L’ho già detto e lo ripeto: bisognerebbe adottare decisamente le parole che il dáimon dice a Socrate: «Dovresti fare più musica». Mi passano costantemente per le orecchie sfilze di note assemblate attraverso un frullatore digitale. Hanno il dono della nitidezza, non c’è dubbio. Ma suonano falso come moneta falsa. Questo non è fare musica, fino a prova contraria. Se fossi indulgente dovrei dire che si tratta di una esercitazione accademica nel gioco combinatorio e aleatorio delle note che possono essere prodotte da un numero determinato di strumenti musicali.
Secondo questo gioco è altamente possibile che Michael Jackson abbia copiato Al Bano. Eppure la gente continua ad ascoltare musica,
e seppure in misura minore, continua a comperarla. Se fossi pessimista dovrei dire che la falsificazione di un brano a fini commerciali non importa più a nessuno. Invece, in un sussulto di ottimismo, voglio regalare ai lettori di questa rivista un disco uscito tempo fa ma sempre attualissimo. Per farlo, mi permetto di partire con una citazione che mi è venuta in mente assistendo all’ultimo delizioso film di Woody Allen, Midnight in Paris. È una frase pronunciata da uno dei più grandi illusionisti mai esistiti, l’uomo che nel momento stesso in cui si presentava a un pubblico sterminato faceva della falsificazione la sua nota distintiva: Orson Welles.
“Un amico di un altro amico una volta mostrò a Picasso un Picasso. «No è un falso» rispose il pittore. Lo stesso amico si procurò un altro presunto Picasso e Picasso disse che anche questo era un falso.
Se ne procurò un altro ma anche questo era falso, disse Picasso. «Ma Pablo», replicò l’amico «ti ho visto con i miei occhi mentre lo dipingevi». «Posso dipingere un Picasso falso al pari di chiunque altro» rispose Picasso”.
Welles si interrogò probabilmente tutta la vita sul significato del termine ‘verità’ nell’arte e nella vita. Nel far questo incontrò sicuramente sulla sua strada delle cartine al tornasole ovvero i critici d’arte, che molte volte incensano e fanno aumentare il valore economico di quadri falsi scambiandoli per veri (non si sa quanto consciamente).
A me è capitato di incontrare, invece, un disco misterioso – a partire dell’immagine del musicista in copertina, sfocata come se realisticamente una persona ignorante della tecnica fotografica l’avesse scattata. Possibile che dell’artista a nome Marvin Pontiac, nato nel 1932 da una ebrea newyorkese e da un padre africano del Mali si sappia poco, e quel poco sia anche pieno di punti interrogativi. Le note di copertina e i comunicati stampa sono pieni di lacune ma, almeno apparentemente, sono onesti nel non pretendere di acclarare la verità. Possono così raccontare che il cognome originale del padre fosse Tourè (realmente comune tra Mali e Senegal) ma che egli l’avesse cambiato al momento della trasloco familiare a Detroit in ‘Pontiac’, credendo a sua volta che fosse un nome comune americano senza ovviamente sapere che Pontiac era il marchio di auto appartenente al gruppo della General Motors (sede a Detroit) e prima ancora il nome di un leggendario capo della tribù di nativi americani Ottawa. Il bimbo, sballottato tra Detroit e Bamako (Mali) dove in apparenza riceve la sua formazione musicale di base, torna negli Stati Uniti dove si fa un nome come suonatore di armonica a bocca e si fa coinvolgere in una rissa con il leggendario Little Walter, che lo accusa di avergli rubato lo stile e lo sconfigge a suon di pugni. Umiliato, il nostro abbandona Chicago per il sud degli Stati Uniti dove si perdono le sue tracce sino al 1952.
Riemerge dall’oscurità quando pubblica per la sconosciuta Acorn Records il brano I’m a Doggy. Nel frattempo, all’insaputa di Marvin e della sua etichetta, il bootleg di un’altra sua canzone, cioè Pankakes, diventa un enorme successo di pubblico in Nigeria. Non si sa, ovviamente, chi abbia portato la registrazione pirata in Nigeria. La storia continua narrando di come egli rifiutasse di incidere per qualunque altra etichetta e di come il proprietario della Acorn Records abbia fatto fatica a persuaderlo a incidere ancora. Nel 1970, sfortunatamente (o no?) Marvin cominciò a credere di essere stato rapito dagli alieni, smise di fare musica e si dedicò a tempo pieno al contatto con le entità aliene. Arrestato una prima volta per avere guidato nudo la propria bicicletta lungo le strade della sua cittadina, Marvin emigra nel 1971 a Detroit dove il tracollo mentale continua senza sosta: in uno degli apparentemente rari momenti di lucidità confida a un infermiere una vecchia credenza africana: prendere una fotografia ritraendo una persona, significa rubarle l’anima. Per questo motivo aveva acconsentito a pubblicare una sua fotografia totalmente sfocata come copertina del suo disco migliore. Nel giugno del 1977, improvvisamente, finisce sotto un autobus e muore.
