intervista di Massimo Vaggi |
Milena Magnani scrive dei margini del mondo. Scrive storie di profughi, immigrati, rom. Racconta da punti di vista inusuali, a volte impossibili, come nel folgorante inizio de Il circo capovolto (Feltrinelli, 2008) (1), così enfatizzando la possibilità della narrativa di offrire sempre nuove chiavi di lettura del reale. Per fare questo, da tempo ha scelto la strada maestra di una lingua fortemente caratterizzata dalla ricerca dell’uso sapiente della parola e della figura retorica, da un lirismo fiabesco che veste di panni affettuosi una verità e un mondo atroci. Senza nasconderne alcunché, ma facendoli desiderare e amare. Delle volte il vento è stato oggi ripubblicato da Kurumuny, in una versione rivista, dopo una prima edizione di Vallecchi nel 1996.
Il vento, delle volte, ritorna. Hai deciso di pubblicare di nuovo il tuo romanzo, seppure riveduto, a distanza di sedici anni dalla prima edizione uscita per Vallecchi. Ci sono ragioni o scelte particolari che ti hanno spinto in questo senso?
Chi conosce il mercato editoriale sa che la permanenza di un titolo in libreria oggi è davvero molto breve. Le leggi del marketing non premiano i romanzi che, pur avendo una loro nicchia di lettori e un loro apprezzamento, non vendono un certo numero di copie nei tempi stabiliti, e quindi il destino di finire ‘fuori catalogo’ è un’esperienza che segna la vita di tante scritture, anche di valore.
Di fronte a questo scenario, quando un editore si fa avanti per proporre la ripubblicazione di un romanzo, si ha il conforto di constatare come il proprio lavoro non si sia completamente sfilacciato nel marasma del mercato librario ma abbia lasciato un filo di dialogo aperto con un interlocutore concreto. Questo restituisce motivazione al proprio impegno di scrittore e a tutta la fatica di ricerca che abita dietro un certo modo di concepire la narrativa.
A parte questo aspetto, devo dire che la vicenda di cui tratta il romanzo è una vicenda che considero per tanti aspetti ancora attuale, l’incontro di due donne che si svolge all’epoca dei primi sbarchi degli albanesi sulle nostre coste pugliesi, e che porta in sé tutte le incongruenze e le contraddizioni a cui il fenomeno dell’immigrazione di massa ci ha esposto nel tempo.
La cronologia ci dice che il romanzo parla di fatti che potrebbero essere accaduti nel 1992, o giù di lì. In ogni caso subito dopo la caduta del regime comunista in Albania e la grande fuga verso le spiagge italiane. A distanza di tutto questo tempo, è storia ancora attuale? Ha un valore che ritieni universale?
L’esodo degli albanesi verso le nostre coste altro non è stato che il preludio a un processo che si sarebbe cronicizzato di lì a poco. Mi riferisco allo sbarco ininterrotto dei profughi sulle nostre coste come fenomeno inarrestabile di cui facciamo esperienza tutti i giorni. Va però precisato che nel romanzo non mi sono concentrata tanto sulle ragioni che hanno portato i cittadini migranti a partire alla volta del nostro sbandierato benessere, quanto piuttosto sulla debolezza del nostro modello culturale, quel modello di società liberale e consumistica che si continua a dimostrare impreparato a fronteggiare l’alterità.
Nella vita della protagonista Carmela succede infatti che di colpo appaia l’altro, quell’altro rispetto al quale il mare è stato per decenni muro di confine, quell’altro che oltre a toglierci sicurezza, ci mette in crisi come cittadini. E questa alterità è raccontata attraverso il personaggio di una donna albanese incapace di adattarsi a un Occidente scintillante. Una donna albanese irriducibile, che si rifiuta di scendere a compromessi con la nuova realtà sociale e cerca di proteggere la propria integrità dietro un fragile recinto di cartoni costruito davanti al mare.
Rispetto a questa figura, ciò che mi pare possa essere tuttora attuale nel romanzo è l’esigenza di rovesciare lo stereotipo del migrante come colui che si tuffa a pesce nelle braccia dell’Occidente.
