di Fulvio Capezzuoli |
La rivolta popolare, la legge Pica del 1863, le deportazioni, la ferocia di una guerra che ha prodotto le condizioni dell’emigrazione del sud Italia
In gioventù, quando ero studente, incrociai per due volte il fenomeno del così detto brigantaggio.
Su un manuale di storia a uso delle scuole superiori, il brigantaggio era rappresentato come un fatto di poco conto, avvenuto nel sud dell’Italia subito dopo il processo di unificazione, che aveva coinvolto qualche decina di malfattori che depredavano gli sfortunati che capitavano a tiro, e che altrettanti pochi soldati coraggiosi avevano affrontato e rapidamente sconfitto.
Al contrario Antonio Gramsci iniziava un articolo sulla questione meridionale, con queste parole: “Lo Stato italiano fu una dittatura feroce che mise a ferro e fuoco l’Italia meridionale e le isole, squartando, fucilando, seppellendo vivi i contadini poveri, che scrittori salariati tentarono d’infamare col marchio di briganti” (1).
Due opinioni così divergenti, ma soprattutto le parole forti usate da Gramsci, mi avevano fatto riflettere sulla diversa interpretazione di quei fatti, ma altri interessi e altre attività mi distolsero allora da quelle riflessioni. Un libro regalatomi da mio figlio (2) mi spinse, in tempi recenti, ad approfondire l’argomento. Era un’opera composta quasi solo da fotografie, di ‘briganti’ vivi ma soprattutto di ‘briganti’ morti, e le immagini di questi ultimi erano spesso orribili. Le didascalie si limitavano a indicare il nome del soggetto e, raramente, la data dello scatto, ma nulla era detto sul quadro storico-politico che aveva determinato quelle morti.
Poiché in quel tempo vivevo nel sud dell’Italia, cominciai a cercare, dapprima sui testi che trattavano l’argomento, e poi direttamente nei Comuni, nelle parrocchie, nei cimiteri, le tracce di quell’evento così sbrigativamente trattato nei manuali di storia.
Proseguendo la lunga ricerca, che mi impegnò per otto mesi, si formò, poco a poco, davanti ai miei occhi un quadro dei fatti accaduti in quegli anni, che collimava con le parole di Gramsci. Nel periodo che va dal 1861 al 1870, nell’Italia meridionale, si sviluppò un vasto movimento di rivolta contro il nuovo Stato che fu sconfitto grazie all’intervento di ingenti forze militari e che costò un numero di morti mai esattamente determinato, ma che superò senz’altro i centomila.
Se si pensa poi che più della metà delle vittime va computata fra la popolazione civile (vecchi, donne e bambini) ci si rende conto di quale impatto devastante abbiano avuto questi fatti sul nostro Paese.
A quel punto volevo trasmettere le notizie che avevo raccolto con molta fatica al maggior numero possibile di persone, ma scartai subito l’ipotesi di scrivere un saggio storico, poiché storico non sono.
Nacque così un romanzo (3) che, in quanto opera di fantasia, mi consentiva di prendere le giuste distanze dall’argomento, ma che doveva svolgersi in un contesto rigorosamente vero e ben documentato, un’opera nella quale indicare anche le motivazioni che portarono alla nascita prima e alla sconfitta poi di quel movimento.
L’Unità d’Italia
Il Regno delle Due Sicilie, nel 1860, è uno Stato ricco, che possiede i due terzi delle riserve auree di tutti gli Stati che avrebbero poi formato l’Italia, Stato Pontificio compreso. La moneta è convertibile, e la più grande industria di tutta Europa si trova a Castellamare di Stabia, vicino a Napoli, dove i cantieri navali occupano fino a 2.000 operai.
Intorno ai setifici di San Leucio, sopra Caserta, nel 1778 Carlo di Borbone aveva costruito un villaggio per gli operai, i quali vivono in casette a due piani, con servizi igienici e acqua corrente.
La Real Colonia di San Leucio ha una scuola dove i giovani apprendono l’arte della tessitura, e una ‘cassa di carità’ permette di aiutare quei lavoratori che per qualche motivo si trovano in difficoltà economiche. Inoltre, ogni anno, in occasione di particolari festività, la casa regnante distribuisce ai poveri dei sussidi in denaro.
