Razzismo e discriminazione: l’aspetto giuridico e quello culturale, nella società dei consumi
Nel corso del 2013 il tema del razzismo, o più correttamente della discriminazione, è stato molto presente nelle cronache del nostro Paese, e in contesti sociali distanti fra loro.
Curve a gomito
Con l’inizio dell’anno sportivo sono entrate in vigore le nuove norme imposte dalla Federazione internazionale contro il razzismo negli stadi. I cori contro i giocatori di etnie diverse da quella caucasica dominante sugli spalti (razzismo tout court), nonché contro i tifosi di città diverse da quella di casa (il neonato ‘razzismo territoriale’), porteranno automaticamente alla chiusura della curva che si rende colpevole del tifo scorretto.
Il provvedimento miete subito vittime: viene chiusa la curva della Lazio per cori razzisti contro i giocatori di colore della Juventus, e quella del Milan per cori scorretti contro i tifosi del Napoli (la celeberrima canzoncina del “Senti che puzza, scappano anche i cani, stanno arrivando i napoletani” con quel che segue, ormai un classico del calcio italiano se si pensa che è in voga dai tempi di Maradona).
In quest’ultimo caso alle lamentele contro il provvedimento dei diretti interessati (tifoseria e dirigenza), si è straordinariamente unita la solidarietà degli ultrà napoletani (cioè le vittime), che in sostegno ai colleghi milanisti hanno esposto nella successiva partita in casa uno striscione con scritto “Napoli colera”. Sindrome di Stoccolma?
Vizio di famiglia
“Non farei mai uno spot con una famiglia omosessuale, non per mancanza di rispetto ma perché non la penso come loro, la nostra è una famiglia classica dove la donna ha un ruolo fondamentale”, dichiara il 25 settembre 2013 Guido Barilla, presidente del gruppo Barilla, cui era stato chiesto a La Zanzara su Radio24 come mai nelle pubblicità della sua azienda non comparissero famiglie ‘diverse’. Ma la pasta la mangiano anche i gay, osservano i conduttori della trasmissione: “Va bene, se a loro piace la nostra pasta e la nostra comunicazione la mangiano, altrimenti mangeranno un’altra pasta. Uno non può piacere sempre a tutti”. Apriti cielo.
All’immediata insurrezione del mondo web, che lancia proposte di boicottaggio dei prodotti Barilla (comprate i nostri!, esulta Buitoni, che pure ai consumatori gay mai si era interessata), si accodano Aurelio Mancuso, di Equality Italia (“Nessuno ha mai chiesto alla Barilla di fare spot con le famiglie gay [tranne i conduttori de La Zanzara, n.d.a.] è evidente che si è voluta lanciare una offensiva provocazione per far sapere che si è infastiditi dalla concreta presenza sociale, che è anche un segmento importante di consumatori. Raccogliendo l’invito del proprietario della Barilla a non mangiare la sua pasta, rilanciamo con una campagna di boicottaggio di tutti i suoi prodotti”), Fabrizio Marrazzo, presidente di Gay Center (“Dopo le dichiarazioni di Guido Barilla ci chiediamo se dovesse scegliere come testimonial tra Obama e Giovanardi chi sceglierebbe. Il primo è a favore dei matrimoni gay, il secondo è un omofobo. Alla Barilla scegliere le strategie di comunicazione migliori”), e Alessandro Zan, deputato di Sel ed esponente del movimento gay (“Aderisco al boicottaggio della Barilla e invito gli altri parlamentari a fare altrettanto”).
Anche il presidente della Camera Laura Boldrini si lancia in una tirata sul ruolo della donna nella pubblicità e, in particolare, sulla mamma che serve la famiglia a tavola, e la pressione è tale che il povero Guido Barilla è costretto a fare marcia indietro, chiedere pubblicamente scusa, e incontrare i responsabili nazionali delle associazioni Lgbt (lesbiche, gay, bisessuali e trans) italiane, per riappacificarsi con la comunità omosessuale, cui dovrà presentare a breve “proposte concrete” per rimediare al danno. Le mamme che servono a tavola, non avendo un’associazione di categoria, non sono state interpellate.
