L’attacco con l’Op-Ed del New York Times, il 25° emendamento, i sondaggi, l’economia che tira ma non per i salari della middle class: Repubblicani sempre più allo sbando e rischio di fuoco amico
Lo scorso 5 settembre il New York Times pubblica l’ennesimo pezzo destinato a scuotere l’opinione pubblica e la presidenza Trump. Questa volta si tratta di un Op-Ed (il termine deriva dalla locuzione anglosassone opposite the editorial page, perché in origine questi commenti venivano stampati sul lato opposto rispetto agli editoriali), che si intitola “I Am Part of the Resistance Inside the Trump Administration” (“Faccio parte della resistenza interna all’Amministrazione Trump”). Nel breve inciso che precede l’articolo vero e proprio, il Times spiega che l’autore è un “alto funzionario” dell’amministrazione Trump di cui il giornale conosce l’identità, che ha chiesto di essere protetto con l’anonimato per evitare di venire rimosso dal suo incarico. “È straordinariamente raro che il Times garantisca l’anonimato a un autore […] e il giornale potrebbe citare solo una manciata di ca-si precedenti” (1), ma James Dao, il responsabile della sezione Op-Ed, dichiara che il board del giornale, dato il contenuto dell’articolo, ha “avvertito fortemente” (“felt strongly”) la necessità di mettere il popolo americano al corrente della situazione (2). Per comprendere la portata politica del commento non vi è altra strada che riportare il testo nella sua interezza (vedi box a fine articolo) (3).
Com’era prevedibile, l’articolo ha suscitato le ire immediate del Presidente che, furente per essere stato pubblicamente descritto come un incapace sotto tutela, ha postato sul suo account twitter una sola parola, scritta a lettere maiuscole, seguita da un punto di domanda: “TRADIMENTO?” (“TREASON?”), seguita, un’ora e mezzo più tardi (quando le reti tv avevano ormai definitivamente concluso che l’Op-Ed non poteva essere considerato un atto di tradimento, almeno non secondo la Costituzione americana), da un altro twitt: “Il cosiddetto ‘alto funzionario dell’Amministrazione’ esiste davvero, o è solo un’altra fonte telefonica del New York Times sulla via del fallimento? Se l’anonimo CODARDO esiste davvero, il Times deve consegnarlo immediatamente al governo per motivi di sicurezza nazionale!”.
In effetti, che ciò che avviene nelle stanze del potere venga riportato ai media (e potenzialmente non solo a loro), non pare essere un comportamento coerente con le regole cui i pubblici ufficiali di alto livello dovrebbero conformarsi. Così due giorni dopo, a bordo dell’Air Force One, Trump dichiara ai giornalisti di aver chiesto al Dipartimento di Giustizia di investigare sull’identità dell’autore dell’articolo, e ha ribadito che quella di smascherarlo e punirlo costituisce una chiara necessità di sicurezza nazionale. Ma gli esperti frustrano anche questa ipotesi: a meno che ‘gola profonda’ non sia un membro dell’esercito, cui è vietato danneggiare o diffamare il comandante in capo, non vi sono le basi legali per far partire la caccia al responsabile, visto che al NYT non sono state rivelate informazioni secretate. Certo, il misterioso autore potrebbe essere licenziato, ma nulla di più.
Ovviamente, tutti gli alti funzionari di Casa Bianca e governo hanno preso pubblicamente le distanze dall’Op-Ed, rilasciando alla stampa dichiarazioni in cui si dicono del tutto in disaccordo con le affermazioni del misterioso autore, che rimane dunque senza nome. Ma la vicenda ha alimentato quella che i media Democratici definiscono “la crescente paranoia” del Presidente circa l’affidabilità dei suoi collaboratori, dopo le indiscrezioni filtrate sui contenuti di Fear: Trump in the White House, l’ultimo libro di Bob Woodward (4), firma di punta del Washington Post, che sarebbe uscito esattamente una settimana più tardi, il 12 settembre. Il libro è colmo di aneddoti rivelati da importanti membri dello staff presidenziale che, proprio come l’anonimo del NYT, ammettono di tenere nascoste informazioni a Trump e di ignorare alcune delle sue richieste per timore della sua incompetenza: “[Nella mia carriera] non ho mai visto un caso di presidenza così avulsa dalla realtà che la circonda”, ha dichiarato Woodward alla NBC il 10 settembre, “questo fatto non è stato considerato con la dovuta serietà. Alcune delle cose che Trump ha fatto e fa mettono davvero a repentaglio la sicurezza nazionale” (5).
