato di nuova formazione, che del resto si ingloba subito i territori che in un trattato del 1920 erano destinati a uno Stato curdo, mai formato. Di lì in avanti, la riduzione al silenzio dei curdi è una spirale di repressione e rivolte. Peraltro questo divieto di lingua – che è una violenza enorme – viene praticato anche negli altri due Stati artificiali che hanno inglobato i territori curdi dopo la dissoluzione dell’Impero Ottomano, ovvero Siria e Iraq. E lo stesso è anche in Iran.
Nel romanzo compare la figura di ‘Apo’ Abdullah Öcalan, capo della guerriglia curda e del Pkk (Partito dei Lavoratori del Kurdistan), considerato padre della patria da quel popolo. Durante la tua permanenza in Kurdistan che giudizio hai ricavato riguardo alle responsabilità italiane nella cattura e conseguente detenzione del loro eroe nazionale?
Anzitutto, io credo che tra decenni penseremo a Öcalan come oggi pensiamo a Mandela: ambedue spacciati come pericolosi terroristi comunisti, in realtà due persone che hanno saputo immaginare una nuova configurazione sociale. Poi, certo, è da vedersi se la nazione curda riuscirà a farsi, e al momento la situazione è disperante, quanto alla sua parte turca almeno. Quanto alla sua cattura, che ne ha fatto un sepolto vivo nel carcere di Imrali, a me pare chiara la responsabilità negativa del nostro governo di allora che non ebbe il coraggio di dare le doverose garanzie a qualcuno a cui peraltro, dopo la sua cattura, un tribunale ha riconosciuto il diritto allo status di rifugiato. Così è anche per alcuni dei curdi con cui ho parlato. Altri, invece, mi dissero che in fondo D’Alema non poteva fare diversamente, essendo interno a un campo imperialista: diciamo che nelle loro affermazioni ho visto un eccesso di ideologismo.
La figura della donna, fondamentale all’interno della società, socializzazione dei servizi dentro le comunità, giustizia sociale… Sembra che il Kurdistan stia diventando un laboratorio di comunismo libertario che se dovesse funzionare metterebbe in crisi e demolirebbe le basi sulle quali si fondano non solo l’autoritarismo turco, ma anche le sedicenti democrazie occidentali basate sulla disuguaglianza e sulla frammentazione sociale. Forse è per questo che la resistenza curda non ha molti ‘amici’…
Certamente sì. Il Pkk è nella lista delle organizzazioni terroriste, e i curdi di Siria del Pyd sono di fatto un tutt’uno col Pkk. La loro prospettiva è inaccettabile per tutti i loro vicini. Se del resto nessuno ha mai dato loro le armi pesanti di cui avrebbero bisogno, questo è il motivo (e nonostante questo, ha contrattaccato vittoriosamente le bande dell’Isis).
Tornando al tuo romanzo, ho una curiosità ‘tecnica’. So che come titolo del libro non sempre viene accettato quello proposto dall’autore, anzi, quasi sempre è l’editore a sceglierne uno che abbia maggior potenzialità commerciale. La guerriera dagli occhi verdi è il titolo che tu avevi pensato di dare al tuo lavoro?
Per i miei libri, ogni volta è stato differente. In questo caso, io non avevo trovato un titolo che mi convincesse. Questo lo ha proposto l’editore, segnatamente Antonio Franchini, e, dopo averci riflettuto, mi è parso sintetizzasse una questione di fondo, ovvero lo sguardo: perché per me si trattava di far vedere il mondo attraverso gli occhi di Avesta Harun. E perché dire ‘occhi’, per me, significa dire ‘anima’: perché, al contrario del detto comune, l’anima è lo specchio degli occhi.