Neanche morto
L’11 ottobre 2013 muore a Roma Erich Priebke, capitano delle SS durante la seconda guerra mondiale. Scontava agli arresti domiciliari la sua condanna all’ergastolo per aver partecipato alla pianificazione e realizzazione dell’eccidio delle Fosse Ardeatine. Il funerale si sarebbe dovuto svolgere il 15 ottobre ad Albano Laziale, nella cappella dei Lefebvriani, gli unici che si sono dichiarati disponibili a celebrare le esequie, ma è scoppiato il caos. Decine di manifestanti prendono a calci e pugni il carro funebre, aggrediscono un sacerdote accusato di voler celebrare il rito religioso e tentano di sfondare il cancello della chiesa. Alla fine il funerale viene sospeso per ordine del prefetto, e nella notte la salma di Priebke è trasferita all’aeroporto militare di Pratica di Mare, alle porte di Roma, dove resta in attesa che qualcuno decida come farla arrivare alla famiglia in Germania. Al momento in cui scriviamo non sono noti ulteriori sviluppi, ma chi ritiene che una degna sepoltura si debba anche ai nemici (come Barbara Spinelli su Repubblica), deve addirittura scomodare l’Antigone di Sofocle per rendere la propria posizione meno invisa al comune sentire.
E la nave va
Il 3 ottobre una ‘nave della speranza’ con a bordo 500 persone va a fuoco al largo di Lampedusa, causando 385 morti. La strage è sul web, in tv, sui giornali. I politici sfruttano l’emozione collettiva che circonda la vicenda per ottenere visibilità, chiedendo chi un alleggerimento, chi un inasprimento della legge Bossi-Fini in modo da evitare per il futuro disastri simili. Quello che a nessuno piace ricordare è che l’Italia è stata condannata dalla Corte europea per violazioni gravissime dei diritti umani fondamentali (sentenza CEDU 23.02.12 n. 27765, Hirsi e altri v. Italia), per violazione del principio di non-refoulement (non respingimento).
I morti alle frontiere dell’Europa di cui i media si sono occupati sono stati dal 1988 a oggi (dicembre 2013) 19.372, e nel solo Canale di Sicilia si contano negli ultimi dieci anni più di 6.000 vittime. Secondo l’Asgi (Associazione studi giuridici sull’immigrazione), “particolare preoccupazione suscita la normativa italiana relativamente al diritto d’asilo sia per la perdurante mancata attuazione con norme organiche dell’art. 10 terzo comma della Costituzione [“Lo straniero, al quale sia impedito nel suo Paese l’effettivo esercizio delle libertà democratiche garantite dalla Costituzione italiana, ha diritto d’asilo nel territorio della Repubblica secondo le condizioni stabilite dalla legge”, n.d.a.] sia per la disorganicità e le carenze delle norme italiane vigenti, derivanti in modo pressoché esclusivo dal recepimento delle direttive Ue sull’accoglienza dei richiedenti asilo, sulle procedure di esame delle domande e sulle cosiddette qualifiche di protezione internazionale (status di rifugiato e status di protezione sussidiaria)” (1). Per colmo d’ipocrisia, alle vittime dell’ultima strage, che in Italia da vivi nessuno voleva, saranno celebrati funerali di Stato.
Il decreto legislativo n. 286/1998
Dal punto di vista giuridico, perché si possa parlare di discriminazione verso un soggetto sono necessarie due condizioni: che si verifichi un trattamento particolare, diverso da quello riservato agli altri individui, e che questo differente trattamento abbia un’assenza di giustificazione. Sono entrambi aspetti delicati, per motivi diversi: il primo perché impone che discriminatori possano essere soltanto i comportamenti, e non le idee, per rispetto all’art. 21 della Costituzione italiana (“Tutti hanno diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero con la parola, lo scritto e ogni altro mezzo di diffusione”); e il secondo per quanto riguarda il problema dei criteri di giudizio sulla base dei quali si ritiene che un dato comportamento non possa essere tollerabile.
