di Davide Pinardi |
Verità storica e periodizzazione: da quale anno partire per lo studio del fenomeno del nazismo?
Se qualcuno vuole studiare il nazismo, da quale anno deve partire?
La questione è molto delicata, ovviamente.
Dalla notte dei cristalli del 1938?
Oppure deve risalire nel tempo e andare all’incendio del Reichstag nel ’33?
O, ancora, giungere fino alla crisi economica del ’29?
O al congresso di Versailles del ’19?
Ognuna di queste scelte (e ce ne potrebbero essere innumerevoli altre) implica una differente ‘verità storica’. Non che i fatti di per sé cambino. Ma il criterio con i quali si scelgono, la prospettiva con la quale si analizzano, il modo di leggerli, i legami e le interconnessioni che si ricostruiscono tra di loro, i nessi causali che se ne deducono, ecco, tutto può radicalmente mutare. Tutto.
Continuiamo a dimenticarlo, ma già ogni semplice cambiamento nella periodizzazione storica accentua o alleggerisce responsabilità, alibi, colpe, crimini, giustificazioni eccetera. Può far diventare vittime i carnefici e carnefici le vittime (molto spesso, beninteso, non sempre). E può mettere in una luce abbagliante fatti molto banali, oppure in un’ombra fitta episodi importantissimi: dal che ne conseguono ricadute di giudizio e valutazioni di merito che servono a sostenere interessi politici ed economici molto concreti nel presente.
Per esempio: due persone, X e Y, si picchiano a morte. Ma chi ha tirato il primo pugno? Chi ha urlato il primo insulto? Chi ha mostrato la prima mancanza di rispetto? Chi ha creato lo stato di tensione che ha generato, attraverso vari successivi scivolamenti, lo scontro?
Insomma, un evento è creato da chi analizza: costui, spesso e volentieri, lo plasma attraverso le proprie scelte. È colui che lo guarda a decidere che cosa è importante e, di conseguenza, a stabilire da quale preciso momento esso va considerato ‘verità storica’. E se uno dei contendenti sopravvive e a me potrà servire la sua alleanza, puoi star certo che troverò il modo per far risultare che la ‘verità storica’ stabilisce che aveva ragione proprio lui e torto il morto. E guai a chi si permette di dire il contrario.
Scegliere il ’38 come momento iniziale dello studio del nazismo non è una scelta casuale ma significa volerne sottolineare il carattere antisemita e razzista.
Scegliere il ’33 implica invece una evidenziazione delle matrici antidemocratiche, antisocialiste e anticomuniste del regime. Scegliere il ’29 determina un’attenzione centrale alle cause economiche e sociali che determinano, in modo irresistibile, il suo avvento.
Scegliere il ’19 comporta una denuncia delle colossali responsabilità dei vincitori della prima guerra mondiale in quello che avverrà poi.
Insomma, basta cambiare il momento dal quale faccio partire un fenomeno e quel fenomeno muta non solo perché cambia il contesto nel quale lo colloco ma perché cambia esso stesso.
Tra le scelte sopra accennate, quella del ’19 (quella che io preferisco) è la meno comune negli storici contemporanei. E c’è un motivo molto forte che giustifica questa ‘rimozione’: analizzare il nazismo partendo da lì, dalle enormi umiliazioni imposte dalle potenze imperialiste vincitrici a una rivale che aveva aspirato a sua volta a un ruolo imperialista, ebbene, questo cambio di periodizzazione contribuirebbe a trasformare radicalmente la valutazione sul nostro ultimo secolo, modificando il giudizio sull’egemonia anglo-americana che, nel bene e nel male, continua a condizionare le nostre vite (scrivo mentre l’economia americana e non soltanto americana sta tracollando…). Se gli Alleati furono i liberatori dell’Europa dal giogo nazista (risultato peraltro ottenuto distruggendo metà delle città europee e sacrificando milioni e milioni di civili per risparmiare le proprie truppe…), l’affermarsi di una diversa analisi, di una differente ‘verità storica’, rammenterebbe però che, all’instaurarsi di quel giogo, essi avevano parecchio contribuito. E come hanno contribuito a quel giogo che poi hanno distrutto, hanno contribuito ad altri gioghi che invece difendono a spada tratta.
La pace di Versailles fu infatti ingiusta e generatrice di nuove guerre, come subito capì Keynes, giovane economista allora membro della delegazione britannica. Il primo conflitto mondiale, negli ultimi mesi combattuto anche sulla base dei punti della dichiarazione di Wilson per la libertà delle nazionalità, si concluse infatti con un radicale tentativo di disgregazione della nazione tedesca. L’impero austriaco si polverizzò legittimando caoticamente tutte le rivendicazioni delle sue varie etnie, con sanguinoso strascico di guerre locali: quell’impero non era soltanto il regime cattolico degli Asburgo ma anche uno Stato multinazionale che riusciva a far convivere, bene o male, gruppi molto diversi tra loro. Quello tedesco venne stravolto in seguito all’amputazione di sue parti essenziali. Che senso aveva ingabbiare maggioranze relative tedesche in deboli Paesi ai confini della Germania sconfitta? A che cosa avrebbe portato scaricare l’intero costo della guerra (a cui si era giunti insieme, per una convergente follia bellicista) solo sulla Germania, pretendendo colossali danni di guerra, costruendo processi di colpevolizzazione assolutamente infondati, umiliando lo sconfitto?
Tutto portava evidentemente a una Germania disponibile non appena possibile al richiamo revanscista (visto che poteva illudersi di non essere stata sconfitta militarmente ma tradita dai movimenti pacifisti interni: non un soldato nemico era nel territorio tedesco al momento della pace). Era insomma preparare una nuova guerra.
Negli anni Trenta molta della denunciata ‘fiacchezza’ della politica europea nei confronti di Hitler – il tanto vituperato ancor oggi ‘spirito di Monaco’, insultando il quale si è costruita la teoria della guerra preventiva – nasceva esattamente da una sorta di ipocrita imbarazzo nei confronti di quanto di demenziale era stato fatto in precedenza.
Oltretutto il nazismo, nei primi anni di politica interna, aveva colpito soltanto i militanti dei partiti della sinistra, e questo non era stato affatto un dispiacere per Gran Bretagna e Stati Uniti.
Una domanda: si è mai indagato veramente sul sostegno occidentale a Hitler nei primi anni del regime? Sì. E i risultati sono davvero inquietanti. Ma le poche ricerche a riguardo sono rimaste nella cerchia ristretta di gruppi di professori non allineati, e l’opinione pubblica ne è praticamente all’oscuro. Oltretutto, essi sono stati spesso bollati come revisionisti: per questo, quando sento qualcuno definito con l’epiteto revisionista, mi interrogo non soltanto su di lui ma anche su chi formula l’accusa.
Le responsabilità dei vincitori della prima guerra mondiale calda ricordano molto quelle dei vincitori della prima guerra mondiale fredda (altre ne seguiranno?): i vincitori (l’Occidente) hanno cercato di fare a pezzi la potenza sconfitta, di marginalizzarla, di impoverirla, di circondarla con Paesini propri vassalli che, confidando nella protezione del ‘fratello forte’, continuano a punzecchiare la grande sconfitta. Al tempo della Germania erano Cecoslovacchia, Polonia, Austria; oggi, intorno alla Russia, sono i Paesi baltici, l’Ucraina, la Georgia, eccettera.
Possiamo stupirci che ora – passati i soliti quindici o vent’anni – la potenza sconfitta cominci a mostrarsi insofferente?