Ti ho fatto questa domanda perché il titolo del tuo libro mi ha rimandato all’episodio della morte di Asia Ramazan Antar, da tutti i giornali definita “l’Angelina Jolie curda”, per la vaga somiglianza con la famosa attrice. In quel caso il puntare la lente sull’aspetto fisico della persona aveva ottenuto l’effetto di sviare l’attenzione del lettore dal fatto che la ragazza fosse una guerrigliera, in lotta contro i macellai dell’Isis e consapevole che la sua giovane vita era in costante pericolo. Più che la bellezza si sarebbe dovuto esaltarne il coraggio, la generosità, la coerenza…
Ma infatti il titolo del mio libro mica dice che la guerriera è bella. Forse che tutte le donne con gli occhi verdi sono belle? Era semplicemente – come raccontano tutti i suoi compagni partigiani, e te lo dicono tutti quelli che l’hanno conosciuta, e nella narrazione questa cosa torna diverse volte – la sua caratteristica più evidente. E mi pareva bello un titolo che specificasse un concetto universale come ‘guerriera’ (e non, appunto, ‘guerrigliera’, che è meno universale) con una caratteristica che la singolarizzasse, che la rendesse concreta, ‘proprio questa qui’. Insomma a me pare proprio il contrario dell’esempio che citi, in cui l’universale, invece di essere tutt’uno con l’individuale, scompare.
C’è una frase molto bella all’interno del libro che mi ha fatto riflettere. “L’ideologia [… ] non è solo pensiero […]. L’ideologia è anche come stai seduto, come mi guardi, come mi parli. Senza la vita concreta, non c’è ideologia: il pensiero scollegato dalla vita non ha alcun valore”. Io la penso esattamente così. Eppure il sentire comune vuole che le ideologie siano il retaggio di un tempo che non c’è più, che le ideologie siano morte…
Sì, l’ideologia, così come la vedono loro, è profonda unità di pensiero e azione. Pensiero e azione sono due facce della stessa medaglia, insomma, due attributi della medesima sostanza. Peraltro sanno bene che le ideologie – ovvero un sistema di rappresentazione del mondo – non possono non esistere (semmai il punto è se e quanto esse siano aperte o chiuse), e che nel mondo che afferma la fine delle ideologie c’è una sola ideologia trionfante, quella del liberalismo.
Un altro aspetto che riguarda l’identità di un popolo è quello legato alla danza. Filiz, la bambina che in seguito diventerà guerrigliera col nome di battaglia Avesta, e suo fratello Tekin, agli esordi del loro impegno politico nel movimento dei giovani curdi vogliono che la loro famiglia, padre, madre, fratelli e sorelle imparino a ballare, perché attraverso la danza smettano di vergognarsi di essere curdi, smettano di avere paura…
La danza, e in generale il riprendere e far rivivere le tradizioni, è fondamentale per il senso di appartenenza e di solidarietà. E non solo: per chi sta anni e anni in carcere la danza è una forma di sopravvivenza eccezionale alla durezza dell’isolamento, delle deprivazioni e della torture, sono realmente una forma di meditazione e di trascendimento di sé. Mi pare interessante riflettere su cosa sia l’identità che i curdi costruiscono, visto che ‘identità’ è una parola ambigua, scivolosa, pericolosa.
L’identità curda affermata dal Pkk è un’identità aperta, dinamica: non si tratta di recuperare un immaginario passato tale e quale, un’immaginaria tradizione, ma immaginarsi una ‘nuova tradizione’, selezionando il passato, usando il passato per costruire una società nuova. L’identità dei curdi non vuole affermare il ritorno alla società curda tradizionale, dove vigeva il ‘feudalesimo’ dei clan, il patriarcato, il maschilismo, il codice della vendetta, ma emanciparsi da essa, costruire una società diversa valorizzando gli aspetti positivi propri di quella tradizionale (la solidarietà dei villaggi, per esempio), trasformandola.
Come ho scritto nelle note di presentazione una peculiarità della tua scrittura è la continua ricerca e il recupero della memoria storica, impegno al quale non ti sei mai sottratto. E ora? Dopo La guerriera dagli occhi verdi cos’altro bolle in pentola?
In questo momento sto scrivendo un piccolo romanzo storico-biografico su Louise Michel, la grande pasionaria della Comune di Parigi, e sto rimettendo mano a un romanzo (un romanzo puro, intendo) che avevo lasciato inconcluso diversi anni fa. Di lavori che nascano da viaggi, in questo momento non ne ho all’orizzonte, diciamo che da questo punto di vista mi sono preso un anno sabbatico…