Il benessere non era però, a quei tempi, generalizzato e i latifondisti che possedevano tutte le terre coltivabili, ne utilizzavano solo una piccola parte, quella parte che bastava loro per ricavare
grandi ricchezze. I contadini che non venivano chiamati al lavoro salariato, vivevano nella miseria, e chiedevano invano di poter avere qualche appezzamento in affitto. I proprietari preferivano che tutta la forza lavoro fosse sempre disponibile, per poter mantenere basse le remunerazioni.
Vigeva poi nello Stato un regime poliziesco che soffocava qualsiasi anelito di libertà, e chi chiedeva miglioramenti alle proprie condizioni economiche finiva in carcere accusato di sovversione. Un timido tentativo di sciopero, con richieste di aumenti salariali, proprio nei cantieri di Castellamare, nel 1856, era costato la vita agli organizzatori e la galera ai partecipanti.
Quando Garibaldi sbarca in Sicilia nel 1860, le speranze della popolazione si riversano su di lui perché viene considerato portatore di una nuova struttura sociale, capace di cambiare radicalmente le regole di vita, imposte sino allora dal Borbone. La battaglia di Calatafimi, dove i garibaldini sono nettamente inferiori di numero e di equipaggiamento rispetto al nemico, viene
vinta in meno di una giornata, indubbiamente anche per le capacità tattiche del generale, ma soprattutto perché i soldati borbonici non combattono con convinzione, contro quello che faticano a considerare un nemico. Durante tutta la marcia verso Napoli, i piemontesi vengono accolti dai contadini al grido di: “Vogliamo la terra” e Garibaldi contribuisce a creare quel tragico equivoco che avrebbe portato poi al disastro, rispondendo: “Si, prendete le terre, sono vostre”. Molti soldati borbonici passano dalla parte delle camicie rosse, convinti che in quel nuovo esercito di liberatori avrebbero potuto trovare la loro futura collocazione.
Nell’ottobre del 1860, con lo storico ‘Incontro di Teano’ fra Garibaldi e Vittorio Emanuele II (incontro svoltosi in realtà a Vairano, una decina di chilometri più a nord) l’Unità d’Italia è completata. Il Regno delle Due Sicilie perde la sua identità, ed entra a far parte del nuovo Stato. L’esercito garibaldino viene sciolto e tutte le operazioni militari passano nelle mani del regio esercito piemontese.
L’inizio della rivolta
Sotto precise richieste dei latifondisti, che hanno cominciato subito a collaborare con la nuova amministrazione, l’esercito regio provvede a sgomberare con la forza le terre che i contadini avevano occupato. Chi resiste finisce in carcere, mentre gli altri vengono comunque schedati e non troveranno più lavoro perché considerati dai proprietari dei ‘sovversivi’.
Nel meridione monta la rabbia per le speranze che sono andate deluse e per un nuovo Stato che si schiera, come il precedente, dalla parte del più forte. La miseria più nera e un futuro che
si prospetta drammatico, spinge alcuni di questi ‘sovversivi’ ad abbandonare le proprie case e a rifugiarsi nei boschi che in quegli anni erano numerosi e fitti di vegetazione.
Incontrano allora i veri briganti, personaggi che in Italia, come nel resto dell’Europa, vivevano in quei boschi, rapinando i viandanti, o uscendo talvolta dai loro nascondigli per compiere piccole scorrerie che consentivano loro di procurarsi l’indispensabile per sopravvivere. È un fenomeno, quello del brigantaggio, che affonda le sue radici nella povertà e, storicamente, è già presente in Italia sin dal tempo dei romani.
Ma anche per gli ex soldati borbonici la situazione non è migliore di quella dei contadini poveri. Coloro che hanno combattuto con Garibaldi, così come coloro che si sono arresi giurando poi fedeltà al nuovo governo, vengono semplicemente congedati, senza alcun sussidio, e con la necessità di trovarsi un lavoro per sopravvivere. Il nuovo Stato non si fida di loro, ma non si preoccupa neppure di come potranno organizzare la loro vita.
Più tragica è invece la sorte di quei militari che rifiutano il giuramento perché non vogliono rinnegare il loro re. Vengono deportati nella Piazzaforte di Fenestrelle, un complesso fortificato sito in Val Chisone in provincia di Torino, a un’altitudine superiore ai mille metri. Portano le loro divise, adatte alle calde pianure del sud ma trovano, nell’inverno del 1860, temperature ben sotto lo zero. Raggiungono rapidamente il numero di 24.000, ma l’organizzazione del forte non è in grado di provvedere al loro sostentamento. Moriranno quasi tutti, nel giro di un anno, di stenti e malattie, e i loro corpi verranno gettati in fosse comuni, coperti di calce viva. Oggi, all’interno del forte una lapide ricorda questo vergognoso episodio della nostra storia patria.
