di Greta Merati
Non welfare ma workfare, una misura che in tutti i Paesi registra importanti percentuali di non take-up: perché molte persone rinunciano a usufruirne pur avendone diritto?
5 marzo 2021. Istat, i numeri del 2020: le famiglie in povertà assoluta sono oltre 2 milioni; in totale gli individui censiti in questa condizione sono 5,6 milioni, oltre un milione in più rispetto al 2019. Chiara Saraceno, sociologa: “Per il reddito di cittadinanza sono aumentate le domande. Oggi il problema non è ampliare l’ammontare, ma rivederne gli obiettivi. È stato pensato come una misura attivazione al lavoro, ma una politica di reddito minimo non dovrebbe essere un politica del lavoro in nessun paese al mondo. Un «reddito» deve garantire il diritto ai consumi essenziali, anche perché molti dei suoi beneficiari non sono in grado di lavorare. Per come è stato pensato, il reddito di cittadinanza, difficilmente intercetta i lavoratori working poors perché hanno una casa di proprietà o risparmi”.
“Non diamo soldi alla gente per stare sul divano”. Rassicurazioni di questo tipo si sentono da mesi in Italia in risposta a chi, a difesa del neoliberismo, osteggia persino un’iniziativa di workfare come la proposta di reddito di cittadinanza, prima enunciata e ora presentata in un decreto legge dal Movimento 5 stelle al governo. Assistenzialismo e stato sociale sono diventati sinonimi di sperpero e gestione irresponsabile dei fondi pubblici. La retorica anti-welfare si è ormai affermata trasversalmente da destra a sinistra dell’arco parlamentare e chi ha promesso anche solo minimi interventi di contrasto alla povertà si trova costretto a difendersi da un’Unione europea pronta a etichettare come spendaccioni.
Il welfare, inteso come stato sociale che sostiene in modo non ricattatorio chi ne necessita, viene oggi visto dalle élite liberiste come un invito all’ozio e all’improduttività, al punto da considerare i benefici sociali come una tentazione a “stare sul divano”. Insomma, della povertà non ce ne si può occupare tramite l’assistenza. L’alternativa? Il lavoro coatto, altrimenti detto workfare. I benefici vengono concessi dallo Stato a patto di seguire iter burocratici a stretta sorveglianza e lavorare gratuitamente, per giunta alienati dalle proprie inclinazioni personali. Un ottimo compromesso: le resistenze a spendere per il sociale vengono sciolte dall’idea piuttosto allettante di avere manodopera gratuita.
Certo, sarebbe comunque meglio se il minor numero possibile di potenziali beneficiari ricevesse la misura. Un fenomeno sicuramente favorevole a tale interesse già accade: prende il nome di non take-up e si definisce come “mancata fruizione della misura da parte di persone che pure, soddisfando tutti i requisiti di accesso, ne avrebbero diritto” (1). Ossia: coloro che avrebbero diritto a ricevere il beneficio sociale non ne fanno richiesta oppure la fanno, ma a un certo punto del processo di acquisizione rinunciano. Sebbene si tratti di un problema trasversale alle diverse impostazioni di politica sociale, vi è un forte legame con il workfare poiché vincoli e condizionalità percepiti come umilianti, oppressivi o lesivi della propria libertà di scelta sono sicuramente determinanti per la desistenza dei potenziali beneficiari.
Alla logica del workfare soggiace una visione colpevolizzante nei confronti della persona impoverita: disoccupazione e precarietà vengono implicitamente viste come una responsabilità dell’individuo, mancando totalmente di analisi di classe e, di conseguenza, di un approfondimento sulle cause sistemiche, e non personali, della disuguaglianza. Se così non fosse non si spiegherebbe perché mettere sotto ricatto chi riceve le misure di sostegno, quasi a dire: l’aiuto dello Stato è una concessione, non un diritto, e se ne benefici devi provare di meritarlo. Un tratto comune alle politiche di workfare è infatti quello di dover dimostrare l’instancabile perseguimento di un qualsiasi lavoro, nonché di trovarsi in una condizione di povertà tale da non poter vivere senza sostegno.