Sul primo aspetto, l’art. 43 del D.lgs. 286/1998 afferma che “costituisce discriminazione ogni comportamento che, direttamente o indirettamente, comporti una distinzione, esclusione, restrizione o preferenza basata sulla razza, il colore, l’ascendenza o l’origine nazionale o etnica, le convinzioni e le pratiche religiose, e che abbia lo scopo o l’effetto di distruggere o di compromettere il riconoscimento, il godimento o l’esercizio, in condizioni di parità, dei diritti umani e delle libertà fondamentali in campo politico, economico, sociale e culturale e in ogni altro settore della vita pubblica”. In particolare “compie un atto di discriminazione:
- “a) il pubblico ufficiale o la persona incaricata di pubblico servizio o la persona esercente un servizio di pubblica necessità che nell’esercizio delle sue funzioni compia od ometta atti nei riguardi di un cittadino straniero che, soltanto a causa della sua condizione di straniero o di appartenente a una determinata razza, religione, etnia o nazionalità, lo discriminino ingiustamente;
- “b) chiunque imponga condizioni più svantaggiose o si rifiuti di fornire beni o servizi offerti al pubblico a uno straniero soltanto a causa della sua condizione di straniero o di appartenente a una determinata razza, religione, etnia o nazionalità;
- “c) chiunque illegittimamente imponga condizioni più svantaggiose o si rifiuti di fornire l’accesso all’occupazione, all’alloggio, all’istruzione, alla formazione e ai servizi sociali e socio-assistenziali allo straniero regolarmente soggiornante in Italia soltanto in ragione della sua condizione di straniero o di appartenente a una determinata razza, religione, etnia o nazionalità;
- “d) chiunque impedisca, mediante azioni od omissioni, l’esercizio di un’attività economica legittimamente intrapresa da uno straniero regolarmente soggiornante in Italia, soltanto in ragione della sua condizione di straniero o di appartenente a una determinata razza, confessione religiosa, etnia o nazionalità;
- “e) il datore di lavoro o i suoi preposti i quali […] compiano qualsiasi atto o comportamento che produca un effetto pregiudizievole discriminando, anche indirettamente, i lavoratori in ragione della loro appartenenza a una razza, a un gruppo etnico o linguistico, a una confessione religiosa, a una cittadinanza. Costituisce discriminazione indiretta ogni trattamento pregiudizievole conseguente all’adozione di criteri che svantaggino in modo proporzionalmente maggiore i lavoratori appartenenti a una determinata razza, a un determinato gruppo etnico o linguistico, a una determinata confessione religiosa o a una cittadinanza e riguardino requisiti non essenziali allo svolgimento dell’attività lavorativa”.
La Carta dei diritti fondamentali
La Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea considera discriminatori un numero maggiore di comportamenti rispetto alla normativa italiana. L’articolo 21 afferma infatti: “È vietata qualsiasi forma di discriminazione fondata, in particolare, sul sesso, la razza, il colore della pelle o l’origine etnica o sociale, le caratteristiche genetiche, la lingua, la religione o le convinzioni personali, le opinioni politiche o di qualsiasi altra natura, l’appartenenza a una minoranza nazionale, il patrimonio, la nascita, gli handicap, l’età o le tendenze sessuali” (2).
La normativa italiana non ritiene necessario dunque inquadrare specificamente fra i comportamenti discriminatori quelli che riguardano il sesso, le caratteristiche genetiche, la lingua, le convinzioni personali, le opinioni politiche, l’appartenenza a una minoranza nazionale, il patrimonio, la nascita, gli handicap, l’età o le tendenze sessuali, forse ritenendo che a tutelare gli individui basti l’art. 3 della Costituzione (“Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali”).
È un peccato, perché la Carta europea lascia aperta la strada a speculazioni davvero interessanti: dal momento che nomina il patrimonio come uno dei possibili fondamenti dei comportamenti discriminatori, è lecito domandarsi per esempio se quello che le banche fanno tutti i giorni alla luce del sole, cioè offrire condizioni contrattuali peggiori agli individui con profili patrimoniali più deboli, non sia da considerare un trattamento discriminatorio e perciò sanzionabile (nella nostra normativa, che non nomina l’aspetto patrimoniale, sarebbe senz’altro discriminazione se una banca offrisse condizioni contrattuali diverse a persone di etnia diversa).
Come si vede, i problemi da affrontare non sono da poco, perché questioni di principio in astratto universalmente condivise (come l’uguaglianza dei cittadini a prescindere dal reddito o dal patrimonio), rischiano di diventare un boomerang per lo status quo quando si decida di tradurle in pratica. Forse per questo la nostra tanto celebrata Costituzione si sente in dovere di specificare che quella professata non è una vera Uguaglianza, ma solo un’uguaglianza davanti alla legge, e a guardare quel che avviene nel nostro Paese c’è da dubitare che anche quest’ultima non sia soltanto uno specchietto per le allodole, notoriamente fra gli uccelli più stupidi.
