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Lavoro, i nuovi contratti nazionali: Cgil, Cisl e Uil firmano accordi peggiori dei precedenti in cambio della cogestione dei fondi del nuovo welfare aziendale
Recentemente sono stati rinnovati, o lo saranno a breve, molti contratti collettivi nazionali del lavoro (Ccnl), alcuni dei quali scaduti da tempo. Qui entreremo nel dettaglio di quattro Ccnl particolarmente significativi (Chimici, Metalmeccanici, Commercio e Trasporto pubblico), dopo aver provato a caratterizzare la cornice entro cui sono avvenuti questi rinnovi e quali linee di tendenza sono ormai emerse in maniera chiara.
Il problema dei Ccnl
Qual è il ruolo che il contratto collettivo nazionale sta giocando nello scontro ormai diretto e palese fra governo e associazioni padronali da una parte e lavoratrici e lavoratori dall’altra? Partiamo da alcuni spunti che ci fornisce il gruppo editoriale che esprime la voce della Confindustria. In una rivista del gruppo Il Sole 24 Ore troviamo scritto che il contratto collettivo “resta lo strumento privilegiato per la definizione di un punto di equilibrio dinamico fra gli interessi dei lavoratori […] e quelli delle aziende” (1). Se questo riconoscimento coglie elementi di realtà, è anche vero, però, che i Ccnl sono il frutto della stratificazione di decenni di mobilitazioni operaie e di accordi con le associazioni padronali, non un armonioso e dinamico “punto di equilibrio”. Leggere con attenzione un contratto collettivo nazionale dei più vecchi, consente di ricostruire a ritroso fasi di lotta, di trasformazione dei processi produttivi e di rivolgimento dei rapporti industriali in Italia.
Possiamo dire che il mutamento dei rapporti di forza tra le classi ha trovato una sua parziale conferma da un lato nella legislazione, e dall’altro nella struttura dei contratti collettivi. Molti Ccnl hanno, nel corso del tempo, specificato una serie di norme che andavano a dare attuazione al contenuto della legge. Tanto che nella rivista citata possiamo leggere anche che “la reale efficacia e agibilità del decreto legislativo 4 marzo 2015 n. 23 [il Jobs Act, n.d.a.] resta condizionata non poco dal vasto reticolato di regole e procedure dettagliate nei codici disciplinari definiti dalla contrattazione collettiva, che potrebbero ora paralizzare o comunque rallentare in modo significativo la liberalizzazione del regime di protezione contro i licenziamenti illegittimi”, dato che ben “ventuno Ccnl disciplinano il principio di proporzionalità della sanzione rispetto alla gravità del fatto […]”: si tratta di uno degli elementi di maggior tutela contenuti nell’articolo 18 dello Statuto dei Lavoratori.
I Ccnl possono quindi rappresentare un ostacolo, non solo per il loro contenuto riguardo orari, salari, mansioni che pure, lo vedremo, sono al centro di questa tornata di rinnovi, ma anche perché rischiano di impedire la piena applicazione della riforma del mercato del lavoro del governo Renzi: la riforma che elimina ogni tipo di tutela sostanziale dal licenziamento. Anche per questo il Ccnl è un istituto da difendere contro gli attacchi lanciati periodicamente dalle imprese e dai governi ‘amici’, da ultimi il presidente di Confindustria Squinzi e Renzi, i quali a ottobre avevano annunciato l’intenzione di introdurre un salario minimo, allo scopo di equalizzare al ribasso stipendi e condizioni di lavoro, proprio in sostituzione del Ccnl (2). C’è però un problema: la difesa della contrattazione nazionale che viene fatta dai sindacati confederali – gli unici che di fatto hanno accesso ai tavoli delle trattative – ha come obiettivo esclusivo la loro autoconservazione e non la rappresentanza degli interessi dei lavoratori.
Il sindacato al contrario Innanzitutto bisogna notare che molti degli ultimi accordi sono stati raggiunti in tempi particolarmente rapidi: il record assoluto va a quello dei chimici, che si è concluso in una sola notte. In parecchi casi i confederali si sono infatti presentati al tavolo delle trattative con piattaforme che già accoglievano le richieste confindustriali, o che partivano da obiettivi che avrebbero dovuto rappresentare il minimo insindacabile.
