Forse qualche lettore di buona memoria ricorderà ancora un messaggio promozionale trasmesso in televisione più di una quindicina di anni fa: un’anziana signora si spostava lungo il perimetro di un muro, concentrata nella lettura di un racconto che vi era scritto sopra. Al termine del tortuoso percorso, la storia si interrompeva e una voce invitava la donna a recarsi in libreria per conoscerne la fine.
Il linguaggio pubblicitario contiene inevitabilmente un doppio messaggio: il primo, quello commerciale, mira a evidenziare la mancanza e a suscitare un bisogno; il secondo, più sincero perché inconscio, rivela la visione del mondo propria al suo autore. Nel caso in questione, il filmato, pur con tutti i suoi buoni propositi, involontariamente confermava due tra i luoghi comuni più radicati nella testa di chi non ha mai aperto un libro: la lettura intesa come attività per anziani e il retaggio scolastico della difficoltà.
Eravamo agli inizi degli anni Novanta e cominciava quella profonda ristrutturazione produttiva che avrebbe ridotto l’Impresa a semplice contenitore organizzativo di risorse, rivoluzionato il mercato del lavoro e i suoi rapporti di produzione, e sconvolto l’intera struttura sociale del paese. E il cambiamento, naturalmente non ha risparmiato l’editoria. D’un tratto il motto è diventato: vendere! Vendere! Lasciare perdere i contenuti e vendere!
Il fatto che un simile messaggio pubblicitario sia nato proprio in quella congiuntura storica lo rende un efficace indicatore; uno di quei messaggi che, con toni sfumati, sintetizzano i grandi rivolgimenti epocali. Tale cambiamento è la risultante di un insieme di pratiche che la nostra cultura “ufficiale”, coinvolta attraverso la consacrazione, non ha mai denunciato né mostra interesse a denunciare.
Naturalmente, il problema non è di esclusività italiana. Nel numero dello scorso maggio, Le Monde diplomatique ha aperto un profondo contenzioso con la cultura francese sulla pochezza intellettuale e l’afasia, da cui è soffocato il dibattito culturale da quando sono venute a mancare tre figure di riferimento del calibro di Pierre Bourdieu, Cornelius Castoriadis e Derrida. Diplò solleva in tempo reale un problema che nel nostro paese nessuno pare avvertire come tale, quando, al contrario, sarebbe di una gravità criminale il solo ridurlo all’ambito letterario, anziché considerarlo un problema di ordine sociale.
PaginaUno nasce anche con l’intenzione di affrontare tale questione e di ricoprire uno spazio critico e culturale rimasto vuoto ormai da tempo. E non perché in Italia manchino le riviste letterarie. Al contrario, ce ne sono e ne nascono. Bensì perché nella loro impostazione si nota il medesimo vizio delle pagine culturali dei quotidiani: l’adesione totale e mansueta, alle logiche di un mercato proiettato verso la riduzione della letteratura a mero strumento di intrattenimento. Un meccanismo che si riflette nel disimpegno generalizzato di cui si nutre il comune sentire nazionale.
Siamo convinti che un progetto editoriale, per il fatto di rientrare nel dominio della parola, è sempre un progetto politico. E lo è sin nei messaggi meno facilmente interpretabili per un occhio estraneo ai sottili meccanismi del sistema editoriale moderno. Come la scelta di bandire un premio letterario per racconti gialli, in un momento in cui il marketing impone il giallo o, per fare un esempio ancora più insospettabile, la scelta del romanzo da recensire in una rubrica letteraria. Da parecchi anni, ormai, la recensione, anche quando a firma dei critici più accreditati, ha smesso di rappresentare una proposta culturale, per assumere una valenza commerciale. Il che non rappresenterebbe un problema, se non venisse spudoratamente inserita nella pagina culturale. In ogni caso l’atto assume un valore politico poiché incide sulla cultura di un paese; assume un valore politico nel momento stesso in cui parifica, nei significati, la letteratura alla televisione o a un evento sportivo.
Sicuramente in Italia non si può più parlare di veri editori; di qualcuno in grado di mediare la necessità di fare andare le rotative e al contempo garantire una buona e continuativa qualità letteraria. I cataloghi delle industrie editoriali sono un povero minestrone, lontano da qualunque criterio di coerenza e distante anni luce per spessore culturale dalle idee fondatrici dei marchi dietro ai quali nascondono la loro pochezza. Esistono, certamente, alcune piccole realtà indipendenti; invisibili, oneste, poco protette e minuscole case editrici, costrette dalla grande industria a un’impari lotta su grandi numeri che le sta lentamente soffocando. Incattivite dalla continua mancanza di soldi e dalla crescente invisibilità cui sono relegate, sovente simili realtà esprimono uno strenuo desiderio di sopravvivenza che talvolta sfiora l’accanimento terapeutico. Ed è un peccato, dal momento che nei loro cataloghi, non di rado si nascondono romanzi di elevato valore culturale.
