Belli i pirati, specie se sexy in varie versioni, il forziere fantasma, le navi gli arrembaggi ammaina il pappafico drizza la randa quindici uomini sulla cassa del morto ho hoh ho e una bottiglia di rhum. Successo galattico e fama stellare per Johnny Depp e compagni. Ma come al solito fiction e realtà non coincidono. O meglio, a ben guardare, in tutta la saga ci sono aspetti visibili e veri ma poco enfatizzati e altri aspetti di minore importanza diventati invece assolutamente rilevanti – evidentemente a fini narrativi ancorché spettacolari.
Andiamo per ordine: alcuni anni fa (1985) furono i Pogues di Shane McGowan a ritirare fuori la gioiosa fratellanza degli scorridori del mare con l’album Rum, Sodomy and the Lash, già nel titolo un compendio della vera vita di mare: beveraggi per la solitudine, sodomia per varie pulsioni e la frusta per tenere a bada il tutto, vera regola e paradigma dell’obbedienza e conseguente onnipotenza del capitano, il “secondo dopo Dio”. Ma allora i pirati non erano ancora tornati di moda e anche un mal riuscito film di Polanski, così come il successivo Hook di Spielberg, non riuscirono a resuscitare il genere. Stavolta la collaborazione tra regista e attore (Gore Verbinski e Johnny Depp) più un produttore-musicista accorto e fine nella scienza dell’omaggio (Hal Willner) ha invece fatto centro.
Merito sicuramente dell’effettotraino della saga filmica, ma anche della bravura del cast stellare reclutato per questo Rogue’s Gallery: pirate ballads, sea songs and chanteys, doppio cd di fine 2006, composto in parte da rockettari stagionati in parte da vecchie e nuove glorie del folklore irlandese e britannico e statunitense. Impossibile resistere al fascino delle 43 ballate, canzoni marinare e chanteys impregnate di umori malsani di bettole e di stive, salsedine, alcool a fiumi, nostalgie a barili ma anche di atmosfere sgangherate, straniate e algide, come nel caso di Fire down below (Nick Cave) e Leave her, Johnny (Lou Reed), come a dire che il distacco emozionale non sempre produce risultati ‘freddi’. Più facile, non a caso, disimpegnare il compito rifacendosi a (propri) modelli stratificati dal tempo e dall’abitudine pop dove non c’è nulla da inventare, così come per Dying sailor to his shipmates a opera di Bono (un’occasione persa, insomma).
Sarebbe un discorso lungo quello che verte sul modo di eseguire e interpretare oggi musica scritta secoli fa. La polemica sul filologismo, come quella su tutti gli -ismi, è lungi dall’esaurirsi. Tanto di cappello allora a chi ha l’idea straniante – come gli autori citati sopra (a cui aggiungeremo una citazione a elogio di Gavin Friday) – una robusta dose di autoironia oppure un’autentica voce folk come avviene rispettivamente per uno Sting brillante nell’assolvere il suo compito con una voce sorprendentemente bassa, e per il sempreverde Martin Carthy.
Una citazione cum laude infine va a Baby Gramps, con una voce a metà tra il didgeridoo e il monaco tibetano, forse l’interpretazione più autentica di entrambi i cd, e al brando di Bill Frisell (Spanish ladies) cesellato finemente neanche fosse un elaborato merletto attorno al collo di qualche nobile mummia. La positività del risultato complessivo è ancora più rimarchevole se pensiamo che di fatto le canzoni dei pirati per i popoli d’oltremanica funzionano un po’ come per noi quelle degli alpini… (non si risentano gli alpini, please).
