Giuseppe Ciarallo
Breve storia della rivista Il delatore, pubblicazione di belle lettere e storia
(2ª parte) – Leggi la prima parte qui
Nel marzo 1964, con rigenerato ardore riprende la pubblicazione de Il Delatore interrotta nel marzo 1959. Nuova casa editrice, spostamento della direzione da Roma a Milano, apertura di una redazione francese (56, rue des Tournelles, Paris 3), grafica rinnovata, il numero 1 della nuova serie esce con una splendida copertina di Roland Topor, estroso illustratore, scrittore, drammaturgo francese dalla spiccata sensibilità surrealista. Il tema scelto per il nuovo esordio: la Follia.
Apre il numero una Lettera ai direttori dei manicomi firmata La révolution surrealiste 1925; seguono un testo di Jean Genet (Santa Osmosi), una Lettera al sindaco di Palermo di Leonardo Sinisgalli, autore già presente nei numeri della vecchia serie, un racconto (Il verme che danza) di Raymond Roussel, scrittore francese considerato l’ispiratore della letteratura potenziale e della letteratura combinatoria. Un numero bello ricco, come si può vedere, che prosegue con tre contronovelle di Anton Germano Rossi, una chicca di Marcello Marchesi (Piccola Posta Parrocchiale), un sonetto di Enrico Colombotto Rosso, un testo di Luciano Bianciardi (Della pazzia lombarda) più altre follie varie, scritte e illustrate, e disegni originali di Siné, Topor, Colombotto Rosso, Vanna De Angelis, François Dellegret, Davide Boriani, Leonardo Sinisgalli, Jean Boullet e Antonio Ligabue.
In chiusura del numero, insieme a varie pubblicità di libri, case editrici e della Libreria Feltrinelli di via Manzoni 12 a Milano, compare un curioso Invito ai lettori che recita: “Medici, massaie, garagisti, scienziati, ladri, sacerdoti, minatori. Saremmo indiscreti a chiedervi i vostri ricordi? Perdonateci: noi ve li chiediamo. Ognuno ha un ricordo interessante, d’amore, di guerra, di avventure fisiche o mentali; qualcosa insomma che ha lasciato una traccia nella sua personalità. Mandateci il vostro più curioso ricordo, scritto in forma breve e possibilmente a macchina: Il Delatore conta di dedicare un numero appunto ai ricordi, a cui tutti siete chiamati a collaborare. […] Inoltre, siete voi disegnatori? Diventatelo. Inviateci i vostri disegni e quadri, eseguiti in modo ingenuo, come vi sentite. […] Ricordate che l’espressione artistica non è solo di competenza dei cenacoli letterari, è invece una delle poche possibilità concesse perfino ai braccianti pugliesi”.
Per quanto riguarda il numero 2 mi piacerebbe sapere da quale recondito angolo di fervida mente sia potuta scaturire l’idea che ha portato a scegliere quale argomento tematico il Gergo della Malavita. Dunque, alla prefazione di Mino Maccari seguono un testo di Alphonse Boudard sull’influenza della lingua italiana sull’argot francese, un ricchissimo dizionario colmo di termini strani e fantasiosi – alcuni noti, altri del tutto sconosciuti – canzoni della mala milanese e romana, illustrazioni e fumetti tratti da giornali a cavallo tra 800 e 900, veri e propri mini-saggi su specifici argomenti (la funzione del tatuaggio – quando il decorare il proprio corpo con disegni e scritte era ancora roba da avanzi di galera, marinai e legionari, e non un modo di essere à la page – gli usi e costumi dei camorristi, gli stupefacenti) per concludersi con un articolo di Camilla Cederna dal titolo Il gergo della bella vita nel quale la scrittrice, ribaltando l’argomento trattato, per contrasto racconta lo slang dei VIP, del jet-set, i tic linguistici di chi mescola parole inglesi e francesi a termini inventati, di quelli che sono morti, finiti, distrutti, e mai semplicemente stanchi, che adorano tutto ciò che piace loro, che odiano, detestano, abbominano ciò che invece non è di proprio gusto.
Sfogliando il numero 3, dedicato al Silenzio, il primo accostamento che mi viene da fare è con il film di Mel Brooks L’ultima follia, omaggio al cinema muto nel quale l’unica parola, nell’ultimo fotogramma della pellicola, viene paradossalmente pronunciata… da un mimo (l’insuperabile Marcel Marceau). Nel nostro caso, parimenti, il numero è interamente costituito da disegni, vignette prive di testo (di artisti che in seguito sarebbero diventati autentici fuoriclasse dell’illustrazione, quali per esempio Pippo Coco, Giuliano Rossetti, Prosdocimi, Athos) preceduti da una lettera al direttore – unico testo scritto, oltre all’editoriale di Bernardino Zapponi – del disegnatore Roland Topor, nella quale l’artista francese spiega, dopo la retorica e provocatoria domanda “Perché disegno invece di usare la dinamite?”, che cosa egli intenda per comicità, umorismo e arte.
