di Giuseppe Ciarallo |
Recensione de La città degli untori, Corrado Stajano
La Milano di Corrado Stajano è un susseguirsi di luoghi del tormento; il libro, il percorso tra le stazioni di una metropolitana via crucis. L’incipit de La città degli untori, ad anticipare il rosario di nefande storie vissute all’ombra della madonnina, potrebbe tranquillamente recitare: nel primo capitolo doloroso si contempla… L’autore, nato a Cremona ma milanese d’adozione, si aggira per la città alla ricerca di un’umanità perduta, umanità intesa come sentimento di solidarietà e fratellanza e non come consorzio di bipedi almeno apparentemente raziocinanti.
Se immaginiamo che le città, al pari degli uomini che le abitano, possano portare tracciata nel proprio genoma la mappa di potenziali malattie, per Milano le speranze di salvezza sono minime, avendo nel proprio dna il seme di quel male incurabile che dal 1600 in poi periodicamente si ripresenta, anche se sotto diverse forme, in tutta la sua recrudescenza: la peste. È peste, certo, quella che nel 1630 devasta il capoluogo lombardo, e che in una folle ricerca di un agnello sacrificale spinge le autorità a utilizzare qualsiasi metodo, comprese la delazione e la tortura, per individuare i temibili diffusori del male: gli untori. In questo clima da caccia alle streghe, a farne le spese sono un povero barbiere, tale Giangiacomo Mora, e il suo presunto complice Guglielmo Piazza, additati come propagatori del contagio da due pettegole e sospettose vicine di casa del Mora. I due malcapitati vengono condannati a pene terribili e, inutile dirlo, non fanno una bella fine; infatti “il Senato decretò che issati su un carro, e dapprima morsi con tenaglie roventi, e amputati della mano destra, avessero rotte le ossa con la ruota e intrecciati alla ruota, fossero trascorse sei ore, scannati, e quindi inceneriti”. Dopodiché sulle macerie della casa del Mora, rasa al suolo, viene eretto il simbolo stesso dell’ignominia: la colonna infame.
Ma Stajano non si ferma alle origini, e con continui salti temporali mostra una città dal volto irrimediabilmente deturpato dagli effetti del terribile male.
È peste anche quella che uccide, il 19 marzo 1980, il magistrato e docente di criminologia Guido Galli, freddato davanti all’aula 305 dell’università Statale da tre colpi di P38 esplosi da un commando di Prima Linea, omicidio che avrebbe dovuto “disarticolare il potere giudiziario” e “costituire stabilmente lo schieramento proletario rivoluzionario” e che ottenne invece la sola disarticolazione dei movimenti a sinistra del Pci, stritolati dalla violenza repressiva e sistematica dello Stato opposta a quella, spesso delirante, dei vari partiti armati.
È peste quella che fa esplodere – in quel tragico 12 dicembre 1969 che ha scompaginato il vivere di un’intera nazione per gli anni a venire – la bomba presso la filiale della Banca Nazionale dell’Agricoltura di piazza Fontana. Di peste muore l’anarchico Giuseppe Pinelli, colto da “malore attivo” prima di volare dal quarto piano della questura di via Fatebenefratelli. E in questo affare non manca neppure il presunto untore, individuato nel ballerino, anch’egli anarchico, Pietro Valpreda, che alla fine dei processi protrattisi per decenni si vedrà scagionato da ogni addebito.
E cosa sono, se non peste, le sventagliate di mitra dei miliziani della Legione Ettore Muti, che nell’agosto del ’44 trucidano quindici antifascisti e partigiani in piazzale Loreto, lasciando i loro cadaveri esposti per giorni e giorni come monito alla popolazione? I benpensanti che ancor oggi giudicano una barbarie l’esposizione nel medesimo luogo delle spoglie del duce, della Petacci, di Bombacci, Pavolini e Starace, sono persone di memoria corta, che evidentemente ignorano o fingono di ignorare la cieca violenza del fascismo in generale e dei repubblichini in particolare, quando la loro parabola stava per volgere al termine.
Peste sono le azioni repressive e le decimazioni che il boia nazista, capitano Theo Saewecke, ordina dalla sede delle sue SS in via Santa Margherita, e peste è la follia di Pietro Koch, a capo di una banda di fanatici sadici, torturatori per piacere ancor più che per convinzione politica, i quali nel loro tetro covo, la tragicamente famosa Villa Triste, frustano, umiliano, seviziano, amputano (e qui, in un atroce déjà vu, torna l’immagine del destino riservato ai poveri Mora e Piazza), uccidono in allegria, tra una bottiglia di champagne, un tiro di cocaina e una siringa di morfina, sottratta agli ospedali e al dolore dei feriti di guerra.
