di Luciana Viarengo |
Recensione de La messa dell’uomo disarmato, Luisito Bianchi
Che ci fa un libro sconosciuto ai più, pubblicato pochi anni fa e tuttora reperibile negli scaffali nell’ultima riedizione (la sesta) del 2007, in una rubrica che si occupa, se non di classici in senso stretto, di libri ragionevolmente ‘invecchiati’, a torto dimenticati e, molto spesso, introvabili nonostante il loro innegabile valore? Nel caso specifico, ci entra di diritto, e dalla porta principale.
Se La messa dell’uomo disarmato, concepito da Luisito Bianchi verso la metà degli anni Settanta, è ufficialmente apparso in libreria solo quattro anni fa, grazie all’editore Sironi, in realtà ha visto la luce per la prima volta nel 1989, quando un gruppo di amici dell’autore ha deciso di assumersi gli oneri di una pubblicazione autoprodotta. Il successo ottenuto nonostante l’assoluta mancanza di supporti ‘di mercato’, quello che solo il passaparola tributa, è sintomo inequivocabile di un valore autentico. Poi, di mano in mano, il libro è finito tra quelle dell’editore attuale, iniziando così il suo cammino attraverso canali ufficiali. Lo scrittore è un religioso che non ha fatto della propria fede uno strumento di potere né un mezzo di sostentamento, bensì un dono da condividere, dono che appare particolarmente prezioso anche a chi ne è totalmente privo.
Il sostentamento, Luisito Bianchi, anzi Don Luisito Bianchi, l’ha cercato altrove, in fabbrica come operaio, in ospedale come infermiere, nei libri come studioso e traduttore; mai nel suo ministero. E forse proprio da questo nasce la sua capacità di trovare e trasmettere il divino che alberga nell’essere umano e nelle sue azioni, una capacità che trova ne La messa dell’uomo disarmato uno straordinario strumento di espressione.
Sarebbero stati necessari più sottotitoli per orientare il lettore, ne è stato scelto uno solo per ovvi motivi ed è ‘un romanzo sulla Resistenza’. Ma quanto è riduttivo definire romanzo questo libro, affascinante come un poema epico, rigoroso quanto una storiografia e profondo come un trattato filosofico; e in quali limiti semantici rischia di farci incorrere il termine ‘Resistenza’! È vero, ci consentirà pure di collocare storicamente ciò che costituisce il cuore della vicenda narrata – sebbene l’arco narrativo vada dal 1940 agli anni Sessanta – ma la lettura ci farà scoprire quanto si dilatino il senso di quel termine e l’epoca nel quale collocarlo.
Davvero impossibile ridurre la trama nello spazio concesso, poiché da vero poema epico è un intrecciarsi di decine di personaggi, di eventi e di piani temporali. Più o meno come tentare di riprodurre il Giudizio universale di Michelangelo su un francobollo. O limitarsi a dire che è un romanzo sulla Resistenza.
Ma se il fulcro narrativo è rappresentato da ciò che l’autore chiama “il grande Avvenimento”, la vera tematica sottesa è la ricerca della Parola, come rivelazione del divino – parte essenziale del destino dell’uomo – e come divino che si fa umano, permeando di sé ogni evento, “che è in tutto e che viene a noi spezzata come tanti bocconi di pane”.
Prima ancora che direttrice delle vicende intime e collettive dei personaggi , questa tematica diviene struttura dell’opera. Il romanzo (adattiamoci dunque a definirlo tale) è diviso in tre grandi partiture nelle quali le umane vicissitudini, individuali e civili, si raccolgono sotto altrettante espressioni della Parola: il gemito, il silenzio, lo svelamento.
La prima ci introduce nella società contadina lombarda durante gli anni della guerra, tra cascine, campi di granturco, carrarecce, osterie e l’immancabile chiesa con l’arciprete (bella figura di umanista e di religioso illuminato). In questa sezione già compare la maggior parte dei personaggi, dipinti con mano ispirata, che compongono la grande storia corale del mondo contadino e che ci appaiono reali – come il ricordo di qualcuno che abbiamo conosciuto – nonostante Bianchi scelga di dare ad alcuni di loro una connotazione ai limiti dell’archetipo (come nel caso della madre Benedetta, di Maria, di Toni). O forse proprio per questo.