È indicativo anche il modo in cui si sta provando a porre termine alla stagione degli accordi separati, cioè attraverso l’inversione di tendenza della Cgil e della Fiom, che vanno ad accodarsi a Cisl e Uil firmando contratti anche peggiori di quelli rifiutati in precedenza. Questo per il semplice fatto che il potere padronale ha oggi una tale forza che i confederali, per sopravvivere, sono costretti ad aderire all’unico modello di sindacato che viene loro ‘concesso’, restando all’interno delle regole date: quello che sembra meglio rappresentato dalla Cisl, quello del sindacato padronale e di ‘servizio’ (3). Peraltro tale necessità di rapido accordo è condivisa anche da alcune associazioni confindustriali a loro volta rimaste orfane dei giganti (Federmeccanica senza Fca, Confcommercio senza Auchan, Carrefour, Esselunga) e bisognose di raggiungere anche per i pesci piccoli le condizioni di maggiore sfruttamento che i grandi hanno già ottenuto da soli.
Esemplare in questo senso è l’aver accettato nei fatti la richiesta della restituzione della differenza tra l’inflazione prevista (IPCA) e quella effettiva. Una novità senza precedenti, giustificata con la deflazione degli ultimi due/tre anni, che chiede, a chi ha visto crollare il proprio potere d’acquisto in vent’anni di ‘moderazione salariale’ e sacrifici, la restituzione di quei miseri aumenti ancorati a un’inflazione programmata che per una volta si è dimostrata più alta di quella reale. Accettare una simile irricevibile richiesta non era chiaramente possibile da parte dei tre sindacati senza perdere qualsivoglia credibilità nei confronti dei lavoratori. Per questo in nessun contratto si è arrivati a una restituzione esplicita; ma, che essa sia stata attuata attraverso il taglio di alcune voci (come nel caso dei Chimici o dei Metalmeccanici) o attraverso altre modalità (orari allungati senza straordinari, come per Trasporti e Commercio), ciò che più conta è che è stata sdoganata la possibilità di questa restituzione.
I confederali, anziché opporsi, hanno accettato il piano del discorso, impegnandosi nella ricerca di un indicatore più alto dello zero attuale dell’inflazione Istat; dimostrando così in maniera fin troppo evidente l’impotenza di un sindacato che non osa più chiedere aumenti salariali basati sui bisogni dei lavoratori, ma si prodiga a giustificarli agganciandoli a un indicatore condiviso con i rappresentanti padronali; con la possibilità che emerga una vera scala mobile al contrario.
Welfare, salari, tempi e diritti
Questa tornata di rinnovi contrattuali si è retta sulla revisione e l’attacco al salario e all’orario di lavoro, sulla limitazione del diritto di sciopero e sull’introduzione del cosiddetto welfare aziendale. Approfittando di questo momento di estrema debolezza dei lavoratori dovuto alla forte disoccupazione, le imprese hanno messo le basi per un maggior sfruttamento, da utilizzare nel caso di una ripresa economica dovuta a fattori esterni. Sul salario la tendenza egemone è quella di eliminare quote fisse (premi fissi, premi presenza, scatti anzianità) in cambio di premi variabili incerti, non erogabili a tutti e collegati ad aumenti di produttività. Il problema è che il legame tra salario e produttività del singolo o dell’impresa è un grosso inganno: innanzitutto, dal punto di vista analitico, la retribuzione non si può basare sulla produttività aziendale perché quest’ultima dipende anche dalla produttività di altri settori e imprese (pensiamo, per esempio, quanto un’impresa ad alta intensità tecnologica si giovi di una scoperta scientifica conseguita da gruppi di ricerca o da un’altra società).
E infatti alle aziende non interessa realmente ancorare il salario alla produttività, bensì avere un’arma per tenere il livello delle retribuzioni al di sotto della produttività. Inoltre legare strettamente il salario ai risultati raggiunti rischia di creare situazioni critiche, come ha recentemente mostrato lo ‘scandalo banche’: uno stipendio altamente variabile produce situazioni di ricattabilità che possono portare anche a condotte fraudolente a danno dei cittadini, e in ogni caso costituisce una fonte di enorme stress che danneggia la salute psicofisica dei lavoratori.
In merito al tempo di lavoro, in tutti i contratti sono previsti aumenti di orario e abolizione dei festivi e dello straordinario; in pratica si sta sempre più precarizzando il lavoro anche all’interno della cornice dei Ccnl, creando un sistema a chiamata con il quale l’azienda scarica sul lavoratore tutti i rischi della fluttuazione della domanda produttiva. Pensiamo ai giorni festivi equiparati a quelli feriali nel settore del Commercio, con l’obiettivo di obbligare al lavoro anche nelle festività e di non pagare gli straordinari; stesso fine, non pagare gli straordinari, si ottiene nei Trasporti, grazie al calcolo allungato dell’orario medio, e nel Metalmeccanico, con l’incentivo al part time e l’aumento dei turni oltre i 18.