Assente ingiustificato
Come abbiamo detto in precedenza, per rendere un comportamento discriminatorio non basta che esso, direttamente o indirettamente, comporti una distinzione, esclusione, restrizione o preferenza basata sulla razza, il colore, l’ascendenza o l’origine nazionale o etnica, ma serve anche che esso sia privo di una giustificazione, e dunque appaia motivato unicamente dal pregiudizio. Ma cosa si intende per giustificazione?
A settembre 2013, in occasione dell’ultima New York Fashion week, Naomi Campbell, Iman e altre modelle hanno accusato il sistema moda di razzismo, dichiarando che sulle passerelle “c’erano più modelle di colore negli anni ‘70 che nel 2013”. La risposta data è che le scelte ‘artistiche’ degli stilisti devono essere lasciate libere, senza contare (ma bisogna sussurrarlo) che la donna caucasica, se non è oggi la principale consumatrice di alta moda, è sempre più il modello estetico di riferimento, cioè quello che maggiormente stimola il desiderio di emulazione, e quindi le vendite. Di conseguenza, le scelte dei grandi couturier non possono essere sanzionate, perché sono ‘giustificate’ dalle regole di mercato (come quelle di Guido Barilla, del resto).
Un altro esempio: riservare il congedo di maternità alle donne (a parte pochi casi stabiliti per legge), non è considerato nel nostro Paese un comportamento discriminatorio, perché sono le donne che rimangono incinte e partoriscono, e che dopo la nascita in genere allattano e si occupano del bambino. In altri Paesi, tuttavia, anche gli uomini ne hanno diritto, e la normativa italiana verrebbe senza dubbio considerata discriminatoria dai padri svedesi o norvegesi.
La scelta fra cosa costituisca giustificazione e cosa pregiudizio dipende quindi dall’ambiente economico, sociale e culturale, e cambia a seconda dei Paesi e delle epoche. Nell’Ottocento gli abitanti dell’Africa nera erano quasi ovunque considerati esseri inferiori, tanto da giustificare la tratta degli schiavi: giravano seminudi, non sapevano leggere o scrivere, vivevano in capanne mentre gli europei costruivano dighe e palazzi, Victor Hugo e Dickens pubblicavano i loro romanzi e Lord Byron era il modello di eleganza. Il suffragio femminile, cioè il diritto di voto alle donne, è stato introdotto nella legislazione internazionale solo nel 1948, quando le Nazioni Unite adottarono la Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo: in Italia le donne parteciparono per la prima volta alle elezioni nel 1946, e in Arabia Saudita lo faranno nel 2015.
La legge Mancino
Abbiamo fin qui affermato che, per rispetto della garanzia costituzionale sulla libertà di espressione, dovrebbero essere considerati perseguibili solo i comportamenti discriminatori. In realtà nel nostro Paese le cose non stanno esattamente così.
La legge 25 giugno 1993, meglio nota come legge Mancino (dal nome del ministro dell’Interno democristiano Nicola Mancino che l’ha proposta), e inizialmente voluta contro il fenomeno dei naziskin, stabilisce che “chi propaganda idee fondate sulla superiorità o sull’odio razziale o etnico, ovvero istiga a commettere o commette atti di discriminazione per motivi razziali, etnici, nazionali o religiosi”, sia punito con un periodo di reclusione fino a un anno e sei mesi o con una multa fino a 6.000 euro; e “chi, in qualsiasi modo, incita a commettere o commette violenza o atti di provocazione alla violenza per motivi razziali, etnici, nazionali o religiosi” sia punito con un periodo di reclusione fino a 4 anni (art. 1). Inoltre “è vietata ogni organizzazione, associazione, movimento o gruppo avente tra i propri scopi l’incitamento alla discriminazione o alla violenza per motivi razziali, etnici, nazionali o religiosi. Chi partecipa a tali organizzazioni, associazioni, movimenti o gruppi, o presta assistenza alla loro attività, è punito, per il solo fatto della partecipazione o dell’assistenza, con la reclusione da sei mesi a quattro anni. Coloro che promuovono o dirigono tali organizzazioni, associazioni, movimenti o gruppi sono puniti, per ciò solo, con la reclusione da uno a sei anni”. L’art. 2, intitolato “Disposizioni di prevenzione”, rende punibile con la reclusione “chiunque, in pubbliche riunioni, compia manifestazioni esteriori od ostenti emblemi o simboli propri o usuali delle organizzazioni, associazioni, movimenti o gruppi” come sopra definiti, e vieta “l’accesso ai luoghi dove si svolgono competizioni agonistiche alle persone che vi si recano con gli emblemi o simboli” di cui sopra.