“Mo, Mo, Morte/smettila di uccidere/che farai che farai/quando tutti/uccisi ci avrai?/Anche tu/morirai…/Mo, Mo, Morte/pensa alla vecchiaia/risparmia un po’ di vite/per allora/o Signora/attenta all’inflazione/di putrefazione. /Mo, Mo, Morte/tu non hai paura/della congiuntura?/ Risparmia un po’ di vite/fa un po’ d’economia/comincia dalla mia/Mo, Mo, Morte/ e così sia”. Questo simpatico componimento (Le twist macabre) firmato Marcello Marchesi, ben rappresenta lo spirito con cui viene affrontato il tema della Morte nel quarto numero della rivista, cosa peraltro abbastanza frequente nella società occidentale dell’epoca, penso al cabaret dei Gufi da noi, o alla poetica sempre in bilico tra serio e faceto delle canzoni di Brassens in Francia.
E in bilico tra serio e faceto sono anche i testi (e le immagini) contenuti nel numero 4, testi di Milena Milani (il racconto Il suicidio), di Giorgio Soavi (Il padrone dei cancelli d’oro), accompagnati da fantasiose rubriche quali i Decessi nella fantascienza, 31 maniere di augurare la morte in Sicilia, dalle foto Le tombe del boom – al Cimitero Monumentale di Milano, e Il macabro nei francobolli, curiosissima carrellata sulla rappresentazione della morte in filatelia, più tante altre cose ancora.
E arriviamo, con il numero 5 della seconda serie, all’epilogo della storia de Il Delatore. Cosa è successo? Mancanza di lettori e conseguenti problemi economici? Calo dell’estro e della capacità di rinnovamento? Non lo sapremo mai. Tutti i protagonisti di quella eccezionale esperienza non sono più tra noi e, ripeto, in rete non sono reperibili notizie in merito. Comunque la rivista chiude i battenti con un colpo di coda ben assestato, dedicando il numero di commiato a I Travestiti. E qui succede una cosa strana per un periodico con una vocazione così spiccata per la satira: proprio su un argomento che più di altri può offrire il fianco tanto alla battutaccia greve quanto alla benevola presa in giro, il registro utilizzato cambia repentinamente, virando verso l’analisi sociologica.
Bernardino Zapponi fa un excursus sulla pratica del travestitismo partendo dalla mitologia greca, attraversando la storia della Roma imperiale, passando poi per l’Oriente delle Mille e una notte, l’Italia rinascimentale, fino a giungere al presente e al cinema di Renoir. “Non è il diffondersi (sic) dell’omosessualità che genera i travestiti; da tempo gli studiosi hanno stabilito che le due categorie sono indipendenti, e non sempre coincidono. Alcuni sostengono che nell’uomo che indossa abiti femminili ci sia un desiderio estremo e paradossale della donna” scrive il direttore, e conclude con un impeto di modernismo che lo pone in notevole anticipo sui tempi rispetto alla morale della sua epoca: “La femminilità, la virilità sono parole non più sacre e immutabili, appartengono a un vocabolario fuori uso, come il termine onore [si tenga presente che le parole
qui pronunciate sono datate marzo 1965, e che in Italia le attenuanti legate al cosiddetto ‘delitto d’onore’ sono state abolite con la legge 442 solamente il 5 settembre 1981, n.d.a.]. Uomini e donne continueranno a esistere e a vivere insieme senza più bisogno che i compiti e i limiti reciproci siano così classicamente netti”.
Seguono un Censimento dei principali travestiti professionisti, un curioso articolo (a firma Ennio Flajano) fotograficamente documentato, sulla compagnia teatrale I Legnanesi ancor oggi attiva, una visione psicanalitica del fenomeno travestitismo, di Magnus Hirshfeld, una serie di norme della legislazione italiana in merito, tratte dal Dizionario di Criminologia, scritti sul travestimento rituale nelle varie civiltà, un racconto di Bruno Munari (Una serata in casa), poi la parola ‘FINE’, non prima di aver annunciato l’uscita del numero 6, previsto come Rapporto sul fotoromanzo, che non vedrà mai la luce.