Nella sua versione iniziale il workfare prevedeva infatti che l’intervento dello Stato avvenisse solo a patto di aver esaurito non solo tutto o la maggior parte del proprio patrimonio, ma anche quello dei familiari ritenuti come possibili sostenitori economici (2). Non sorprende che i potenziali beneficiari non perseguano benefici che prevedono tali richieste, percepite come umilianti agli occhi di chi è socializzato a vedere la povertà come un proprio fallimento e che plausibilmente vive con vergogna l’aiuto da parte dei familiari. Nonostante gli aspetti più impopolari siano poi stati modificati è evidente come il welfare to work nasca da una posizione fortemente ostile allo stato sociale: l’individuo deve cercare assistenza in privato, provando a riscattarsi all’interno del medesimo sistema economico che lo ha impoverito oppure, sempre privatamente, tramite il sostegno dei familiari.
In un tale contesto, soltanto se completamente privi di sostentamento lo Stato tenderà una mano, anche se con una stretta piuttosto opprimente, date le condizionalità imposte (obbligo a seguire corsi di formazione, a prestare lavoro gratuito, ad accettare offerte di impiego a parecchi chilometri di distanza dalla propria residenza e non adeguate alla propria professionalità…). Chi sceglie strade di sopravvivenza alternative all’intervento dello Stato contribuisce involontariamente a un fenomeno chiamato “desocializzazione del diritto all’assistenza” (3), espressione che ben rappresenta lo smantellamento del welfare e lo sdoganamento dell’assistenza privata e individuale. Tali soluzioni non vengono però scelte liberamente, ma è piuttosto lo Stato stesso a indicarle attraverso precise scelte politiche che allontanano chi è ormai sfiduciato dalle istituzioni. Si tratta di persone costrette, nonostante un’esistenza formale di istituti a loro tutela, a cercare di sopperire ai propri bisogni autonomamente, in quanto i vincoli imposti per l’accesso ai benefici vengono percepiti come ricattatori e opprimenti.
Il welfare, nella maggioranza dei Paesi, perisce sotto governanti armati di privatizzazioni, flessibilità e misure pro-impresa. Il legame con le politiche sociali è evidente: si ritiene, secondo la logica neoliberista, che tali interventi miglioreranno indirettamente la condizione degli impoveriti. Così i pochi benefici rimasti non dovranno essere assistenziali, bensì finalizzati alla crescita economica. Il non take-up dovuto a tali scelte di governance si manifesta quindi come il risultato di un bilancio negativo tra vantaggi e svantaggi di attenersi ai requisiti per l’acquisizione dei benefici.
Nonostante l’importanza del fenomeno, il non ta-ke-up rimane scarsamente trattato dalla ricerca. Gli studi a riguardo sono concentrati soprattutto nell’area anglosassone dove, nonostante ciò, non sembrano avere impatto sulla politica. Si stima che la popolazione colpita dal non take-up si aggiri, in media globale, intorno al 40% dei potenziali beneficiari, con una notevole variazione tra Paesi: dal più mite 20-30% portoghese all’allarmante 80% austriaco (4). Il non take-up è inoltre un fenomeno multidimensionale, dalle cause più variegate, e proprio per questo motivo è difficile da valutare empiricamente.
Ulteriormente arduo è poi rispecchiare fedelmente la realtà vissuta da chi ne è colpito se si tenta di farlo tramite l’evidenza fornita da freddi numeri o, più frequentemente, solo da stime poco affidabili. Analizzando il non take-up non si può infatti escludere il vissuto di chi ne è colpito, ossia una comprensione più approfondita della ‘scelta’ di cedere, abbandonando la speranza di esigere un diritto.
Estenuazione, senso di oppressione, sfiancamento, disincanto e sfiducia sono soltanto le prime reazioni immaginabili. È quindi utile, al fine di avere una panoramica più verosimile dell’esperienza personale di chi volontariamente si esclude dall’esigere una misura che gli spetta, avvalersi di rappresentazioni più descrittive. Un eccellente esempio è dato da Io, Daniel Blake, lungometraggio di Ken Loach la cui storia è illuminante per la comprensione delle complicazioni legate al malfunzionamento della macchina burocratica e all’impatto che le politiche di workfare hanno sulla vita degli impoveriti. Successi cinematografici a parte, la pellicola viene spesso citata trattando di politiche sociali per via della sua efficacia nell’esposizione delle problematiche e dell’esperienza di chi ne soffre, spesso mancante nelle statistiche.