Oramai la produzione letteraria è totalmente concentrata nelle mani di grandi gruppi editoriali regolati all’interno da logiche manageriali; il che è un problema, perché in campo editoriale, quando si parla di produzione si chiamano in causa le infrastrutture culturali di un popolo.
Si sa che le industrie si muovono sul mercato alla ricerca del profitto, ma nessuno sembra riflettere sul fatto che, nel caso della letteratura, ciò significa delegare la produzione culturale al fatalismo e al contingente; esattamente come una mucca defeca per liberarsi e non per concimare. Senonché, la mucca è inconsapevolmente più onesta perché, lo voglia o meno, finisce inevitabilmente per concimare, mentre, al contrario, la tensione al guadagno attraverso la retorica del largo consenso, va a scapito della complessità del pensiero.
Un tempo la scelta dei romanzi competeva ai redattori, i quali a loro volta erano spesso scrittori pubblicati nel catalogo dell’editore per il quale lavoravano. Di conseguenza, non avevano alcun interesse a mescolare i loro romanzi con opere di discutibile qualità. Che la si chiami orgoglio di appartenenza, snobismo, o, più semplicemente, supponenza, (se non la si vuole definire amore per la letteratura) una simile dinamica garantiva una forza alla narrativa di valore qualitativo. Oggi potremmo dire, con un pizzico di nostalgia, che le garantiva l’esistenza.
È inevitabile che il commercio, nelle mani dei manager, finisca, nella telefonia come nell’arte, per assestarsi nel dominio del superfluo. E in libreria, i consumatori non vengono cercati tra i lettori veri, bensì tra chi acquista un prodotto soltanto perché se ne parla o perché visto in vetrina.
I manager editoriali sostengono essere questa la massima concretezza democratica possibile, dal momento che a scegliere la linea di produzione sarebbe la gente stessa. E, con questo pensiero infantile, dimenticano (o fingono di dimenticare o, peggio, non sanno) che il ricatto implicito in una simile dinamica, finisce per distruggere la creatività. Nel momento in cui l’autore viene mosso dal gusto del lettore, il suo pensiero cade verso il basso e abiura i valori culturali a vantaggio, ancora tutto da dimostrare, di quelli del consumo.
A questo si aggiunge la logica di vendita del mercato chiuso. La catena editoriale viaggia su cinque anelli: chi scrive il libro, chi lo pubblica, chi lo promuove, chi lo distribuisce e chi lo ordina per poi venderlo. Si parla di mercato chiuso quando, come accade in Italia, gli editori gestiscono una catena di librerie sull’intero territorio nazionale e controllano le società di promozione e di distribuzione. Il che comporta la possibilità di stabilire, in totale autonomia, quale libro venderà e, in senso più lato, decidere che cosa è cultura e che cosa non lo sia, che cosa deve piacere e che cosa no. Ferme restando le logiche di scelta del prodotto da pubblicare e da lanciare sul mercato, un simile modello di monopolio restringe la possibilità di scelta del consumatore, quando addirittura non lo costringe a confrontarsi con un’unica tipologia di prodotto, livellato al gusto della massa.
In più va aggiunto che il mercato e la politica da un punto di vista ‘ideologico’ viaggiano a braccetto. L’inesistenza delle idee soddisfa anche le esigenze di politici particolarmente interessati all’audience e a fare viaggiare rasoterra il livello culturale del dibattito.
Effetto reso ancora più efficace da una tipica pratica del mercato, oggi la più diffusa e sperimentata sugli scaffali delle librerie: il sistema della rotazione del prodotto. A renderla possibile è la suddivisione dei romanzi in generi letterari. Gialli, d’avventura, sentimentali. Libri divisi per categorie allo scopo di attirare i facili lettori da un libro al giorno; quei consumatori di pagine capaci di divorare romanzetti, come i tabagisti le sigarette. Il gioco è semplice: se all’interno dello stesso genere, un romanzo vale l’altro, indipendentemente dal nome del suo autore, occorre creare rapidi meccanismi di ricambio immettendone sul mercato continuamente di nuovi. Questi automaticamente assumono un maggiore poter d’acquisto, perché i giornali ne parlano e le industrie editoriali li spingono con un adeguato supporto pubblicitario e finanziario. E così si instaura l’abitudine a considerare il libro come un prodotto di consumo. Un Eldorado che tuttavia non manca di rilevanti danni collaterali: sviluppo produttivo a crescita esponenziale; riduzione del tempo di vita media di un romanzo in libreria, a scapito dei romanzi che, per la difficoltà dei contenuti e per la particolarità delle tematiche trattate, abbisognano di tempi lunghi per creare un proprio pubblico; e strangolamento della piccola editoria indipendente, cui vengono sottratti sugli scaffali i già ristretti spazi vitali. D’altronde, come diceva quello là? È il mercato bellezza!
Sappiamo bene che la Novità è sempre di moda.
Come sosteneva Pirandello, l’Italia è un paese senza verità. Con ciò voleva significare che, nel momento in cui gli individui non possono accedere alle prove, hanno buon gioco le istituzioni, nella forma dei tribunali, della politica e dei suoi supporti mediatici. A loro il diritto/dovere di scrivere la Storia.