Anche una parte degli ex soldati borbonici, quelli che non sono finiti nel forte piemontese, si rintanano nelle foreste, e vanno così a ingrossare le fila di un esercito di sbandati. Ma è la leva militare obbligatoria che conduce a una svolta in questo processo di ribellione alle nuove autorità. Con la mente rivolta alle prossime guerre di conquista del Veneto e dello Stato Pontificio, il governo decide all’inizio del 1861, di arruolare i giovani del sud e ordina la coscrizione del 75% dei nati nel 1843. Le liste di arruolamento obbligatorio vengono compilate negli appositi uffici di leva con estrazioni casuali per giungere al numero richiesto di soldati. I bandi vengono affissi negli albi dei nuovi comuni, ma alla data indicata, si presenta appena il 10% dei richiamati. Gli stessi piemontesi parlano di organizzazione carente, per cui in molti casi fu accertato che i bandi non giunsero nei comuni o vennero esposti in ritardo. Inoltre in un territorio sostanzialmente agricolo dove la maggior parte della popolazione viveva decentrata in masserie lontane dal comune, molti non avevano avuto occasione di leggere il bando per tempo e comunque, vista l’altissima percentuale di analfabeti presenti nel meridione, chi anche avesse visto l’avviso, potrebbe non essersi reso conto dei suoi contenuti.
Compare sulla scena di questa storia, per la prima volta, il generale Enrico Cialdini, all’epoca cinquantenne, che aveva combattuto le prime due guerre di indipendenza. All’inizio del 1861 è solo un alto ufficiale al quale viene affidato il compito di seguire le operazione relative alla leva nel meridione.
In agosto dello stesso anno verrà trasferito a Napoli dove, fino al 1869 avrà la responsabilità della repressione del brigantaggio, con una breve interruzione nell’estate del 1866 per consentirgli di partecipare alla terza guerra di indipendenza. Non accettò in quell’occasione che il generale La Marmora, capo di stato maggiore, fosse a tutti gli effetti il suo superiore e durante la battaglia di Custoza, anziché aiutare le truppe di La Marmora che stavano soccombendo di fronte alle pur esigue armate austriache, si ritirò con i reparti da lui comandati, verso Modena, contribuendo alla tragica sconfitta italiana.
Uomo dal carattere duro, ombroso, incapace di generosità verso l’avversario sia politico che militare, si distingue da subito per la ferocia delle sue decisioni. Ordina che coloro che non si sono presentati alla leva siano considerati alla stregua di disertori e vengano quindi fucilati senza processo. Naturalmente sa di non potere mettere a morte tutti i diciottenni meridionali e consiglia allora ai suoi sottoposti di compiere azioni dimostrative, fucilando qua e là, a caso, ma sempre dando la massima pubblicità all’evento per intimorire i renitenti e costringerli a presentarsi agli uffici di leva. Nessuno sa quanti giovani caddero sotto il piombo piemontese in questa occasione, probabilmente non molti, ma l’effetto che si ottenne fu esattamente l’opposto di quello sperato.
Pur di non trascorrere sei o sette anni sotto le armi (il periodo variava a seconda della condotta tenuta dal soldato in servizio) molti giovani fuggono dalle proprie case e si rifugiano, ovviamente, nelle boscaglie.
L’esasperazione verso il nuovo governo si è ormai estesa a una moltitudine di genti, e contemporaneamente i ‘briganti’ divengono una massa considerevole di potenziali combattenti contro il nuovo nemico.
I primi successi
Il 15 Aprile 1861 Carmine Crocco Donatelli, che diverrà col tempo ‘il generale Crocco’, esce dal bosco di Lagopesole e si dirige con la sua banda forte di oltre mille uomini verso la vicina città di Melfi, che occupa militarmente dopo una breve resistenza della guarnigione locale. Fa bruciare le bandiere sabaude ed espone sulla facciata del comune quella borbonica. Durante una festa nel centro del paese, alla quale partecipano centinaia di cittadini, comunica che da quel giorno la città è liberata e che i contadini possono prendersi le terre dei signorotti locali che lui ha sconfitto.