Anche il welfare aziendale è presente in tutti gli accordi. A prima vista potrebbe sembrare positivo che le imprese garantiscano prestazioni sanitarie e previdenziali ai propri lavoratori, in realtà dietro a questa ‘generosità’ si nascondono degli enormi vantaggi per le aziende e delle trappole per i lavoratori. In primis, la diffusione del welfare aziendale prepara il terreno al definitivo smantellamento del settore pubblico, con conseguente riduzione del peso dello Stato sul costo del lavoro: l’Irap, abbassata da Renzi per favorire gli investimenti produttivi, serve proprio a pagare il servizio sanitario nazionale. Quindi meno tasse per le imprese e meno servizi per i lavoratori. In secondo luogo, il welfare aziendale sarà a costo zero per le aziende, perché da un lato il governo, nella passata legge di Stabilità, ha predisposto sgravi fiscali, dall’altro sarà pagato direttamente dai lavoratori, che in cambio dovranno moderare le loro pretese salariali o rinunciare direttamente a quote di retribuzione: per esempio i Chimici otterranno 10 euro di investimento in welfare in cambio dell’abolizione del pagamento di una festività.
Infine, il welfare aziendale è anche una fenomenale arma di ricatto verso il lavoratore, perché ora perdere il posto di lavoro non significherà più soltanto perdere il salario ma anche il diritto all’assistenza sanitaria. Ma c’è anche un altro aspetto: i sindacati si sono venduti al welfare aziendale perché in cambio le aziende hanno concesso loro la possibilità di cogestirne i fondi. È lo stesso principio di autoconservazione per cui i confederali difendono il contratto nazionale: il denaro del welfare aziendale diventa fondamentale per garantire la sopravvivenza alle strutture burocratiche sindacali e riempirne le casse, anche a fronte dei tagli del governo ai CAF.
Questi rinnovi capestro stabiliscono infine molte norme di limitazione al diritto di sciopero, denominate “clausole di raffreddamento dei conflitti”, nel solco già tracciato dal Testo unico sulla Rappresentanza del 10 gennaio 2014 e che anticipa una legge pronta a breve per limitare il diritto di sciopero in maniera ancora più profonda di quanto già non accada nel settore pubblico. Vengono infatti ‘tutelati’ non solo i servizi essenziali, ma anche i grandi eventi, i beni culturali, il Commercio e ora pure il Chimico e il Metalmeccanico; sembra proprio che il vero ‘servizio essenziale’ da tutelare sia il profitto delle imprese, dando alla proprietà un potere quasi assoluto: decide se promuovere, licenziare o demansionare; stabilisce quanto salario erogare al singolo lavoratore e per quale orario di lavoro; impone quando si lavora e quando si riposa.
In questa situazione, qualunque proposta in controtendenza – come quella della Fiom che vorrebbe derogare l’applicazione del Jobs Act tramite contratto – rischia di rimanere vana se sui luoghi di lavoro non si ricominceranno a costruire rapporti di forza migliori, attraverso una pratica sindacale realmente conflittuale e un’organizzazione delle lavoratrici e dei lavoratori trasversale ai singoli luoghi di lavoro, che riesca a mobilitarsi in maniera capillare e unitaria in risposta ad attacchi altrettanto capillari e unitari.
Il Ccnl ha valore solo se è un contratto minimo e inderogabile che, da una parte, tutela i lavoratori delle piccole e piccolissime imprese che faticherebbero a imporre rapporti di forza adeguati a contrattare da sé, e dall’altra permette di guadagnare migliori condizioni attraverso la contrattazione di secondo livello ai lavoratori che riescono e mettere sul campo rapporti di forza più favorevoli. Al contrario, gli attuali Ccnl stabiliscono condizioni standard derogabili al ribasso; una forma di contratto che non serve a nulla ai lavoratori, ma abbiamo visto quanto sia utile a imprese e sindacati confederali.