Del resto, la resistenza si fa contro un invasore, e che Trump sia considerato tale dall’establishment non dovrebbe rappresentare una novità per nessuno. Tuttavia, non tutti i critici del Presidente hanno apprezzato la mossa del Times e del suo sconosciuto informatore. David Jolly, ex rappresentante della Florida, ha dichiarato su MSNBC, rivolgendosi all’autore: “Se vuoi fare qualcosa per servire la nazione, esci allo scoperto e mettici il tuo nome”. David Frum, scrittore conservatore il cui ultimo libro si intitola Trumpocracy: The Corruption of the American Republic (Trumpocrazia: la corruzione della Repubblica americana), ha messo in guardia su The Atlantic l’anonimo “eroe” della democrazia: con la sua mossa avrebbe soltanto aggravato la paranoia presidenziale, indebolendo ulteriormente il governo degli Stati Uniti.
Anche molti lettori del Times hanno avuto reazioni marcatamente negative nei confronti dell’autore dell’Op-Ed e del giornale, e hanno inondato la redazione di missive indignate: “Non è accettabile rivolgere attacchi personali su una testata internazionale sotto una cappa di anonimato”, ha scritto Jonathan Popler, un lettore di Alpharette, Georgia; “Il fallimento del trumpismo deve essere combattuto, ma un ‘colpo di Stato amministrativo’, per citare Bob Woodward, non è il modo in cui vincono le democrazie. Noi vinciamo con dibattici pubblici, assumendoci le responsabilità delle nostre sorti politiche, con elezioni libere e rispettando il principio di maggioranza”, gli fa eco Gerald Pomper, un professore di scienze politiche di Highland Park, New Jersey. E ancora Noah Lang, da Irvington, New York: “Il Presidente Trump ha ragione: l’alto funzionario che ha scritto l’attacco anonimo contro di lui è davvero un ‘codardo’. Se il funzionario e i suoi amici repubblicani avessero un minimo di fegato, il Presidente cui affermano di resistere se ne sarebbe andato da un pezzo” .
Ari Fleischer, ex portavoce della Casa Bianca (2001-2003), in un articolo pubblicato da Usa Today intitolato “L’Op-Ed del New York Times tradisce Trump e gli elettori. I membri dello staff non devono guidare gli Stati Uniti” (6), aggiunge qualcosa di più. Partendo dal presupposto che “se accetti di lavorare per il Presidente, devi credere nel Presidente, non solo nelle sue politiche”, Fleischer afferma che è un preciso dovere dei membri dello staff far partecipe il Presidente del loro eventuale dissenso e consigliarlo privatamente su come sia più opportuno agire, ma che in ogni caso il Presidente è libero di decidere come comportarsi. Se un membro dello staff non si sente più in grado di supportare il comandante in capo, o ha dubbi sulla sua capacità di fare il suo lavoro, lui (o lei) “deve comportarsi onestamente e dare le dimissioni. A quel punto, può uscire allo scoperto e dire quel che gli pare. È una tradizione americana e può essere un comportamento nobile. Ma farlo mentre si è ancora alle dipendenze del Presidente è disonesto e autoreferenziale”.