Per noi, compito della letteratura è rivelare ciò che è nascosto; e dal momento che sopra abbiamo utilizzato la parola verità, aggiungiamo che sempre ciò che è nascosto è tale perché segreto. E si sa che, con il trascorrere del tempo, il segreto precipita nella fossa comune della rimozione collettiva, nel pieno interesse delle pratiche politiche e sociali che contraddicono il tanto enfatizzato credo democratico.
Oggi non si scrivono più romanzi che diano fastidio, che suscitino un dibattito o che mirino a creare coscienza. E il fatto che non se ne senta la mancanza, nemmeno tra i critici e gli scrittori stessi, è da assumere tra i problemi della società moderna. D’altro canto, ripetiamo, nessuno dei protagonisti culturali sembra riuscire a interpretare, quando ancora riesce a riconoscerla come tale, questa crisi. Quali origini ha? Culturali? Letterarie? Economico sociali? Si tratta di una crisi di restaurazione? Una crisi dei partiti della sinistra? Incapacità del sistema scolastico di individuare e consacrare i romanzi destinati a restare? Tutte questi aspetti e qualcosa di più? Noi crediamo che il problema centrale sia lo scrittore e la sua totale perdita di autonomia rispetto alle regole del mercato.
L’incipit de L’affaire Moro con cui Sciascia richiamava, con una lunga citazione virgolettata, l’articolo di Pasolini sulla scomparsa delle lucciole; Calvino che rispondeva alle polemiche politiche di Moravia in risposta a una provocazione di Parise; l’allora ministro degli interni Cossiga che si agganciava alla polemica Sciascia, Montale e Amendola; il fatto che gli scrittori entrassero nel dialogo politico assicurando in questo modo un alto profilo al contenuto del dibattito, testimoniava la piena autonomia del campo di potere letterario, tale da permettere agli scrittori di incidere sulla cultura del paese. Da quel momento in poi l’Italia si è culturalmente chiusa. È come se gli scrittori italiani moderni non riuscissero più a capire che per raccontare la ‘realtà reale’ occorre trasfigurarla, toglierla dal pattume dominante. Perché? Perché nella situazione attuale non è accettata l’idea dell’immaginazione, del diverso, del guardare aldilà dei paletti che la società periodicamente mette per muoversi. Ecco perché hanno molto successo libri che strutturalmente non hanno nulla. Perché sono perfettamente incasellati, non distruggono, non incidono la palizzata, non creano buchi e quindi sono facili da digerire. A monte di questo è chiaro che è venuto meno un vero progetto letterario che aiuti gli scrittori a interpretare la società. Prima ancora della capacità, manca la consapevolezza di potere raccontare una storia che non abbia come unico tema la semplice trama (chi è l’assassino?).
L’attuale crisi culturale, a nostro avviso, è senza precedenti; e in questo panorama, una nuova rivista ha senso solamente se pone alcuni rigidi punti fermi: a cominciare dalla ricostruzione dell’autonomia dello scrittore dal mercato. Solamente chi è indipendente è libero di esprimersi.
E per arrivare a esserlo è indispensabile che vi sia prima una sincera presa di coscienza della odierna realtà editoriale, e dei vincoli che essa impone a chi scrive; e, di conseguenza, una ricostruzione dell’intero campo letterario riconoscendo alcuni problemi legati al ruolo dello scrittore. E se per fare questo occorre trovare qualche riferimento da cui ripartire, per noi altro non può essere che il recupero dalle buone esperienze culturali e storiche di un passato nemmeno tanto remoto.
Il nostro programma di lavoro è semplice. Proporremo una diversa chiave critica dell’opera, magari anche recuperando alcuni nomi un tempo sulla bocca di tutti, la cui pronuncia oggi è diventata tabù tanto in politica (soprattutto in politica!) quanto in letteratura. Stabiliremo una piattaforma di discussione che si ponga in alternativa alla cultura cosiddetta ufficiale. La nostra scelta consisterà nell’avvalorare, attraverso la proposta di racconti (anche scritti da aspiranti scrittori), di recensioni, di dibattiti, di reportage e di interviste, un ritorno alla partecipazione sociale e politica della scrittura, senza per questo rinunciare alla letteratura.
Si tratterà di riconquistare uno spazio perduto. Purtroppo, uno spazio sulla carta geografica dell’editoria non è una zona vuota. E’ un territorio occupato a colpi di denaro e di alta produttività a scapito del pensiero. Consiste nella visibilità, per ottenere la quale occorrono mezzi adeguati. Di questo siamo consapevoli e malgrado i problemi pesantemente reali, nel nostro immaginario campeggia la speranza di vedere crescere tante realtà autonome, simili, nelle intenzioni, alla nostra rivista. Identità indipendenti con un fine comune. Identità con le quali magari poterci confrontare facendo correre il pensiero a tutto vantaggio dei lettori che ci seguiranno. In fondo, la libertà esiste solamente quando viene data possibilità di scelta. Ma la scelta è possibile se esiste alternativa. E quando non esiste, non ce n’è: occorre crearla.