Tirando le somme di un’esperienza indubbiamente molto interessante, come si può definire, dunque, Il Delatore? La prima immagine che mi balza alla mente è quella del gioco in voga tra gli artisti che aderivano al movimento surrealista, chiamato Cadavere squisito. I surrealisti davano estrema importanza, nella creazione dell’opera, a percorsi fino ad allora mai battuti dagli artisti, quali l’attivazione dell’inconscio, la casualità e l’azione corale. Tra le tecniche usate, come già detto, figurava un particolare divertissement di gruppo dal nome tipicamente surrealista ‘cadavre exquis’, che a grandi linee consisteva in questo: il partecipante iniziale scriveva su un foglio di carta una frase, la prima che gli veniva in mente, dopodiché piegava il foglio in modo che il suo scritto venisse celato e che il successivo ‘giocatore’ scrivesse la propria frase, anch’egli secondo l’estro del momento, senza conoscere il contenuto della precedente.
Anch’egli piegava poi il foglietto in modo da nascondere al terzo le prime due frasi, e così via. Alla fine del gioco, srotolando la pagina si aveva un testo, naturalmente dal contenuto folle e incongruente secondo i canoni della logica, ma molto spesso divertente, frutto di pensieri lanciati a briglia sciolta, che rispondeva a quegli elementi dell’arte, fondamentali per i surrealisti, quali appunto l’inconscio, il caso e l’azione collettiva. Il nome di questa tecnica derivava da una poesia surrealista: Il cadavere squisito berrà il vino nuovo.
Oppure, altra immagine a mio avviso ancor più appropriata, è quella della pellicola americana Hellzapoppin, film comico del 1941 per la regia di Henry C. Potter – soggetto di Nat Perrin e sceneggiatura scritta a quattro mani dallo stesso Perrin con Warren Wilson – nell’immaginario collettivo opera ‘fuori di testa’ per antonomasia, nella quale vennero riversate senza soluzione di continuità una serie di situazioni assurde e di nonsense, di elementi ritenuti errori e trasgressioni dalla cinematografia dell’epoca (fermi immagine, scene proiettate al contrario, sguardi degli attori fissi verso la camera da presa, attori che parlano con gli spettatori e altre follie varie). Nel film – come nella rivista di cui si sta parlando – è arduo cercare una qualche traccia logica di racconto, volutamente (e sapientemente) sostituita da una sequenza di situazioni solo in apparenza frammentate e slegate, di rimandi metalinguistici, di citazioni.
Lo spettacolo offerto da Hellzapoppin, come da Il Delatore, è una sorta di esercizio di equilibrismo, dove lo spettatore/lettore è chiamato a immaginare la fune, su un magico palcoscenico dove si mescolano gag, balletti, canzoni, inseguimenti, capitomboli, nel film, racconti, dissertazioni, illustrazioni, frammenti e aforismi, nella rivista, in un caleidoscopico e a volte lisergico alternarsi di suggestioni, ogni volta immediatamente superate per dare spazio ad altre invenzioni, in un anarchico trionfo del nonsense. Il cinema, e parallelamente la rivista, sono solo un pretesto affinché il fruitore dell’opera possa allegramente ricomporre, a proprio modo e gusto, un contenuto mandato volutamente in frantumi, fatto di retorica, di luoghi comuni, di trucchetti.
Di una cosa sono certo, Il Delatore è una rivista datata. Questa mia affermazione, però, contrariamente a quanto si possa pensare, vuole avere un’accezione del tutto positiva. È datata perché è espressione di quel periodo estremamente vitale della cultura italiana, che fu il secondo dopoguerra, quello del cinema neorealista, della prima televisione, la TV in bianco e nero che esplorava territori nuovi e ancora del tutto vergini, quello degli arguti stratagemmi per aggirare la censura o comunque i veti del bigottismo dell’epoca, il periodo delle intelligenze vere e vive, pungenti e provocatorie senza mai cadere nel volgare e nel banale, dei Marcello Marchesi, dei Luciano Bianciardi, e perché no?, dei Gianni Brera. Oggi, dopo anni di mistificazione mediatica, di bombardamento a tappeto per la sistematica distruzione di ogni istanza culturale, dopo l’azzeramento del gusto estetico e della capacità critica di un popolo ormai avvezzo solo alla spazzatura pseudoculturale, all’appiattimento più totale, al nulla pneumatico, una rivista come Il Delatore non avrebbe alcun senso, sarebbe improponibile in quanto del tutto astruso e non immediatamente comprensibile da un pubblico anestetizzato, un prodotto del tutto invendibile che i sacerdoti del marketing, dopo un attento Consumer Survey e una mirata Demand and Supply Curve bollerebbero come No Commercial Potential.
Una curiosità, che purtroppo non potrò vedere appagata, riguarda le parole, sicuramente taglienti, che Marchesi, Bianciardi e Brera avrebbero usato per raccontarci i prodotti culturali che in questo triste scorcio di nuovo secolo sono invece considerati a pieno titolo ‘di grande potenzialità commerciale’.