Fedele alla situazione politica e sociale inglese, lo scenario descritto nel film non è affatto un parossismo. Il protagonista, le cui vicissitudini sono tratte da una storia vera, rappresenta efficacemente la situazione di lavoratori, magari anziani, soli e malati come lui, stretti dalla morsa di una burocrazia inflessibile, disorientante e incoerente che condanna all’emarginazione.
Addetti ai centri di impiego inflessibili; ‘esperti in sanità’ che non sono medici ma funzionari il cui scopo è quello di tagliare il più possibile sulle spese sanitarie; imposizione di lavori incompatibili con lo stato di salute dell’individuo; errori di valutazione; eccessiva complicazione nelle procedure: questi sono i motivi per cui perseguire un diritto diventa insostenibile.
Il dramma di Blake è quello di un malato lasciato solo da uno Stato che mette ulteriormente a repentaglio la salute di chi dovrebbe sostenere. Istruzioni tra loro contrastanti, complesse e il cui adempimento è interamente a carico del richiedente sono spesso fattori decisivi per il non take-up, specialmente se pesano su persone anziane e non su giovani nativi digitali, visto l’ormai diffuso utilizzo del computer per fini burocratici. La capacità di compilare procedure online non è infatti un dato che lo Stato dovrebbe dare per scontato. Altre criticità sono poi riscontrabili negli infiniti tempi di attesa, spesso passaggio obbligatorio per procedere nelle richieste, ma anche determinante nel contribuire alla stanchezza di coloro che abbandonano impossibilitati a dedicare il proprio tempo alla burocrazia.
La cronaca racconta di situazioni non dissimili da quella del lungometraggio. Come quella di Daniel Coe, un uomo disabile la cui storia è un esempio recente dei costi umani provocati dai tagli allo stato sociale. Inglese, come Daniel Blake, Coe viene colpito da un attacco di cuore poco dopo essersi imbattuto nelle consuete battaglie al jobcenter. La sua condizione lo porterà poi a dichiarare di temere che le riduzioni ai benefici a opera dei Tories gli possano togliere la vita, dato l’insopportabile peso dell’impoverimento (5).
«Sai quanti ne conosco che hanno mollato e basta?» è un passaggio tratto da Io, Daniel Blake che rappresenta tragicamente il non take-up. Situazione tutt’altro che surreale, dato che il film intende proprio descrivere la Gran Bretagna contemporanea.
La rinuncia al perseguimento di un beneficio giudicato troppo costoso da ottenere è però soltanto un tipo di non take-up. Il fenomeno può essere dovuto anche ad aspetti come la mancanza di informazioni, il timore di subire uno stigma, oppure ancora la mancanza di fiducia nelle istituzioni.
Il problema finora descritto prende il nome di drop-out. Si tratta della fuoriuscita dall’iter burocratico per l’acquisizione dei benefici di persone che hanno fatto richiesta per determinate misure. In questo caso i potenziali beneficiari abbandonano sfiancati da procedure giudicate troppo costose. Il costo può essere inteso in senso economico, se si valuta che il dispendio causato dalle condizionalità non compensi il beneficio ricevuto, oppure cognitivo qualora le procedure risultino troppo complesse o dal linguaggio inaccessibile. Non solo, la procedura può essere costosa anche in termini temporali, se la quantità di tempo speso per seguire l’iter burocratico è soverchiante e maggiormente a carico del richiedente piuttosto che degli enti preposti, oppure ancora il costo può riguardare il fatto di sentirsi limitati nella propria possibilità di scelta quando, ad esempio, le condizionalità impongono di lavorare gratuitamente in ambiti lontani dal profilo del richiedente.