Ma sono tanti i luoghi contagiati nei quali Stajano, con il cuore stretto in una morsa, ci guida, quasi fosse un Virgilio perso in una Milano infernale. L’Ortomercato, centro nevralgico degli affari di una ’ndrangheta sempre più violenta e aggressiva, il Palazzo di Giustizia da dove l’Italia onesta avrebbe potuto ripartire azzerando corruzione e malaffare e diventato, nelle parole di corruttori e malaffaristi, covo di comunisti assassini, toghe rosse, “antropologicamente diverse dal resto della razza umana”. E poi via Solferino, sede di quel Corriere della Sera che non dedica una riga alla morte di uno dei suoi giornalisti più prestigiosi, Giulio Alonzi, partigiano amico di Ferruccio Parri, torturato proprio a Villa Triste dalla banda Koch. Quello stesso Corriere che incensa la figura di Indro Montanelli e che contribuisce a creare il mito del giornalista integro, schietto, tutto d’un pezzo, che non si presta a giochini di potere. Stajano, forse in una delle pagine più riuscite dell’intero libro, così descrive “il padre del giornalismo italiano” al quale sono stati intitolati i giardini di Porta Venezia, con tanto di statua dorata che lo raffigura seduto, con la sua Lettera 22 sulle ginocchia: “Forcaiolo anarcoide, modello del fascista che in un fantasioso domino di date apocrife cancella il suo passato, reazionario travestito da vecchio saggio, abile nell’apparire controcorrente, italiano selvaggio e acuto, giornalista di arcani istinti, è riuscito a render credibile la favola di essere uno che gliela canta chiara ai potenti dei quali è al servizio”. E qualche pagina dopo ce n’è anche per Dino Buzzati il quale, dopo l’8 settembre ’43, quando trentacinque redattori del Corriere firmano una “dichiarazione di cessazione dal servizio” per non rendersi complici di una direzione del giornale al servizio dei nazisti, “seguita a scrivere come se nulla fosse accaduto, con la sua penna d’oca di finto bambino”.
Dov’è finita, si chiede sconsolato l’autore, quella Milano dura, ma anche affettuosa, ironica, partecipe, accogliente e dall’antico spirito solidale?
Cosa ne è stato della tanto ostentata capitale morale d’Italia, centro del potere finanziario, con una solida storia industriale alle spalle e una lunga tradizione liberale figlia dell’illuminismo? Come dire: che razza di città è quella che oggi permette la dismissione di una fabbrica attiva e in salute, come l’Innse di Lambrate, per mere questioni di speculazione edilizia? Che futuro può avere una comunità che costringe i suoi operai, razza in via d’estinzione e oramai ultimi sacerdoti del culto del lavoro, a scelte estreme come il salire su una gru o altre similari altitudini per difendere l’unica fonte di sussistenza delle proprie famiglie?
La risposta sta forse nella deleteria mutazione (questa sì, antropologica) verificatasi in quel buco nero della storia chiamato ‘anni Ottanta’, periodo oscurantista della ragione che ha trasformato la Milano del lavoro nella spensierata ‘città da bere’ (e, per alcuni, da sgranocchiare avidamente) che al confronto, a volte aspro, tra una borghesia rigorosa e illuminata nata dalla tradizione liberale e una classe operaia compatta, organizzata e preparata, ha sostituito l’attuale guerra tra bande, incontrollabile, frutto dell’egoismo e del razzismo più sfrenati, perenne lotta senza possibili vincitori e vinti capace solo di produrre quotidianamente frotte di offesi e rancorosi cittadini.
Per completare l’opera di “archeologia del presente” (come argutamente Massimo Raffaelli ha definito dalle pagine de La Talpa Libri, il lavoro di Stajano) io personalmente avrei aggiunto un capitolo al libro. Come catalogarle, se non peste anch’esse, le cannonate del generale Fiorenzo Bava Beccaris che durante i moti del 1898 lasciarono sul selciato, disseminati tra Porta Venezia, il Carrobbio, Porta Romana e Porta Cicca, ottanta morti e almeno quattrocento feriti: uomini, donne, vecchi e bambini falciati come su un campo di battaglia dalla ferocia di un folle, colpevoli di essere poveri, disperati di fronte all’aumento della farina e del costo del pane, spesso unico alimento per intere famiglie. Il Re buono, a strage conclusa ringraziò il generale conferendogli una particolare onorificenza: la Croce di grand’ufficiale dell’Ordine militare di Savoia. Due anni dopo, il 29 luglio 1900, l’anarchico Gaetano Bresci, partito da Paterson nel New Jersey, nel parco di Monza attuò il suo proposito di vendetta, giustiziando l’untoRe Umberto I.
E giocando fino in fondo al gioco di Stajano, che gioco non è, mi sbilancio anch’io e tento una (nemmeno troppo) azzardata previsione riguardo alla prossima, definitiva esplosione del contagio, collocandola in un futuro assai prossimo, e cioè nel 2015. E davvero non bisogna essere Nostradamus per capire il perché.
La città degli untori, Corrado Stajano, Garzanti, 2009