Da oltre due mesi, quella parte della Capitanata, che oggi ha il nome di Lucania, è attraversata da questa banda di ribelli che conquista terre, castelli e città. L’uomo che la guida è un ex sergente borbonico che ha combattuto poi nelle file dei garibaldini, ma che, disciolto l’esercito di Garibaldi, è stato imprigionato per reati commessi prima dell’unificazione del Paese. Fuggito dal carcere dove era detenuto, è divenuto in breve un capo banda dalle indubbie capacità militari, la cui notorietà crescerà negli anni, tanto che, ancora oggi, è considerato il più famoso dei ‘briganti’ meridionali. Anche in Terra di Lavoro (le attuali provincie di Caserta, Salerno, Benevento e Avellino) compaiono uomini che si pongono alla guida dei ribelli e così in Abruzzo, in Calabria e in Sicilia.
Il regio esercito piemontese interviene insieme a bersaglieri e carabinieri, ma non è preparato a questo tipo di guerra; schierato in formazione di combattimento, soccombe di fronte alle operazioni di guerriglia che i ribelli attuano attaccando di sorpresa e ritirandosi subito nei boschi, dove i piemontesi non sono in grado di seguirli perché non conoscono il territorio.
I militari tornano a occupare città e villaggi ‘liberati’ e compiono le prime rappresaglie sulla popolazione civile, colpevole di aver accolto con acquiescenza il nemico, ma queste operazioni ottengono lo scopo di creare odio nei confronti ‘dell’invasore’, e simpatia intorno a coloro che combattono per una nuova libertà.
Nel giro di due anni la rivolta dilaga aiutata dall’ex re Francesco II, che dal suo esilio romano invia denaro e armi, e organizza la spedizione del generale spagnolo Josè Borjes che nell’autunno del 1861 con dodici suoi ufficiali raggiunge Crocco in Capitanata e tenta di inquadrare i ribelli in regolari formazioni militari. Ma le bande sono refrattarie a qualsiasi tipo di disciplina e Crocco non riesce neppure a capire le finalità dello spagnolo che, a dicembre, abbandona la lotta e cerca di raggiungere lo Stato Pontificio. Intercettato dai piemontesi verrà fucilato a Tagliacozzo, con tutti i suoi uomini.
Alla fine del 1862 la situazione è talmente grave che nel governo comincia a serpeggiare l’idea di abbandonare quei territori. Una commissione parlamentare si reca nel meridione e redige una relazione che verrà letta il 3 e il 4 maggio del 1863 alla Camera dei deputati. Malgrado i contenuti di questa relazione diano un quadro di miseria e abbandono da parte dello Stato di quelle genti (4), la destra al potere accetta le richieste del generale Cialdini che garantisce la soluzione del problema purché le azioni dell’esercito non siano più sottoposte alle regole della democrazia.
La repressione e la sconfitta
La legge 1409 del 1863 nota come legge Pica, dal nome del suo promotore, il deputato abruzzese Giuseppe Pica, viene approvata dal Parlamento e promulgata da Vittorio Emanuele II di Savoia il 15 agosto di quell’anno. Presentata come “mezzo eccezionale e temporaneo di difesa”, la legge sarà più volte prorogata e integrata da successive modificazioni, rimanendo in vigore fino al 31 dicembre 1865. La sua finalità è di porre rimedio al brigantaggio attraverso la repressione di qualunque fenomeno di resistenza.
In effetti fino dal 1861 i militari avevano compiuti azioni infamanti contro le popolazioni civili; la più nota di queste è la strage perpetrata sugli abitanti di Casaduni e Pontelandolfo, due piccoli paesi dell’alto beneventano, dove, il 14 agosto, una colonna di bersaglieri aveva vendicato l’eccidio avvenuto tre giorni prima a opera dei componenti della banda Giordano, di quarantacinque fra soldati e carabinieri caduti in una imboscata. Cialdini aveva allora ordinato che di quei due paesi “non dovesse restare pietra su pietra” (5).
Erano state massacrate almeno 400 persone, violentate un numero imprecisato di donne, saccheggiate le case e le parrocchie e incendiati i paesi (6).