Disonesto perché il misterioso autore vuole conservare il suo posto di lavoro e, nel contempo, coprirsi le (s)palle nel caso le cose per Mr Trump dovessero volgere al peggio. Autoreferenziale perché “chi diavolo è lui per decidere quale sia la giusta direzione? Gli americani hanno risolto il problema quando, piaccia o no, hanno eletto Donald Trump nel 2016. Secondo la Costituzione, è compito del Presidente decidere quale sia la ‘giusta’ direzione”. Sono gli elettori a decidere l’orientamento della Repubblica e, se al popolo americano non piace quel che Trump sta facendo, voterà in modo che alle elezioni di midterm che si svolgeranno il 6 novembre prossimo (7) prevalga il Partito Democratico. E con questo arriviamo a un nodo cruciale per la comprensione degli eventi (e della politica editoriale del NYT): le elezioni di midterm.
Come dichiara il Washington Post con apparente naïveté (8), le discussioni successive alla stampa dell’Op-Ed hanno “contribuito a mettere in ombra la pubblicazione di diversi dati economici positivi”, prevista per due giorni più tardi, che non hanno avuto l’attenzione mediatica che meritavano. Il Dipartimento del Lavoro ha annunciato infatti lo scorso 7 settembre che il mese di agosto è stato il 95° mese di fila in cui l’occupazione è aumentata senza interruzioni, e con un incremento sostenuto, pari a 201.000 posti di lavoro. Anche gli stipendi sono in crescita, il primo segnale incoraggiante dopo anni di stallo. Ma soprattutto, il Pil è cresciuto del 4,1% nel secondo trimestre del 2018, e questo è il dato migliore dal 2014 (9).
Bisogna ammetterlo, sul versante economico gli americani viaggiano col vento in poppa: crescita sopra il 4%, disoccupazione al 3,9%, inflazione al 2%, indici Dow Jones e Nasdaq ai massimi: se il celebre adagio It’s the economy, stupid! vale, Trump non dovrebbe avere nessun problema nelle elezioni di novembre. In effetti, i sondaggi mostrano che l’economia è uno dei pochi comparti in cui il Presidente si avvicina al tasso di gradimento ritenuto convenzionalmente necessario per aggiudicarsi anche il secondo mandato.
Da qui la necessità, per gli avversari (politici e mediatici), di mantenere l’attenzione dell’America focalizzata su temi in cui le performance di Trump siano decisamente peggiori, come la politica estera, o addirittura di infangarne l’immagine con ogni mezzo disponibile. La ‘staffetta’ fra Washington Post e New York Times è ormai da tempo smaccata, tanto che a furia di giocare sporco contro il Presidente i due giornali stanno rischiando di perdere la loro immacolata reputazione (oltre a dare credibilità alle accuse contro i media di Trump).
Tuttavia la posizione del Presidente nei sondaggi è precaria. Secondo la società di ricerche Gallup (10), gli approval ratings di Trump nel mese di settembre non sono andati oltre il 40%, mentre il gradimento medio storico dei presidenti americani (1938-2018) nello stesso periodo (il settimo quarter di presidenza) è ben più elevato, il 54%. Tutti i recenti predecessori di The Donald hanno fatto meglio di lui: Obama (45%), Bush junior (67%), Clinton (42%), Bush senior (72%), Reagan (42%), e così via fino a Kennedy e Eisenhower. Non solo: il gradimento internazionale della leadership americana ha toccato il minimo storico, e la Germania ha rimpiazzato gli Usa al primo posto nella classifica delle top-rated potenze globali, secondo il Gallup’s Rating World Leaders: 2018.
Tutto merito della strategia delle fake news? Certo, la pressione mediatica negativa si riflette nei sondaggi, ma i dati economici, almeno in parte, mentono, o almeno non dicono tutta la verità.