Questi aspetti svolgono sicuramente un ruolo di deterrenza, ma a causare la rinuncia a ottenere il beneficio non vi sono solo questioni legate alla burocrazia. Un secondo tipo di non take-up riguarda infatti la sfera socioculturale. Si tratta del mancato accesso ai benefici causato dal timore di subire uno stigma sociale. Anche in questo caso parliamo di individui consapevoli di poter esigere un diritto. Il non take-up è quindi volontario, sebbene questo termine possa far intendere, erroneamente, che si tratti di una libera scelta, che esime quindi lo Stato da ogni responsabilità.
La paura di subire uno stigma può essere ricondotta a un tratto culturale piuttosto evidente nella contemporaneità: l’individualismo causato da un sistema economico capitalistico che riversa i suoi valori nella mentalità popolare. È infatti al mito dell’autorealizzazione privata che si deve la recriminazione nei confronti di chi ‘fallisce’. Si tende a scaricare la colpa di quelli che vengono definiti ‘insuccessi’ sui meno avvantaggiati.
Un ragionamento privo di analisi di classe e di consapevolezza di quanto le disuguaglianze di partenza incidano sui percorsi individuali. Se la comunità di riferimento attribuisce la responsabilità di ciò che definisce ‘fallimento’ alla persona invece che al sistema può accadere che non si faccia domanda per accedere a determinate misure. Il tutto poiché, totalmente influenzati da questa logica, non si vuole ammettere le proprie ‘sconfitte’ oppure non ci si vuole mostrare come soggetti vulnerabili, fatto che inevitabilmente accadrebbe inserendosi in un iter burocratico che assorbe una quantità di tempo difficile da giustificare se si vuole nascondere la propria situazione.
L’assistenza da parte dello Stato è quindi segno di incapacità di autorealizzarsi. Si tratta di una dinamica perversa, poiché tali ragionamenti e sensi di colpa non sono compatibili con il modello economico odierno. In un sistema che non livella le condizioni di partenza risulta incomprensibile scaricare la colpa su chi ‘rimane indietro’, in quanto l’esito dei percorsi di vita di ciascuno è determinato da fattori lontani dalla responsabilità individuale e riguardanti piuttosto le disuguaglianze sociali.
L’affermazione del workfare ha poi peggiorato la situazione, aggiungendo un carico di umiliazione maggiore ai timorosi di subire uno stigma. Questo perché frequentare regolarmente centri per il lavoro dove il rapporto con gli addetti è spesso frustrante e demoralizzante rende i richiedenti ancor più vulnerabili alla sensazione di essere trattati con disprezzo. Vi è una continua insistenza sulla loro situazione di disagio e di mancanza di riconoscimento sociale, nonché uno stretto controllo da parte della burocrazia su come si conduce la propria vita. In termini psicologici: “Si viene separati dal resto della società e si interiorizza la convinzione che la propria condizione è al di sotto del livello di rispettabilità sociale” (6).
Un ulteriore tipo di non take-up consapevole è poi dovuto ad atteggiamenti di ordine emotivo nei confronti delle istituzioni. La mancanza di fiducia nello Stato è infatti osservabile in atteggiamenti che spesso vengono ricondotti al qualunquismo. Le cause più comuni sono riscontrabili nella retorica politica che lo incentiva e in una mancanza di educazione e senso civico, pur sempre determinati da uno Stato che non interviene in tal senso. Un esempio attuale può essere lo spostamento di obiettivi e interessi reali della popolazione da ciò che la tange direttamente a paure irrazionali, come la convinzione che la propria precarietà sia dovuta all’immigrazione piuttosto che a una cattiva governance.
La cosiddetta guerra tra poveri, ossia la mancanza di coscienza di classe, è infatti un distrattore di massa. Questo, aggiunto ad altri elementi del discorso politico che allontanano la cittadinanza dai problemi reali può plausibilmente assorbire energie, concentrazione e determinazione dalla lotta per l’acquisizione dei propri diritti, contribuendo più o meno direttamente ad allontanare dalla sfera pubblica, vista con ostilità e diffidenza (7). Si innescano quindi fattori assimilabili a quelli citati per il timore di subire uno stigma sociale: il riscatto individuale e in privato diventa la via prescelta.