Con lo svolgersi degli eventi e delle loro stesse azioni divengono sempre maggiori la credibilità e la concretezza di queste figure legate alla terra, alle tradizioni, ma soprattutto ai valori che il fascismo non può soffocare. Tanto che anche i rappresentanti delle istituzioni, appena abbozzati come il maresciallo dei carabinieri, il podestà o la guardia comunale, sembrano stemperare il nero con il loro agire, finendo per apparire, secondo le parole del vecchio mugnaio Giuliano, “come i fichi, neri di fuori e rossi di dentro”.
A narrare, inizialmente con cadenza lenta e respiro ampio – in armonia perfetta con i ritmi del mondo contadino – è Franco, novizio benedettino che ha lasciato l’abbazia dopo l’allontanamento dalla stessa del suo maestro, per tornare a essere contadino alla Campanella, il podere della sua famiglia, e cercare nel rapporto con la terra e con gli uomini, anziché nella Regola, l’ascolto della Parola. La sua narrazione a posteriori è rivolta al suo maestro, dal quale ha imparato che la Parola è ovunque“nell’avvenimento, con la rapidità folgorante del lampo, nella tessitura dei gesti quotidiani, violenta come un terremoto o suadente come la brezza”. E di questa presenza è fortemente permeata la prima parte, nella sua ricerca costante da parte di Franco e nel suo manifestarsi all’interno dei cicli della natura e nel lavoro dell’uomo. Eppure è il gemito, la sua modalità di espressione, a sottolineare la pena con la quale questa ricerca viene condotta e l’approssimarsi di tempi terribili.
“La guerra scoppiò quando il frumento cominciava ad avvolgersi della sua veste di grazia e le ultime more sui gelsi morivano di troppa dolcezza”, racconta Franco che assiste in piazza alla dichiarazione, attraverso la radio messa sul balcone dal podestà, iconografico come “uno dei vescovi portareliquie che si mettono sull’altare i giorni di festa”.
Ma la guerra è ancora un’eco lontana, che penetra in paese soprattutto attraverso la dolorosa assenza dei giovani al fronte – come Piero, il fratello di Franco, ufficiale medico in Grecia – o degli uomini impiegati nella campagna di Russia. C’è solo da aspettare che finisca.
Tuttavia, l’8 settembre ogni cosa cambia, e per molti personaggi i sentieri conosciuti fin dall’infanzia condurranno alle vallate e alle montagne della resistenza partigiana. Da qui prende l’avvio la seconda parte del romanzo, la più corposa – il Silenzio – in cui anche Franco cessa di essere voce narrante, sottolineando così l’incapacità di scorgere la Parola nel sangue versato e lasciando che siano i fatti – più importanti del singolo – a raccontare, con pagine che sono al contempo documento civile e poema epico eroico.
A sottolineare ulteriormente l’incapacità di udire la Parola, nel caos e nella violenza, c’è un notevole cambio stilistico: il periodare fin qui ampio e poetico acquista sintesi e asciuttezza, quasi che anche la parola umana si ritiri. Ciò nonostante, queste pagine riescono ad avere, se possibile, ancora più forza evocativa. Se gran parte di esse non possono essere citate senza svelare eventi importanti per lo svolgersi della trama, una fra tutte può essere significativa: quella della prima rappresaglia fascista seguita a un’azione partigiana. Nonostante i militari armati impediscano di rimuovere i sei ostaggi trucidati, un uomo sconosciuto ai paesani, ma ben noto al lettore, trasgredisce incurante delle armi spianate, si carica in spalla i morti e li depone in chiesa: “L’uomo sollevò tra le braccia il giovane ucciso che gli stava davanti e s’avviò verso la chiesa. Il prete sollevò un altro morto, un vecchio si fece largo piangendo: – Mio figlio è rimasto in Russia – e si chinò, ma non riuscì a sollevare il terzo cadavere. Due donne l’aiutarono. Li deposero tutti e sei nel presbiterio che già profumava delle pulizie di natale, con la faccia rivolta alla navata perché la gente li vedesse in volto. Il tappeto delle feste si macchiò di sangue. L’uomo baciò ad uno ad uno i volti di quei ragazzi, e muoveva le labbra come se parlasse. Il prete baciò ad uno ad uno i volti di quei ragazzi. Le donne si ricordarono della funzione del venerdì santo quando si bacia il Cristo morto. E cominciarono a sfilare inginocchiandosi davanti a ciascun giovane, chi baciando la fronte, chi il costato, chi i piedi, come al Cristo morto il venerdì santo. Il prete cercò con gli occhi l’uomo che li aveva baciati per primo, ma l’uomo era scomparso”.