La notizia della strage aveva provocato un’interrogazione parlamentare, ed era proprio per evitare queste ‘interferenze’ del mondo politico che Cialdini aveva premuto per una legge che gli
lasciasse mano libera. La nuova legge prevedeva che i sospettati potessero essere interrogati direttamene da chi li aveva catturati, che se tre o più uomini si trovavano insieme, e anche uno solo di loro portava un’arma qualsiasi su di sé, tutti dovevano essere immediatamente fucilati perché considerati briganti.
Nacquero come conseguenza di questa libertà di reprimere le famigerate deportazioni, che consistevano nel trasferire intere comunità rurali nella più vicina capitale di provincia, dopo che le case e i raccolti erano stati distrutti e gli animali uccisi, onde fare terra bru ciata intorno alle bande. Vennero poste taglie sui ribelli, taglie che venivano consegnate a coloro che avevano contributo alla loro cattura e successiva fucilazione. Da principio, per attestare l’avvenuta esecuzione, le teste dei ribelli uccisi venivano portate nei comandi militari, poi si passò alle fotografie dei cadaveri, e per testimoniare la cattura, i disgraziati venivano anche messi in posa prima dell’esecuzione. Come in ogni guerra nacque una spirale di violenza che contagiava tutti coloro che erano implicati in questa tragedia, e se i ribelli catturavano un soldato nemico, o meglio ancora un ufficiale, lo inchiodavano vivo a una pianta o lo lasciavano nudo esposto alle intemperie per vederlo morire di freddo. I piemontesi, a loro volta, arrivavano a torturare a morte coloro che erano stati arrestati e che erano, o talvolta erano solo sospettati, di essere briganti.
Nel frattempo Cialdini chiedeva allo Stato un numero sempre maggiore di effettivi a sua disposizione e nel 1866 erano presenti sul territorio del meridione più di 160.000 uomini fra esercito, bersaglieri e carabinieri.
Nel 1864 fu prodotto il massimo sforzo per distruggere il fenomeno in Capitanata, e Carmine Crocco, che aveva perso uno dopo l’altro i suoi rifugi e aveva visto morire i suoi compagni migliori, tradito altresì da quel Giuseppe Caruso che era stato uno dei suoi comandanti, decise di abbandonare la lotta, rifugiandosi, dopo una marcia estenuante, nello Stato Pontificio dove però papa Pio IX lo fece subito imprigionare. Restò in carcere per il resto della sua lunga vita riuscendo a scrivere, con l’aiuto di un giornalista, le sua autobiografia (7) che fu pubblicata all’inizio del ‘900, quando ormai della rivolta si era persa memoria.
La lotta continuò ancora in Calabria e in Terra di Lavoro e qui emerse la figura di Michelina De Cesare, una contadina che si unì giovanissima alla banda di Francesco Guerra, che operava nel Casertano e nel Salernitano. Divenne amante e forse arrivò a sposare il Guerra tramite un prete compiacente, anche se non esiste una prova di quest’ultimo fatto.
Quando nel 1868 la banda del Guerra fu decimata, lei continuò una lotta coraggiosa e, malgrado le inevitabili defezioni, rimase sempre un punto di riferimento per i ribelli, che riforniva di cibo e di quelle armi che toglieva ai soldati nemici dopo averli uccisi. Indomita e coraggiosa, cadde col suo compagno in un’imboscata il 31 agosto del 1868 e il giorno seguente, il suo corpo nudo fu esposto sulla piazza di Mignano sotto il Monte, suo paese di origine. I giornali del tempo parlarono di morte in combattimento, e di due colpi di fucile, al petto e alla schiena, che l’avrebbero uccisa. Dalla foto, che è oggi nel Museo dell’Arma dei Carabinieri a Roma, non si evidenziano tracce di ferite di quel genere, mentre si distinguono chiaramente ecchimosi, abrasioni e bruciature su tutta la persona.
La morte di Michelina segna la fine della ribellione; negli anni successivi restano ancora uomini che combattono contro i piemontesi, ma sono pochi e isolati; nel giro di qualche tempo verranno
catturati o abbandoneranno la lotta.
Anche Cialdini, nel 1869 lascia il meridione e diviene ambasciatore del Regno presso la Spagna.
La ribellione del sud è stata definitivamente sconfitta.
Conclusioni
La storia la scrivono sempre i vincitori, e i vinti sono privati di ogni possibilità di far sentire la loro voce. Quando, in quei tempi, il materiale che i militari avevano prodotto quale documentazione del loro operato nel corso del conflitto, giunse nelle mani degli uomini politici, questi, spaventati dalle possibili reazioni che la narrazione di simili orrori avrebbe potuto generare nell’opinione pubblica, si affrettarono a distruggerlo.