Dopo aver trascorso un periodo di tempo in Albania immediatamente dopo la caduta del regime di Ramiz Alia, feci infatti esperienza di un certo tipo di umanità albanese, legata ai propri sogni e alla propria terra. Un tipo di umanità che all’epoca degli sbarchi non mi sembrava più di riconoscere e che di certo non aveva nulla a che fare con l’iconografia del migrante per come ci veniva rappresentata dai media. Per questo raccontare dell’incontro tra Carmela e Lume è stato un modo per ridefinire i contorni della realtà, per dire che ‘l’altro’ che assalta la nostra costa al grido di Lavdi Italis!, non è solo un predatore di benessere, ma anche e soprattutto un cittadino ferito a cui la cultura del grande Capitale ha spezzato i sogni e il legame con le proprie radici.
Di universale nel romanzo c’è sostanzialmente questo, il bisogno di guardare sotto una lettura omologante dei fenomeni per rintracciare un filo di senso che consenta di incontrare l’altro per quello che realmente è.
La protagonista è una donna inquieta, alla ricerca di una serena speranza. Lume, ragazza albanese che sembra ai più tormentata da un equilibrio precario, è in realtà lo specchio della sofferenza della protagonista, tanto che la sua stessa esistenza le diventa indispensabile. Per capire cosa?
Carmela, la protagonista salentina, vive in un contesto sociale nel quale il disincanto e la disillusione sono l’orizzonte di riferimento prevalente.
Il crollo delle ideologie che anima lo scenario culturale nel quale vive non viene sostituito da nulla ed è sempre più difficile per lei come giovane donna pensarsi all’interno di un progetto di senso collettivo. Per questo la figura della profuga albanese che non riesce ad adattarsi a un modello sociale basato sul consumismo liberista, rappresenta per la protagonista proprio ciò che non trova intorno a sé, la fedeltà a un’idea, a un’idea intesa come progetto politico sulla realtà.
Nello specifico del romanzo questa idea è quella di uguaglianza sociale, l’idea marxista di redistribuzione della ricchezza a cui la protagonista è stata socializzata nell’infanzia grazie al rapporto con un vecchio zio migrante e operaio, militante del partito comunista. Importante per me è stato lo sforzo di sottolineare lo scarto che si è creato tra la fede pulsante nella purezza di un’idea, e la realtà sociale con cui le protagoniste si misurano: da un lato la realtà albanese in cui una bieca dittatura ha impedito completamente la realizzazione di un comunismo sano e rispettoso dei diritti, e dall’altro la realtà salentina dove le lotte bracciantili e le occupazioni delle terre non sono servite a fermare lo strapotere di una classe dominante arroccata sui propri incontrastabili privilegi. In questo senso il sogno politico delle due donne si rinforza nel rapporto reciproco, creando una sorta di circolarità sempre più chiusa.
Il romanzo è ambientato nel Salento, terra di suggestioni di mare, di vento e di infinito. Per rispetto alla verità degli eventi o perché solo in quel luogo potevi immaginarla?
Il Salento è una terra piena di suggestioni. Una terra che racchiude in sé tutto l’irrisolto del passaggio tra mondo arcaico e modernità. Una terra da secoli crocevia di popoli, profughi e conquistatori, intreccio di lingue, di etnie e di storie. Per questo lo ritengo il luogo privilegiato in cui poter raccontare dell’incontro tra Lume e Carmela. Oltre a essere il lembo di terra italiana che ha fronteggiato realmente il primo esodo di massa degli albanesi arrivati con i barconi della speranza, è anche parte di quel sud Italia da cui negli anni ’50 e ’60 partirono gli uomini per cercar fortuna verso le fabbriche della Svizzera e della Germania o verso le miniere del Belgio. È una terra che esprime al suo interno grandi contraddizioni perché se è vero che porta ancora gli echi delle lotte dei bracciantili contro il latifondo, è anche vero che proprio in Salento avviene lo sfruttamento del lavoro migrante, avviene che giovani uomini senza permesso di soggiorno lavorino alla raccolta dei pomodori in condizioni di schiavitù. Proprio queste contraddizioni mi sono sembrate la giusta cornice per raccontare un disorientamento.