Il mancato accesso ai benefici non è però un fenomeno che si limita all’auto-privazione consapevole. Una delle cause più significative è infatti la mancanza di informazioni rispetto alle misure esistenti. Questo tipo di non take-up è sicuramente involontario e dovuto all’ignoranza dei benefici a cui si ha diritto (8). Si tratta della più classica delle spiegazioni, nonché della più trasversale ai sistemi di welfare. In mancanza di informazioni e istruzioni, spesso complesse e inaccessibili a chi le necessita, l’individuo non sarà a conoscenza di poter esigere un proprio diritto e quindi non farà domanda per ottenerlo. È un problema dovuto al fatto che, nella maggior parte dei Paesi, l’erogazione dei benefici non avviene automaticamente, ma soltanto a seguito di una richiesta formale da parte dei potenziali beneficiari. Chiaramente, ciò implica che i beneficiari debbano essere a conoscenza dell’esistenza delle misure nonché di avere i requisiti per potersene avvalere.
È facilmente intuibile a chi si debba attribuire la responsabilità in questo caso: informazione, sindacati, enti preposti, ma anche istruzione e scolarizzazione, sebbene sia meno intuitivo. Se per i primi tre attori si può parlare di mancata segnalazione delle misure disponibili e dei modi per venirne a conoscenza, nel caso dell’istruzione si tratta invece di prendere in considerazione una visione più ambiziosa della scolarizzazione che esigerebbe non soltanto l’apprendimento nozionistico, ma anche l’instillazione della capacità di essere curiosi e tenersi costantemente informati, ossia di quello che potremmo chiamare ‘interesse sollecitato’.
Ignorantia legis non excusat, potrebbe essere la risposta di scettici che scaricano il peso dell’ignoranza su chi ignora, estendendo il principio vigente nel sistema penale italiano a una giustificazione che discolpa da ogni responsabilità sulla diffusa mancanza di informazione. L’ignoranza della legge non scusa? È la legge a non dover scusare i disinformati o sono questi ultimi a non dover scusare chi non li informa? In questo caso la questione è squisitamente politica: sostenere che sia soltanto la cittadinanza a essere responsabile della propria disinformazione può significare che si abbia una concezione piuttosto classista e disdegnosa nei confronti della popolazione meno avvantaggiata.
Dall’alto di una posizione privilegiata in cui si è avuta la possibilità di studiare e informarsi, coloro che adottano tale ragionamento semplicistico si dimostrano poco consapevoli di quanto il loro contesto sociale sia favorevole. La circolazione del sapere è data per scontata e non viene presa in considerazione la difficoltà di entrare in contatto con le informazioni e poterle comprendere di chi non è favorito da percorsi di vita che lo permettono. Fintantoché la demarcazione tra classi sociali permarrà non sarà possibile parlare di scelta consapevole nel rimanere emarginati. L’asimmetria informativa tra più e meno scolarizzati, ad esempio, è evidente, così come l’impatto di un analfabetismo funzionale che non possiamo certo giudicare innato.
Di certo c’è che se le misure venissero erogate automaticamente da parte delle istituzioni (panorama non certo utopistico date le potenzialità di database e tecnologia odierna) il non take-up dovuto all’ignoranza non avverrebbe.
Il 18 gennaio il governo ha presentato il decreto legge sul “reddito di cittadinanza”. Il nome conferito alla misura dà certamente l’illusione che si tratti di un sostegno alla povertà di tipo assistenziale. Tuttavia, il reddito non è poi così “di cittadinanza” se si pensa che solitamente denominazioni del genere vengono date a benefici di tipo universalistico e non a politiche di workfare selettive e condizionali. Del resto, la proposta conferma l’impostazione neoliberista della misura: “Il beneficio è condizionato alla dichiarazione […] di immediata disponibilità al lavoro”.
Un lavoro che non tiene conto del profilo dei beneficiari data la definizione di “offerta congrua” che viene poi data. “Congrua” è infatti, secondo il testo disponibile al momento in cui si scrive, un’occupazione entro 100 km dalla propria residenza, per i primi sei mesi in cui si beneficia del reddito, ed entro 250 km dopo questi sei mesi. In caso di rinnovo invece l’offerta è giudicata congrua ovunque si richieda di lavorare sul territorio italiano, pur tutelando chi ha figli minorenni oppure familiari disabili da accudire.