Il raccontare poi le reali dimensioni del fenomeno significava ammettere che in quegli anni e in quei luoghi si era prodotta una rivolta popolare e se ne sarebbero dovute spiegare le ragioni.
Coloro che avevano vissuto quei fatti in prima persona, o erano morti o erano in prigione o, nel caso dei militari, se ne erano tornati alle loro case e cercavano, talvolta senza successo, di riprendere una vita normale, dopo quella bassa macelleria alla quale avevano assistito o della quale erano stati addirittura gli artefici. Il tempo avrebbe cancellato ogni memoria e comunque parlare di ‘briganti’ pochi e feroci, era un modo per esorcizzare quella guerra.
Ma quella guerra produsse, con i suoi morti, i suoi feriti e le sue devastazioni, un impoverimento profondo delle genti e delle terre del nostro meridione. L’emigrazione ne fu il risultato principale, e per quasi un secolo le Americhe prima, il nord Europa e il nord dell’Italia poi, si riempirono di una popolazione che andava a cercare altrove quella fortuna che nella propria terra di origine non aveva trovato. Bisogna anche chiedersi perché una rivolta così forte e radicata nel territorio, non sortì l’effetto sperato. Certo, vi era troppa disparità fra le forze in campo, ma un elemento che mancò completamente ai ribelli, fu una corretta guida politica. “La rivoluzione senza una guida politica diviene prima o poi malandrinaggio” aveva detto Mao Tse Tung parlando della rivolta dei contadini nel sud della Cina, e questo accadde ai ribelli meridionali, che furono sempre guardati con sospetto da quella borghesia che ricordava ancora le bande di popolani guidate dal Cardinale Ruffo, che sbaragliarono la repubblica partenopea.
D’altronde anche i capi banda come Crocco o come Guerra non avevano una cultura o una preparazione che consentisse loro di impostare un progetto politico; agivano con un orizzonte temporale limitato e col tempo, per sfamare le loro bande, finivano per derubare quegli stessi contadini che avrebbero dovuto aiutare, facendoseli così nemici. Eppure, malgrado tutti questi limiti la rivolta del meridione fu l’unico caso, nella nostra storia, di un movimento di grandi dimensioni che affrontò coraggiosamente e con orgoglio la prepotenza del potere, pagandone fino in fondo le conseguenze.
È stato questo forse il motivo principale che ha spinto i vincitori a cancellarne la memoria.
(1) Antonio Gramsci, Ordine Nuovo, giugno 1920
(2) C’era una volta il brigante, Vittorio Savini, Marco Edizioni, 1995
(3) Gli anni del sole stanco, Fulvio Capezzuoli, Edimond Editore, 2008
(4) “Tanta miseria e tanto squallore sono naturale apparecchio al brigantaggio. La vita del brigante abbonda di attrattive per il povero contadino, il quale ponendola a confronto con la vita stentata e misera che egli è condannato a menare, non inferisce di certo dal paragone conseguenze propizie all’ordine sociale. Il contrasto è terribile, e non è meraviglia se nel maggior numero dei casi il fascino della tentazione a male oprare sia irresistibile”, Relazione succitata, pag. 19
(5) Brigantaggio e Risorgimento, Giovanni De Matteo, Guida Editore, 2000, pag. 210
(6) “Al mattino del giorno 14 riceviamo l’ordine superiore di entrare a Pontelandolfo, fucilare gli abitanti, meno le donne e gli infermi (ma molte donne perirono) e incendiarlo. Entrammo nel paese, subito abbiamo incominciato a fucilare i preti e gli uomini, quanti capitava; indi il soldato saccheggiava, e infine ne abbiamo dato l’incendio al paese. Non si poteva stare d’intorno per il gran calore, e quale rumore facevano quei poveri diavoli cui la sorte era di morire abbrustoliti o sotto le rovine delle case. Noi invece durante l’incendio avevamo di tutto: pollastri, pane, vino e capponi, niente mancava…”.
Dal diario di Carlo Margolfo, soldato bergamasco, fotocopia nelle mani dell’Autore
(7) Come divenni brigante, Carmine Crocco, a cura di Eugenio Massa, Tipografia Greco di Melfi, 1903