C’è abbondanza di motivi per cui cavillare con la sostanza delle rivendicazione economiche di Trump. È vero che growth is roaring (la crescita ruggisce) e la disoccupazione è ai minimi storici, ma i benefici della controversa riforma fiscale entrata in vigore a gennaio 2018 (11) non hanno toccato tutti allo stesso modo: se gli americani con un reddito superiore ai 19.051 dollari l’anno hanno goduto di una riduzione delle aliquote da un minimo dell’1% a un massimo del 4%, a seconda degli scaglioni di reddito di appartenenza, per i redditi più bassi (sotto i 19.051 dollari) non è cambiato nulla, e l’aliquota è rimasta immobile al 10% (e ricordiamo che negli Usa l’assistenza sanitaria gratuita non esiste, l’istruzione universitaria è a pagamento così come è necessario investire in un fondo pensione per garantirsi un reddito nella vecchiaia). Non solo, i salari crescono ancora troppo poco.
Consideriamo la situazione dei blue collar nella cosiddetta rust belt (12), uno dei bacini elettorali del Presidente: a luglio 2018 il salario lordo orario per un operaio del settore manifatturiero era pari a circa 27 dollari in Ohio, Illinois, Indiana e Wisconsin; e a circa 26 dollari in Pennsylvania, Iowa, e Michigan. Nel settore delle costruzioni le cose vanno meglio, ma non abbastanza: in Illinois si guadagnano circa 38 dollari all’ora e nello stato di New York circa 39, mentre in Indiana, Michigan, Ohio, Pennsylvania e Wisconsin siamo intorno ai 29 dollari lordi all’ora (13). Quello che il dato della disoccupazione ai minimi storici non dice è che molti sono costretti a fare due o tre lavori per sbarcare il lunario.
Di conseguenza, almeno una parte dell’elettorato bianco povero di Trump non ha probabilmente ottenuto dall’amministrazione i benefici che sperava. Non solo: le politiche commerciali di Trump, in particolare i dazi sui 200 miliardi di beni importati dalla Cina, entrati in vigore il 24 settembre, preoccupano, secondo i sondaggi, i consumatori americani per l’andamento dei prezzi in autunno: le grosse catene di distribuzione, tra cui Walmart, hanno infatti annunciato un aumento dei prezzi sui beni del settore manifatturiero.
D’altro canto, è probabile che siano stati proprio i detrattori di Trump, cioè gli americani con un alto titolo di studio, ottimi stipendi e consistenti portafogli azionari (e che non comprano beni cinesi), a beneficiare in modo più consistente delle politiche del Presidente, non solo per quanto riguarda i propri redditi personali, ma anche per le migliori prospettive di utile delle corporation per cui lavorano, la cui aliquota fiscale è stata tagliata di ben 14 punti percentuali, passando dal 35% al 21%. Tutto ciò, purtroppo, non li ha convinti a giudicare con minore severità Donald Trump e il suo operato (come dice l’adagio, beato chi non si aspetta gratitudine, perché non rimarrà deluso).
In ogni caso, il risultato della politica del Good Old Party, il Partito Repubblicano, è stato un’esplosione del deficit di bilancio: il taglio delle tasse è costato 1.500 miliardi di dollari, e a giugno 2018 il deficit era salito del 16%, a 607,1 miliardi di dollari (erano 523,1 miliardi nel 2017). In effetti, già a gennaio, dopo l’approvazione del pacchetto fiscale, l’agenzia cinese Dagong aveva deciso di tagliare il rating sovrano degli Stati Uniti da A- a BBB+ (con prospettiva negativa), convinta che la crescente dipendenza da una modalità di sviluppo economico basata sul debito avrebbe continuato a erodere la solvibilità del governo federale degli Stati Uniti: “Carenze nell’attuale ecologia politica statunitense rendono difficile l’amministrazione efficiente del governo federale, facendo sì che lo sviluppo economico nazionale deraglierà dalla strada giusta […] Riduzioni fiscali massicce riducono direttamente le fonti di rimborso del debito del governo federale”, ha dichiarato Dagong, per concludere: “La solvibilità virtuale del governo federale è probabilmente destinata a diventare il detonatore della prossima crisi finanziaria” (14).