Da diverse parti si chiede che il dettato della legge Mancino venga esteso anche alle idee di contenuto omofobico. La libertà di manifestare il proprio pensiero, dunque, in Italia non è assicurata a tutti. È un argomento classico del liberalismo europeo quello secondo cui le opinioni apertamente inneggianti alla violenza e alla discriminazione per motivi razziali, etnici o religiosi non debbano godere di tutela, formulato per la prima volta da John Locke (Lettera sulla tolleranza, 1689) il quale, con riferimento alle pratiche autoritarie del cattolicesimo a lui contemporaneo, asserì che “i papisti non devono godere del beneficio della tolleranza, perché, dove hanno il potere, si ritengono obbligati a negare la tolleranza agli altri”. Tutto il contrario della posizione illuminista di Voltaire, che arrivava ad affermare: “Non condivido le tue idee, ma sono disposto a morire perché tu possa professarle”.
Probabilmente, la ferita europea del nazifascismo ha giocato un ruolo cruciale nel far pendere la bilancia dalla parte di Locke, tanto che anche Jean Paul Sartre, polemizzando con gli antisemiti, ha dichiarato: “In nome delle istituzioni democratiche, in nome della libertà d’opinione, l’antisemita reclama il diritto di predicare ovunque la crociata antiebraica. […] Ma mi rifiuto di chiamare opinione una dottrina che prende di mira espressamente persone determinate, che tende a sopprimere i loro diritti e a sterminarle” (3).
Ci sembra tuttavia di poter affermare che la legge Mancino non trovi rigorosa applicazione, altrimenti la sopravvivenza di partiti come la Lega Nord, di giornali come La Padania, e di movimenti come Forza Nuova sarebbe pesantemente a rischio.
Pregiudizio evolutivo
I primati sono razzisti. La rivista Scientific American, forse il mensile scientifico più autorevole, ha pubblicato nell’aprile del 2011 un articolo dal titolo: “L’evoluzione del pregiudizio”, con il sottotitolo: “Gli scienziati vedono nelle scimmie la nascita del razzismo”. Nel pezzo sono riportati i risultati di uno studio condotto dall’Università di Yale su una popolazione di scimmie Rhesus che vivono sull’isola disabitata di Cayo Santiago, al largo di Puerto Rico. Per mettere alla prova l’ipotesi che le scimmie diffidano di chi è al di fuori del loro gruppo e si sentono a loro agio solo con i compagni di branco, una squadra di psicologi guidata da Neha Mahajan ha sottoposto delle foto ad alcune scimmie che facevano tutte parte della stessa comunità.
Erano foto di altre scimmie Rhesus, alcune ‘amiche’ (nel senso che appartenevano allo stesso gruppo), altre ‘straniere’ (cioè di un altro gruppo dell’isola). Si è constatato che le scimmie tendevano a fissare di più le facce ‘straniere’. Semplice curiosità oppure ostilità?
Gli scienziati di Yale hanno cercato di risolvere la questione facendo vedere alle loro scimmie-cavia le foto di alcuni maschi adulti che una volta facevano parte del gruppo e poi ne erano usciti, anche in tempi recenti, per allargare il patrimonio genetico accoppiandosi con femmine di altri branchi. Erano delle facce conosciute, insomma, ma non facevano più parte di quella tribù. Il risultato era uguale: le scimmie fissavano molto di più le foto dei fuoriusciti rispetto a quelle degli amici e familiari rimasti nel branco. Dunque, qualsiasi ‘diverso’ era sospetto.
In conclusione: “I risultati di questo studio avallano la tesi che il pregiudizio ha una base evolutiva. Il comportamento delle scimmie Rhesus suggerisce che la nostra tendenza a vedere il mondo in termini di ‘noi’ e ‘loro’ ha delle origini antiche”. Non è difficile immaginare perché: sulla spinta dell’istinto di sopravvivenza i maschi del branco devono difendere il territorio per assicurarsi un’adeguata quantità di cibo, la disponibilità di femmine per la riproduzione e la sicurezza della propria prole.
Il 23 ottobre 2013 un diciannovenne di Nibionno, in provincia di Lecco, è stato ucciso a calci e pugni a Maidstone, capoluogo del Kent, da un gruppo di nove ragazzi del posto, tra i 21 e i 25 anni, che volevano impartire una lezione a lui e a un suo amico. Il motivo? Rubava il lavoro agli inglesi, pare abbiano dichiarato. Quella degli stranieri che rubano il lavoro agli indigeni è un’affermazione classica del razzismo ‘moderno’. Nella nostra società il lavoro è la principale fonte di sopravvivenza, e rubarlo giustificherebbe di certo, fra le scimmie Rhesus, la soppressione dello straniero. Peccato che non siano gli stranieri a rubarci il lavoro, e che noi non siamo scimmie.