Quanto più scarno è lo stile tanto più forte è l’impatto emozionale e le reiterazioni ben rimarcano come solo i gesti, e non le parole, possano rispondere all’orrore.
In questa parte, nella quale vengono anche minuziosamente descritte le dislocazioni, i collegamenti e le missioni dei tre grandi gruppi partigiani, sono contenute dunque le pagine più toccanti: Piero, Stalino, Rondine, Balilla, Dom Luca e tutti i partigiani che sulle montagne vivranno il silenzio della Parola, così come i monaci che nell’abbazia saranno pronti a sacrificare la propria vita per proteggerli, sono gli eroi silenziosi e inizialmente inconsapevoli di ciò che, per sé e per gli altri, essi stanno per compiere.
La pietas con la quale Luisito Bianchi dà loro vita, i gesti misurati, il pudore dei sentimenti, la fede incrollabile e la scelta ineluttabile delle loro azioni, tutto contribuisce a esaltarne il sacrificio.
A rendere queste pagine straordinarie è soprattutto la mancanza di ‘mitologia partigiana’. Il valore della comunità, il sentimento condiviso, l’aggregazione appaiono ancora più preziosi in quanto indotti non da figure trainanti di capi coraggiosi ma da una spinta intima e naturale dei singoli personaggi sotto l’egida di valori condivisi, di libertà e di democrazia ma, per molti di loro, soprattutto di uguaglianza e di benessere sociale. La lotta sulle montagne ha come scopo la fine di un’era di violenza ma anche di profonda ingiustizia sociale e in nome di questo scopo, nel nome di una società nuova, i partigiani offrono il proprio sacrificio anche se non a tutti è chiaro il fine ultimo del loro agire e a prescindere dalla lettura che di questo farà la Storia.
Il libro si conclude con lo svelamento della Parola, la parte riservata a chi è sopravvissuto e alle nuove generazioni. Tornando voce narrante, Franco tira le fila della sua lunghissima ricostruzione, indispensabile per comprendere ciò che gli appare come un martirio e superare la crisi profonda provocata in lui dal non sentirsi parte attiva della Resistenza – nella quale include anche l’esperienza analoga del suo maestro. E il suo racconto diviene memoria viva, necessaria a entrambi, per portare il peso del ruolo di sopravvissuti che li accomuna, e per dare spazio, nelle ultime pagine, alla speranza che ciò per cui i morti hanno lottato sia ancora possibile.
‘L’homme armé’, è una melodia, un cantus firmus sul quale molti musicisti rinascimentali composero messe polifoniche, e il cui testo parla dell’uomo che “sarà temuto, perché armerà se stesso con un’armatura di ferro”. Ma quello della messa di Luisito Bianchi è un uomo disarmato. E se possiamo ravvisarlo, in modo diretto e immediato, nel monaco Dom Luca – che per scelta e autorizzato dal proprio abate, segue i partigiani sulle montagne rifiutandosi tuttavia di imbracciare le armi e limitandosi a portare con sé il moschetto di un amico caduto, rigorosamente scarico e per giunta appeso alla spalla sbagliata – al termine della narrazione sono altri gli uomini che ci appaiono davvero disarmati: sono i sopravvissuti, quelli che come Franco o Dom Placido, il suo maestro, hanno assistito al silenzio della Parola sentendo vacillare il senso stesso della vita; coloro ai quali il martirio della Resistenza ha rischiato di apparire vuoto e inutile perché i valori per i quali esso è accaduto sono stati disattesi e traditi da chi è venuto dopo.
Nel superamento di questa crisi, nella capacità di perdonarsi per non essere stati parte attiva, e di comprendere che la partecipazione è anche perpetuare ciò che i morti hanno avviato, sta la forza immensa del messaggio che Luisito Bianchi affida al suo alter ego Franco: resistere. Opporsi con il proprio agire alla sopraffazione di un potere che dimentica l’uomo, a un finto vivere fatto di compromessi e di passiva accettazione, all’oblio dei valori di libertà e di uguaglianza in nome dei quali gli uomini della Resistenza hanno dato la loro vita. È questo il credo connaturato a molti personaggi del libro. Per alcuni mediato dall’ascolto della Parola, per altri semplicemente da una scelta etica e politica.
In ogni caso, mai come in questo nostro tempo senza memoria o, peggio, con una memoria deformata, le voci dei morti della Resistenza che si levano dalle pagine di Don Bianchi ci sono sembrate così limpide e vere.
La messa dell’uomo disarmato, Luisito Bianchi, Sironi Editore, 2003