Nel romanzo il piano della verità comune e quello simbolico si sovrappongono, come fossero strati della stessa materia, che si chiamano l’un l’altro. Il serraglio di cartoni della protagonista, le sua braccia aperte, il mare, il vento… Per te è questo il senso narrativo di un romanzo, quello di aprire sulla realtà porte difficilmente visibili attraverso chiavi camuffate?
Per me il senso narrativo di un romanzo è quello di mostrare più sguardi possibili sulla realtà, provare a cambiare il punto di osservazione in modo da constatare come i fatti della vita abbiano una molteplicità di possibili letture. È proprio nello scardinamento delle certezze che il gesto letterario può mostrarsi nella sua forma nuda e carico di implicazioni simboliche. Il serraglio di cartoni dietro cui Lume si trincera è per certi aspetti la stessa barriera difensiva dietro cui noi costringiamo all’autoesclusione molte realtà sociali. Basti pensare ai campi rom, la stessa barriera che delimita il campo, è spesso edificata dai rom stessi ed è la misura della loro sfiducia a essere compresi e a essere accolti.
La lingua. Erri De Luca, di quella usata nel tuo romanzo Il circo capovolto, ha detto che era “sorella gemella della musica”. In questo romanzo, se vogliamo, accentua la sua caratteristica lirica, sognatrice, suggestiva.
Erri De Luca è stato per me un grande maestro. Devo alla sua scrittura una certa inclinazione a usare la parola in modo musicale. Sono sempre stata affascinata dalla sua capacità di raccontare la durezza della realtà attraverso parole che non infieriscono sulla stessa ma soltanto la accompagnano. Per parlare poi dello specifico di questo mio romanzo, devo dire che probabilmente la sua stesura risente degli influssi della musica popolare salentina. Prima infatti di accingermi alla scrittura del testo, ho condotto una ricerca approfondita sulla cultura popolare di quella terra, scoprendo quanto la sua anima musicale sia un elemento per essa imprescindibile.
In questo senso ho ritenuto importante inserire nel romanzo testi di canzoni popolari, canzoni d’amore e di lotta ma anche i testi delle pizziche tarantate, che sono le musiche con cui le donne
morse dalla taranta, accompagnavano la propria danza di liberazione. Ritengo che la tradizione musicale di un territorio ne costituisca quasi una spina dorsale capace di spiegare la realtà in modo più esaustivo di tante elucubrazioni teoriche.
Ci sono infiniti modi per raccontare la realtà, e i mezzi di riproduzione ci consentono di aumentarne a dismisura le potenzialità. In questa iperbolica offerta comunicativa, c’è uno spazio di specificità della narrativa? Oppure è solo l’uso del linguaggio, e lo studio delle sue potenzialità espressive, a renderla unica? A renderla arte?
La narrativa a mio parere è solo uno dei possibili sguardi sulla realtà. Ciò che la rende unica è il fatto di consentire la decostruzione dei mondi, è il fatto di poter raccontare la realtà attraverso uno sguardo che non si ferma alla lettura bidimensionale, ma ne scandaglia i movimenti emotivi andando oltre la rappresentazione piatta che una telecamera potrebbe fare. Non so poi dire se questo sia sufficiente per far assurgere la narrativa alla categoria di arte. Per quanto mi riguarda artistico è tutto ciò che porta a un guizzo di stupore, ciò che riesce a emozionare e a nutrire lo sguardo di energia creativa. Artistico è ciò che mi sposta da una lettura monodimensionale della realtà, togliendomi qualche volta anche sicurezza.
Milena Magnani è nata a Bologna nel 1964. Sociologa, è impegnata nel settore dell’educazione e
dell’accoglienza. È redattrice di Nuova Rivista Letteraria. Ha pubblicato L’albero senza radici (Nuova Eri, 1993), Il circo capovolto (Feltrinelli, 2008) e Delle volte il vento (Vallecchi, 1996, Kurumuni, 2012). Un suo racconto compare nella collettanea Lavoro Vivo (Alegre, 2012).
(1) Cfr. Rom, sinti, manouche, gitani. Un circo senza nani e ballerine, Luciana Viarengo, Paginauno n. 7/2008