Fatto sta che la situazione per il Partito Repubblicano in vista delle midterm elections non è affatto rosea: secondo i sondaggi relativi al mese di settembre condotti da Fox, Reuters, NBC, Economist, Rasmussen, CNN e Quinnipiac, i Democratici al Congresso hanno un vantaggio che varia dal 4 al 14%, quindi è probabile che conserveranno la maggioranza della Camera; mentre per quanto riguarda la situazione al Senato, dei 100 seggi in palio 44 sono attribuibili con sufficiente sicurezza al Partito Democratico, 47 ai Repubblicani, ma in ben 9 distretti la situazione è imprevedibile. Se fino a settembre le previsioni dichiaravano impossibile per i Democratici raggiungere la maggioranza al Senato, oggi la situazione è cambiata: “Abbiamo migliori chance di riprenderci il Senato di quanto nessuno abbia mai immaginato”, ha dichiarato il leader della minoranza democratica Chuck Schumer ad ABC News. In particolare, i Democratici dimostrano una forza insospettata in due Stati che non eleggono un democratico al Senato da trent’anni, il Tennessee e il Texas, e ciò genera un crescente ottimismo fra gli avversari di Trump.
Inoltre, secondo indiscrezioni circolate intorno a un meeting tenutosi alla casa Bianca dopo il Labor Day (15), Neil Newhouse, uno dei principali sondaggisti del Partito Repubblicano, avrebbe informato il Presidente e il suo staff che il fattore determinante per le prossime elezioni non sarà l’andamento dell’economia o la creazione di posti di lavoro, i fiori all’occhiello dell’Amministrazione, ma i sentimenti che gli elettori “provano” (“feel”) nei confronti di Trump. Secondo Newhouse la maggioranza dell’elettorato, compresa una considerevole percentuale di coloro che sono favorevoli ai Repubblicani, trova il Presidente “antipatico”.
E le ultime evoluzioni del caso Kavanaugh stanno facendo precipitare la situazione. Dopo il pensionamento di Anthony Kennedy, il 9 luglio Trump ha nominato Brett Kavanaugh (avvocato e giudice Repubblicano) nuovo membro della Corte Suprema, la più alta Corte federale degli Stati Uniti. La Corte Suprema è composta da nove giudici (un Presidente e otto associates justices) nominati a vita, con la facoltà di ritirarsi per ragioni d’età o di salute. La nomina, secondo l’article II section 2 della Costituzione americana, deve essere confermato dal Senato con una votazione a maggioranza semplice.
Prima della votazione finale, tuttavia, il candidato deve essere sentito dal Senate Judiciary Committee in una serie di udienze, cui partecipano, oltre al nomenee, testimoni che supportano o si oppongono alla sua conferma. Durante il confirmation process di Kavanaugh, Christine Blasey Ford, stimata psicologa (è stata ricercatrice a Stanford al Dipartimento di Psichiatria e ha insegnato, sempre a Stanford, alla facoltà di medicina) e attualmente professore di statistica all’Università di Pa-lo Alto (California), ha denunciato alla stampa un tentativo di stupro da parte del candidato alla Corte Suprema avvenuto nei primi anni ‘80, quando erano entrambi adolescenti. Kavanaugh ha “categoricamente e inequivocabilmente” negato che il fatto sia mai accaduto, ma il prolungarsi dell’attenzione della stampa sulla vicenda, insieme alle continue indiscrezioni, alla fine ha fatto saltare i nervi al Presidente, che all’inizio aveva tenuto un atteggiamento prudente e misurato.
Il 21 settembre Trump ha deciso di pubblicare un twitt che getta discredito sulla donna mettendo in dubbio la sua sincerità, cosa molto pericolosa negli Usa in questi tempi di Me Too: “Sono certo che se l’attacco alla Dott.ssa Ford fosse stato così terribile come racconta, lei o i suoi amorevoli genitori avrebbero denunciato immediatamente il fatto alle locali forze dell’ordine”.