Al momento, questi risultano gli unici parametri per definire un’offerta di lavoro adatta. Posto che persino il criterio della distanza può essere discutibile in determinate condizioni che potrebbero non rientrare nelle rigide categorie esonerate dall’obbligo di trasferirsi, manca ogni considerazione sulle inclinazioni personali dei potenziali beneficiari nonché sulla loro preparazione professionale, fatto che potrebbe creare un non take-up dovuto alla sensazione di essere limitati nella propria possibilità di scelta. Si parla vagamente di colloqui psicoattitudinali, dei quali si verificherà l’efficienza una volta applicati. Il sospetto che non siano sufficienti è però giustificato alla luce delle e-sperienze di altri Paesi che hanno applicato questo metodo.
Il rischio di non take-up aumenta poi qualora la misura venga giudicata ricattatoria. Il reddito di cittadinanza disegnato dai 5 stelle non sembra evitare tale situazione: prevede che si debba accettare almeno una di tre offerte di lavoro, pena decadenza dal beneficio. Per quanto riguarda invece la ricerca di una posizione, dal decreto legge è chiaro che verranno applicati i tratti tipici del welfare to work: bisogna provare di essere alla costante ricerca di una occupazione. Il grado di supervisione da parte degli enti preposti e la pressione che eserciteranno saranno tuttavia da verificare.
Già favorevoli al non take-up sembrano invece i percorsi di formazione a cui il beneficiario dovrà obbligatoriamente sottoporsi firmando il Patto per il Lavoro. L’impostazione di tali corsi è sicuramente prevedibile dal fatto che, secondo il decreto legge, debbano mirare a favorire “l’auto imprenditorialità”. Insomma, si forma i disoccupati a emanciparsi dallo Stato tramite l’autorealizzazione all’interno dello stesso sistema economico che li ha impoveriti. Vi è poi il tema dei cosiddetti tecno-esclusi che potrebbero avere notevoli difficoltà con le procedure online, dato che il reddito di cittadinanza richiede la registrazione su una piattaforma digitale a carico dei beneficiari e non degli addetti.
L’erogazione poi non è automatica, come era stato invece affermato a ottobre da alcuni esponenti del Movimento: nel testo presentato la richiesta da parte del potenziale beneficiario è il primo passaggio per ricevere il beneficio. Anche il rischio di mancato accesso causato dall’ignoranza quindi non è da escludere, anche se mediaticamente il provvedimento ha avuto molta risonanza.
La misura “anti-divano” sembra quindi soddisfare tutti i requisiti per un potenziale non take-up: ci sono le condizionalità umilianti e ricattatorie tipiche del workfare, non è da escludere un mancato accesso per diffidenza dalle istituzioni e, infine, per via di uno Stato che non va incontro ai cittadini meno informati. E di certo è alta la possibilità di essere stigmatizzati, in un Paese in cui una parlamentare di un partito che si definisce di centrosinistra scrive: “Dice Di Maio che col reddito di cittadinanza da oggi cambia lo Stato Sociale. La colonna sonora infatti diventa ‘Una vita in vacanza’”.
1) Pizzuti F. R. (2017), Rapporto sullo Stato sociale, Roma, Sapienza Università Editrice, p. 221
2) Encyclopædia Britannica, “Means test”, https://www.britannica.com/topic/means-test, ultima consultazione ottobre 2018
3) Commisso G. Sivini G. (2017), Reddito di cittadinanza. Emancipazione dal lavoro o lavoro coatto?, Trieste, Asterios
4) Pizzuti F. R, op. cit.
5) Howes S. (2018), Real-life Daniel Blake who suffered heart attack after leaving Job Centre has benefits slashed to just £20 a week, Mirror, 23 gennaio
6) Commisso G. Sivini G., op. cit, p.77
7) Ritchie J. e Matthews A. (1982), “Take Up of Rent Allowances: An in Depth Study, a Study of Reasons for Non Take Up of Rent Allowances”, Social and Community Planning Research
8) van Oorschot W. (1991), “Non-Take-Up of Social Security Benefits in Europe”, Journal of European Social Policy