Ci sono sicuramente molte altre storie simili a questa, anche molto più strampalate, sfortunate e visionarie. Ma quello che conta è che questa biografia può essere giustificata e anzi resa credibile dalla musica prodotta dalla persona di cui si narra. Tanto per fare un esempio, pare che il grande pittore Jackson Pollack avesse confidato che l’unica musica che lo ispirava veramente era proprio quella di Marvin Pontiac. Altro esempio, dentro il disco suonano fior di musicisti della scena d’avanguardia newyorkese, come John Medeski, Billy Martin, Erik Sanko, Marc Ribot, Evan Lurie (tutti ex Lounge Lizards), Tony Garnier, Mauro Refosco, Jane Scarpantoni e via discorrendo. E anche questo è un altro titolo di merito.
Insomma, se voi come me aveste letto solo le note di copertina mentre ascoltavate il disco, avreste potuto credere legittimamen te che si trattava di un disco ‘vero’ e non già una meravigliosa falsificazione a opera del sassofonista John Lurie.
Tutto il disco è suonato divinamente, ed è continuamente come se vivessero e suonassero lì davanti a noi le anime di tutti il bluesmen neri apparsi su questa terra, allegramente a braccio di Alì Farka Tourè, Fela Kuti e Toumani Diabate e accompagnati dalla vociaccia cavernosa di un Lurie appena sveglio dopo una notte di poker in qualche bassofondo dell’Upper East Side assieme a Tom Waits e Charles Bukowski. Ci voleva il genio stralunato di Lurie per declinare la nevrosi metropolitana con lo spaesamento di un africano mezzosangue che potrebbe realisticamente essere esistito. I quattordici brani del disco scorrono via in una dimensione atemporale e se attivate il comando di ripetizione potreste trovarvi ad ascoltarlo per una mezza giornata senza accorgervene. Scommetto che qualche critico coronato avrà parlato dell’ipnotica capacità della musica africana di coniugarsi con la tristezza del blues, scordandosi ovviamente dell’anima africana del blues e del fatto che la ripetizione è intrinseca al canto di lavoro, di prigionia ma anche al canto che si esegue durante le migrazioni stagionali. Se volessi rimanere in superficie, potrei tranquillamente pensare a uno scherzo colto. Non per fare lo snob, ma tracce come No Kids, Now I’m Happy e Small Car mi sembrano perle degne di stare a fianco di Fleurette Africaine di Ellington, e potrebbero arrivare tranquillamente da Timbuktu, mentre Pankakes (il preteso successo africano di Pontiac) è figlio degno delle migliori e chilometriche performance di Fela Kuti – con la precisazione che potrebbe averla scritta Roberto Benigni – e infine Bring Me Rocks, Runnin’ Round, Sleep At Night e Power odorano del miglior distillato clandestino e afrori afroamericani in una notte di luna nera.
Che dirvi, amici cari. Per quanto ci si rompa la testa sulle teorizzazioni del falso come opera d’arte e nell’opera d’arte rimane il fatto che i narratori più grandi sono sempre quelli che narrano il falso come vero possibile. Eco ha detto di recente che per rendere credibile un falso esso deve contenere elementi di verità acclarata.
Io dico che tra tutti i mondi possibili, i falsi musicali come questo rendono in qualche modo migliore la vita, almeno perché non hanno la pretesa di volere a tutti costi sembrare veri. Mille sono infatti gli indizi – se siete smaliziati e sapete leggere tra le righe –– che possono dirvi cosa c’è dietro. Ma il gioco della sospensione dell’incredulità è l’anima stessa della rappresentazione. E dunque, regalatevi un grandissimo vero-falso disco meritevole di un posto di riguardo nei vostri scaffali.
Marvin Pontiac, The Legendary Marvin Pontiac Greatest Hits, Strange And Beautiful Music, 2000