“Non parlare con gli sconosciuti”
Tutti diffidiamo degli sconosciuti, non possiamo farne a meno. Sarebbe un diktat biologico anche se la mamma non ce lo suggerisse fin dalla più tenera età. Diffidiamo dei nuovi compagni di scuola, dei nuovi colleghi di lavoro, dei nuovi vicini di casa, figuriamoci dei cosiddetti diversi per colore, lingua, preferenze sessuali, pratiche religiose, ecc. Il problema è che, appena al di là del sempre più labile concetto di gruppo (sia esso famiglia, città, regione, popolo, razza, o perfino squadra del cuore), siamo tutti diversi gli uni per gli altri. E che la sopravvivenza della specie richiede oggi collaborazione molto più che competizione.
Per questa ragione bisogna prima imparare a riconoscere come tali, e poi a controllare, quegli impulsi che una volta ci erano utili dal punto di vista evolutivo ma che, se lasciati liberi di agire, oggi ci distruggerebbero (le scimmie Rhesus, per fortuna, non dispongono di armi chimiche né nucleari con cui combattere i gruppi nemici). Nel regno animale solo l’uomo è in grado di controllare i propri impulsi, perché solo per l’uomo questa è diventata una questione di sopravvivenza. Il controllo degli impulsi fa parte delle funzioni esecutive più sofisticate della nostra mente, e ha sede nella corteccia prefrontale (che occupa la parte più anteriore del cervello), insieme alle capacità di pianificazione, definizione delle priorità, organizzazione dei pensieri e valutazione delle conseguenze delle proprie azioni. La corteccia prefrontale è perfino capace di gestire le situazioni ambigue e di modificare l’umore, e a essa sono attribuite tutte le facoltà intellettive di livello superiore.
Questa regione nell’uomo è molto più sviluppata rispetto alle altre aree corticali, è estremamente ricca di connessioni che la collegano a tutti gli altri sistemi, è una delle strutture evolutivamente più recenti ed è anche l’ultima parte del cervello a cui lo sfoltimento sinaptico conferisce forma e dimensioni adulte (arriva a maturazione intorno ai vent’anni). Per la corteccia prefrontale la fase adolescenziale è cruciale, perché la sopravvivenza delle sinapsi in età adulta è determinata dal loro utilizzo in questo periodo: in base al principio del use it or lose it, secondo il quale ciò che non si usa viene perso, le connessioni che non vengono esercitate a sufficienza potrebbero non sopravvivere. Come conseguenza il controllo degli impulsi (discriminatori compresi) o si impara a esercitare in gioventù o non si apprende mai.
Purtroppo la società occidentale, nella sua forma attuale, basa la sua sopravvivenza proprio su alcuni impulsi, in particolare l’impulso al consumo che è alla base della crescita del Pil, e su un’attenta canalizzazione dell’aggressività contro il diverso. Non vede quindi nessuna utilità nel contribuire a un’ottimale maturazione delle facoltà intellettive superiori attraverso un serio programma educativo (e infatti non investe nella scuola e in politiche verso i giovani), ma si limita a controllare con norme e decreti – a volte risibili – gli impulsi scomodi, inutili o politically uncorrect, per guadagnarsi una facciata di evoluta rispettabilità. Stigmatizza e punisce pertanto i comportamenti (come il razzismo negli stadi) che sono espressione delle fasce socio-economiche più deboli e più vulnerabili ai ‘bassi’ istinti del branco, mentre pratica liberamente la politica del ‘noi contro di loro’ nelle stanze del potere. Così dire “sporco ebreo” è un reato, bombardare l’Iraq per “esportare la democrazia” invece no. Gli ultrà napoletani hanno ragione: per le scimmie che non abbiamo mai smesso di essere il razzismo è un diritto.
1) Asgi, Proposte di riforma legislativa per la legislatura 2013-2018, gennaio 2013
2) Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, Gazzetta ufficiale n. C 364 del 18/12/2000 p. 0001-0022
3) Jean Paul Sartre, L’antisemitismo. Riflessioni sulla questione ebraica