Cominciamo col dire che i pirati che conosciamo, quelli letterari da Stevenson (L’isola del tesoro) a Salgari (Sandokan, pirati della Malesia e dintorni) occupano il periodo storico che va dal sedicesimo al diciottesimo secolo. Nella storia, la pirateria era una realtà già presente in epoche più antiche, anche se con caratteristiche leggermente diverse da quelle che siamo soliti immaginare, basti pensare ai romani, ai greci e più tardi ai cornuti vichinghi e ai feroci saraceni, che scorrazzavano nell’Adriatico fino a metà Ottocento: le valli del Po ancora oggi ricordano la cacciata dei Saraceni, Goro alla foce era un loro rifugio e pare che un drappello si fosse spinto sino a controllare per un periodo il Brennero. Fatto sta che bisognerebbe distinguere doverosamente tra:
1) indigeni espropriati dai coloni francesi ad Haiti, Martinica e Guadalupa; spinti in mare dalla fame sarebbero diventati boucaniers, affumicatori di carne razziata conservabile in viaggio. Di fatto erano razziatori delle briciole della tavola dei ricchi, cani sciolti marginali del commercio tra Europa e Nuovo Mondo, senza speranza e aspettative se non quella di ritirarsi ricchi in un’isola segreta come la Tortuga;
2) raccomandati di ferro, chiamati corsari: ovvero capitani proprietari legali o illegali di nave che lavoravano al soldo di una potenza coloniale (Francia, Spagna, Gran Bretagna, Olanda, Portogallo). Avevano quella che oggi chiameremmo licenza di uccidere e in caso di sconfitta venivano solamente arrestati e semmai riscattati col denaro dalla potenza che li assoldava. Mutatis mutandis, oggi li chiameremmo contractors. Il più famoso di loro, Francis Drake (1540-1596), fu a un tempo mercante di schiavi, esploratore (il primo inglese a circumnavigare il globo), incubo e nemesi degli Spagnoli (il distruttore della Invencible Armada) e infine favorito e pare amante della regina Elisabetta;
3) i pirati veri e propri: reietti ma a loro modo democratici, dato che decidevano collettivamente, magari con risse colossali, e salvo l’ultima parola del capitano, non lavoravano per nessuno se non per se stessi e depredavano navigli, navi mercantili o qualsiasi veliero gli si parasse dinnanzi, senza distinzioni. Per il fatto stesso di non far riferimento a nessuna bandiera la pena in caso di cattura era, semplicemente, l’impiccagione.
Ma da sempre le canzoni degli scorridori del mare, indipendentemente dal loro status, fanno riferimento ad alcuni temi che ci parlano ancora, attraverso i secoli, non tanto della ribalderia e degli assalti, quanto piuttosto della ben più umana durezza della disciplina di bordo (rum, sodomia e frusta, per tornare all’inizio) con titoli celebri come The cruel ship’s captain o anche A drop of Nelson’s blood, l’oblio con bevute colossali e il dispendio delle paghe o dei bottini in un’unica notte (The drunken sailor) e poi la morte, ineluttabile compagna, la cui vicinanza è costante per chi sfida gli oceani su fragili gusci di legno e la legge delle grandi potenze con la propria ribalderia.
Infine, è da dire che tutto il doppio cd è concepito come un lungo viaggio che, dalle verdi scogliere d’Irlanda attraverso le onde dell’Atlantico, approda nelle piccole isole che sono state testimoni delle più crudeli e straordinarie storie di corsari e bucanieri, e si arriva, come ultima tappa di un viaggio periglioso, sulle sponde del continente americano. E a compiere le traversate non sono solo pirati ma anche marinai che accompagnavano la loro fatica, al pari dei primi e dei raccoglitori di cotone nelle pianure degli Stati Uniti, con il ritmo della musica e delle canzoni.
Indipendentemente dalla ‘purezza’ filologica delle interpretazioni, peraltro in questo caso abbastanza difficile da sindacare, rimane infine l’approccio che, come in altre produzioni di Hal Willner, è sufficientemente smaliziato per non apparire scontato e abbastanza disinvolto per essere apprezzato da un pubblico vasto. Ma, esattamente come in altri casi, viene da chiedersi il perché dell’esclusione di alcuni nomi: Shane McGowan, a esempio e per tornare all’inizio, avrebbe avuto sia i titoli sia la voce sia il physique du rôle per entrare di diritto nel novero di autori ed esecutori qui rappresentati.
Tra l’altro pare fosse un inveterato compagno di bevute di Johnny Depp: che sia improvvisamente diventato troppo impresentabile? Della serie: brutti sporchi e cattivi finché conviene, poi…
Rogue’s Gallery: pirate ballads, sea songs and chanteys, Epitaph-Anti, 2006