L’uscita di Trump non aiuta affatto ‘l’operazione simpatia’, e mette in seria difficoltà i Repubblicani al Congresso nella prossima tornata elettorale, come testimonia una telefonata al Presidente del leader della maggioranza al Senato Mitch McConnell per esprimere tutta la sua contrarietà (16). Il tweet, infatti, aliena ai Repubblicani il sostegno delle donne e degli elettori indipendenti moderati; tra l’altro, lungi dall’essere utile, l’esternazione ha reso ancora più difficile la conferma del giudice: un sondaggio condotto da NBC News e Wall Street Journal e pubblicato il 22 settembre indica che il gradimento di Kavanaugh da parte degli americani è sceso al 34% (mentre il 42% è contro un’eventuale conferma), il che lo rende il candidato alla Corte Suprema con il più basso tasso di popolarità dal 1987.
Purtroppo per il Presidente, e ovviamente per Kavanaugh, il 23 settembre un’altra donna ha accusato il giudice dalle pagine del New Yorker di “sexual misconduct”, un termine ampio che designa un comportamento sessuale sgradito, commesso senza il consenso del partner o attraverso l’uso di violenza, intimidazione, coercizione o manipolazione. L’episodio incriminato sarebbe avvenuto all’Università di Yale durante l’anno accademico 1983-84, e la vittima, Deborah Ramirez, una compagna di studi di Kavanaugh, ha chiesto l’apertura di un’indagine dell’FBI.
Tirando le fila, Trump si conferma essere per i Repubblicani il problema che è sempre stato; e se il suo bacino di consenso, la classe media bianca impoverita, lo abbandona perché, anche se l’economia tira, di fatto non sta facendo politiche economiche a suo favore, è giunto il momento di intensificare il fuoco amico. Perché è indubbio che l’asse Washington Post/New York Times non ha mai smesso in questi due anni di attaccare Trump, e non si fa pregare per pubblicare un Op-Ed che torna a tirare fuori dal cilindro il 25° emendamento e l’incapacità a governare, ma è vero anche che è difficile appartenga ai Democratici il misterioso funzionario anonimo; il prezzo è alto, la sconfitta alle elezioni di midterm – comunque già probabilmente perse – ma può valere la pena per liberarsi del ‘corpo estraneo’ che si è infiltrato nel Good Old Party.
New York Times, 5 settembre 2018, Op-Ed
Faccio parte della resistenza interna all’Amministrazione Trump
Il Presidente Trump sta affrontando un esame della sua presidenza cui nessun altro leader americano moderno è mai stato sottoposto.
Non è solamente lo special counsel (1), che incombe minaccioso. O che la nazione è aspramente divisa a proposito della leadership di Mr. Trump. E neppure che il suo partito potrebbe facilmente perdere il controllo della Camera a favore di un’opposizione fortemente determinata a causarne la caduta.
Il problema, di cui egli non si rende pienamente conto, è che molti degli alti funzionari della sua amministrazione lavorano alacremente dall’interno per ostacolare parti della sua agenda politica e le sue peggiori inclinazioni.
Io lo so. Sono uno di loro.
Per essere chiari, la nostra non è la solita resistenza da sinistra. Vogliamo che l’amministrazione abbia successo e pensiamo che molte delle sue iniziative politiche abbiano già reso l’America più sicura e più prospera.
Ma noi crediamo che il nostro primo dovere sia verso questo Paese, e il Presidente continua ad agire in modo contrario al benessere della nostra repubblica.
Questa è la ragione per cui molti dei funzionari nominati da Trump hanno giurato di fare il possibile per preservare le istituzioni democratiche, bloccando gli impulsi più nocivi di Trump fino a che egli non sarà fuori dall’ufficio ovale.
La radice del problema è l’amoralità del Presidente. Chiunque lavori con lui sa che non è possibile rintracciare alcun principio guida all’interno del suo processo decisionale.
Sebbene sia stato eletto per i Repubblicani, il Presidente mostra poca affinità per gli ideali tradizionalmente abbracciati dai conservatori: libero pensiero, libero mercato e un popolo libero. Nel migliore dei casi, egli ha invocato questi ideali come parte di un copione teatrale. Nel peggiore, li ha palesemente violati.
