Battiato uno e bino, il mistico e il radicale: l’altro Franco Battiato
“Mi piacciono le scelte radicali
La morte consapevole che si autoimpose Socrate
E la scomparsa misteriosa e unica di Majorana
La vita cinica e interessante di Landolfi
Opposto, ma vicino a un monaco birmano
O la misantropia celeste in Benedetti Michelangeli.”
Mesopotamia, Franco Battiato
“Ho adorato Berlino Est, poi l’ho vista con la neve e c’era un senso di pulizia e di mancanza di contaminazione da pubblicità che mi ha veramente colpito. E ho avuto la sensazione che lì la gente vivesse meglio. Quello che per gli altri è un senso di tristezza e di oppressione io l’ho trovato invece un senso di serenità”. L’aforisma discende da Franco Battiato. All’essenza (1), compendio di fisica e metafisica ‘alla Battiato’, indicativo del suo sguardo “feroce e indulgente” su uomini e mondo. Un’escatologia diagonale, mirante al Bardo ma senza esimersi dal segnalare la pornografia ontologica contemporanea. Arrivare al sinolo autentico del pensiero battiatesco rimane, insomma, prerogativa di ottiche affilate e impalpabili al contempo, significa affiatarsi con antinomie sfumate (“l’alba dentro l’imbrunire” di Prospettiva Nevski), più ancora che dialettiche. È lui stesso ad ammetterlo, in un altro estratto indicativo del libro: “Sono un uomo che vive di opposti: mi diverte dormire nei più lussuosi degli alberghi ma anche in un sacco a pelo… Le più belle vacanze le ho fatte nei conventi, dal Monte Athos ai nostri”. Tradurre Battiato resta comunque una questione di sguardi sottili, di verità assolute declinate per sfumature. Di fuggevoli prospettive Nevskij, come dichiarava egli stesso “il mio maestro mi insegnò/ com’è difficile trovare/ l’alba dentro l’imbrunire”.
Sulla scorta di inquadrature ulteriori, in parziale contro-tendenza alla sua locazione nell’esclusivo ambito esoterico, di Battiato andrebbe al contempo rilevato il radicalismo. Un radicalismo ontologico rintracciabile tanto nella cosiddetta “fase sperimentale”, quanto nell’iconoclastia pop della “svolta commerciale” (da L’era del cinghiale bianco a Mondi lontanissimi, per capirci). Prima della lunga collaborazione con Sgalambro e l’insistito concentrarsi su temi trascendenti (opzione radicale anche questa), c’era una volta il Battiato provocatore sui generis e già disalienato. Discosto tanto dai diktat movimentisti degli anni Settanta, quanto dagli abbagli individualisti dei decenni successivi. Un sovvertitore a suo modo, capace di letture antropologiche, prima ancora che politiche, a guardare bene tra le più affilate del cantautorato dell’epoca. Efficaci in quanto non precettistiche. Antinomiche sia alla virulenza della ballata tazebao, sia alla didascalia della canzone comune.
Franco Battiato è stato dunque (cant)autore etico e civile: lo è stato dai tempi di Fetus e Pollution (1972), e in declinazioni talmente lucide da far sì che il successivo apporto di Sgalambro ai testi (dal 1995 in poi) possa risultare, delle volte, persino relativo. Per dirla in altro modo: l’impronta denunciante, mistico-sufi, siculo-anglofona, saggio-citazionista di Franco Battiato, nasce come già compiuta, compiouta in sé. L’ermetismo lessicale-musicale dei suoi primi dischi, si (im)pone come passe-partout per la contestazione dello status quo…
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