Oltre al suo marketing di massa del concetto che la stampa “è il nemico del popolo”, gli impulsi del Presidente Trump sono generalmente anti-mercato e anti-democratici.
Non fraintendetemi. Vi sono aspetti brillanti che la quasi infinita copertura mediatica negativa dell’amministrazione manca di riportare: una deregulation efficace, la storica riforma fiscale, forze armate più forti e altro ancora.
Ma questi successi sono stati raggiunti a dispetto dello stile di leadership del Presidente, che è impetuoso, antagonistico, meschino e inefficace, e non grazie a esso.
Gli alti funzionari che lavorano dalla Casa Bianca ai rami esecutivi dei ministeri e delle agenzie sono disposti ad ammettere in privato il loro quotidiano scetticismo sui commenti e sulle azioni del comandante in capo.
Molti stanno lavorando per proteggere la propria attività operativa dai suoi capricci.
Nelle riunioni [il Presidente] cambia argomento ed esce dai binari, si lascia andare a invettive monotone e la sua impulsività conduce a decisioni improbabili, male informate e qualche volta incoscienti, che devono essere riviste.
“È letteralmente impossibile dire se cambierà idea da un minuto all’altro”, si è recentemente lamentato con me un alto funzionario, esasperato perché in una riunione nello Studio Ovale il Presidente aveva fatto marcia indietro su un’importante decisione politica presa soltanto una settimana prima.
Questo comportamento erratico sarebbe più preoccupante se non fosse per degli eroi sconosciuti che lavorano dentro e intorno alla Casa Bianca. Alcuni dei suoi assistenti sono stati descritti dai media come cattivi, ma in privato hanno fatto di tutto per mantenere le decisioni pericolose all’interno della West Wing (2), sebbene non abbiano sicuramente avuto sempre successo.
Può essere di scarso conforto in quest’epoca caotica, ma gli americani dovrebbero sapere che ci sono adulti nella stanza. Siamo pienamente consapevoli di ciò che sta succedendo. E stiamo cercando di fare ciò che è giusto anche contro la volontà di Donald Trump.
Il risultato è una presidenza a due binari.
Consideriamo la politica estera: in pubblico e in privato, il presidente Trump mostra una preferenza per gli autocrati e i dittatori, come il Presidente della Russia Vladimir Putin o il leader della Corea del Nord, Kim Jong-un, e dimostra poco apprezzamento sincero per i vincoli che ci legano alle nazioni alleate, che hanno i nostri stessi pensieri.
Acuti osservatori hanno notato, tuttavia, che il resto dell’amministrazione agisce in un’altra direzione, nella quale Paesi come la Russia sono accusati di ingerenza indebita e puniti di conseguenza, e gli alleati ovunque nel mondo sono rispettati come pari invece che ridicolizzati come rivali.
A proposito della Russia, per esempio, il Presidente era riluttante a espellere così tante spie di Putin come ritorsione per l’avvelenamento di un ex agente russo in Inghilterra. Si è lamentato per settimane perché i membri di alto livello del suo staff avevano permesso che finisse invischiato in nuovi battibecchi con la Russia, e ha espresso insoddisfazione per le sanzioni che gli Stati Uniti continuano a imporre al Paese per il suo comportamento negativo. Ma la squadra della sicurezza nazionale ha più buonsenso: queste misure andavano prese, dato che Mosca era ritenuta responsabile.
Questo non è opera del cosiddetto deep state (3). È opera dello Stato forte.
Data l’instabilità che molti testimoniano, all’interno del governo si è iniziato presto a mormorare di invocare il 25° emendamento (4), che avrebbe innescato una complicata procedura per rimuovere il Presidente. Ma nessuno intendeva accelerare una crisi istituzionale. Perciò faremo quello che possiamo per orientare l’amministrazione finché, in un modo o nell’altro, questa situazione avrà termine.
La preoccupazione maggiore non è ciò che Mr. Trump ha fatto alla presidenza, ma piuttosto ciò che noi, come nazione, gli abbiamo permesso di farci. Siamo sprofondati insieme a lui e abbiamo permesso che i nostri discorsi venissero spogliati di ogni civiltà. Il senatore John McCain (5) lo ha espresso nel modo migliore nella sua lettera di commiato. Tutti gli americani dovrebbero dare ascolto alle sue parole e sfuggire al tranello del tribalismo, con l’alto obiettivo di unirci intorno ai nostri valori comuni e all’amore per la nostra grande nazione.
1) Robert Mueller, incaricato di indagare sugli sforzi del governo russo di orientare le elezioni presidenziali del 2016
2) L’ala ovest della Casa Bianca che ospita gli uffici presidenziali
3) L’espressione deep state indica una situazione politica in cui un organo interno allo Stato, come per esempio le forze armate o le autorità pubbliche (i servizi segreti, la polizia, la polizia segreta, le agenzie amministrative o qualsiasi branca che si occupi della burocrazia di governo) non risponde alla leadership politica civile
4) L’emendamento che disciplina la procedura di rimozione del Presidente Usa in quanto incapace di esercitare i poteri e i doveri del suo uffizio
5) Il senatore dell’Arizona morto il 25 agosto per un tumore al cervello, che ha sempre negato il suo sostegno a Donald Trump
1) Michael M. Grynbaum, Anonymous Op-Ed in New York Times Causes a Stir Online and in the White House, New York Times, 5 settembre 2018
2) How the Anonymous Op-Ed Came to Be, New York Times, 8 settembre 2018
3) La traduzione è a cura dell’autore, l’originale in lingua inglese qui: I Am Part of the Resistance Inside the Trump Administration, New York Times, 5 settembre 2018
4) Coautore con Carl Bernstein della serie di articoli che hanno scoperchiato lo scandalo Watergate e provocato le dimissioni di Richard Nixon, nonchè del libro Tutti gli uomini del Presidente, da cui è stato tratto il film omonimo
5) Chris Cillizza, The reporter who broke Watergate says he’s never seen anything like the Trump administration, The Point, 11 settembre 2018
6) Ari Fleischer, New York Times op-ed betrays Trump, voters. Staffers don’t get to steer US, Usa Today, 7 settembre 2018
7) Le “midterm election” si tengono ogni quattro anni ed eleggono i 435 membri della Camera dei Rappresentanti e un terzo dei membri del Senato. Si chiamano in questo modo perché cadono nel mezzo di ogni mandato presidenziale, due anni dopo la nomina del Presidente
8) Josh Dawsey, David Nakamura, Philip Rucker, Trump says Justice Department should investigate anonymous op-ed author, Whashington Post, 7 settembre 2018
9) Stephen Collinson, Trump’s right: The economy is doing well and he deserves some credit, CNN, 27 luglio 2018
10) Presidential Approval Ratings, Donald Trump, Gallup, dati al 23 settembre 2018
11) Per i dettagli della riforma, si veda Trump tax plan: the key points from the final bill, The Guardian, 19 dicembre 2017
12) La rust belt (cintura della ruggine) inizia nella parte occidentale dello Stato di New York e si estende attraverso la Pennsylvania, la Virginia Occidentale, l’Ohio, l’Indiana e la penisola inferiore del Michigan, terminando nell’Illinois settentrionale, nell’Iowa orientale e nel Wisconsin sudorientale; è la zona degli Usa in cui le condizioni di vita sono drammaticamente peggiorate a seguito della contrazione della produzione industriale
13) Cfr. Blue Collar Earnings In Rust Belt, Ecoomic research Federal Reserve Bank of St. Luis, 1 aprile 2018
14) Allarme debito: l’agenzia Dagong taglia il rating degli Usa da A- a BBB+, Il Sole 24 ore, 16 gennaio 2018
15) Quest’anno la festività americana del Labor Day è caduta lunedì 3 settembre
16) Cfr. https://edition.cnn.com/videos/politics/2018/09/23/kavanaugh-accuser-tweets-trump-mcconnell-vpx.cnn