1) M. Tiraboschi, Editoriale, Contratti & Contrattazione collettiva, luglio 2015, Gruppo Sole 24 Ore
2) Cfr. R. Mania, Renzi pronto alla riforma dei contratti: i ‘collettivi’ sostituiti dal salario minimo, Repubblica, 6 ottobre 2015
3) Basti ricordare l’annuncio delle (discutibili) assunzioni alla Fca di Melfi dato in diretta televisiva proprio dal segretario di categoria della Cisl
CHIMICI
Il Ccnl della chimica ha spesso fatto da apripista agli altri. Basta ricordare l’inserimento delle deroghe in quello del 2006, divenuto poi un grimaldello per tutti i contratti grazie all’accordo firmato dalla Cgil il 28 giugno 2011, e infine degenerato nel successivo rinnovo dei chimici (2012) con cui si dava la possibilità di derogare e modificare a livello aziendale tutte le materie della contrattazione nazionale (1).
Questa volta la richiesta più eclatante del contratto firmato a ottobre scorso a danno dei 170.000 lavoratori del settore è la restituzione secca di 79 euro come recupero dell’inflazione, risultata inferiore a quella prevista. Per metterla in atto l’accordo prevede che l’ultima tranche del contratto precedente sarà erogata, per un solo anno, il 2016, sotto forma di E.D.R. (Elemento distinto della retribuzione) per poi venire assorbita dal 2017, quando saranno erogate le tranche di aumento del nuovo contratto. L’incremento salariale, dichiarato di 90 euro per il triennio, sarà suddiviso in 40 euro dal primo gennaio 2017, 35 euro dal primo gennaio 2018 e 15 euro dal primo dicembre 2018. In realtà quindi il reale aumento non è di 90 euro ma di 75, perché occorre togliere i 15 già previsti dal vecchio contratto e che verranno erogati solo nel 2016, per poi venire assorbiti, ossia scomparire. Il guadagno per le aziende dunque è triplice: nel 2016 non pagano nulla (i 15 euro erano già previsti nel vecchio accordo), nel biennio 2017-2018 l’aumento massimo sarà di 75 euro (90 meno i 15, che scompaiono), ed è pure prevista la possibilità di ridefinire il tutto al ribasso se l’inflazione dovesse ancora calare (2).
In aggiunta il premio presenza (in media erano 220 euro fissi) si trasforma in premio variabile, quindi incerto e legato a risultati di maggiore produttività, nei casi in cui ci sarà contrattazione aziendale di secondo livello, mentre laddove non è presente sarà sostituito da investimenti in formazione o in welfare aziendale – pagato peraltro dai lavoratori stessi: l’azienda destina a questo scopo 10 euro che recupera grazie alla cancellazione del trattamento per l’ex-festività di Pasqua. Il merito al diritto di sciopero, il rinvio ad accordi aziendali che definiscano strumenti preventivi e alternativi al conflitto, previsto nel testo del 2012, già aveva normato la salvaguardia degli impianti, dato che le aziende chimiche in molti casi hanno necessità di regolamentare gli eventuali blocchi della produzione per scongiurare danni ai macchinari e all’ambiente. Oggi, con il nuovo accordo, si sottoscrive che tale norma è prevista non solo per gli “impianti complessi”, ma in ogni caso: quindi per tutti gli impianti di qualsiasi azienda.
Inoltre le intese per l’effettuazione e le modalità dello sciopero non riguarderanno solo le prestazioni minime indispensabili, ma dovranno anche definire “le modalità per la gestione delle altre attività e del personale non coinvolto dallo sciopero, in relazione all’impatto a livello aziendale dell’astensione dei lavoratori”. È evidente che tale modifica inficia sostanzialmente la possibilità di incidere con le iniziative di sciopero.
Infine la parte dedicata alla formazione dei delegati appena eletti. Per loro si predispongono moduli formativi obbligatori in cui verrà insegnata dall’impresa la mission, la vision e la cultura aziendale. In sostanza si definisce che la RSU non è organismo autonomo di difesa degli interessi dei lavoratori, ma una componente aziendale di gestione della manodopera; e quindi è necessario inculcargli la cultura aziendale affinché la visione del delegato sia totalmente schiacciata su quella dell’impresa. Completano l’accordo la possibilità di cedere gratuitamente le ferie a un collega (apripista alla riduzione delle ferie per tutti), e, se qualcuno dovesse ribellarsi, l’aumento delle sospensioni (da 3 a 8 giorni) e delle multe disciplinari (da 3 a 4 ore).
1) Cfr. Giorgio Cremaschi, Il pasticcio dei chimici (e del 28 giugno), 25 settembre 2012
2) Cfr. C. Casadei e C. Tucci, Chimici, firmato l’accordo. Aumento complessivo di 75 euro, Il Sole 24 Ore, 15 ottobre 2015
METALMECCANICI
Il contratto dei metalmeccanici è un passaggio fondamentale di questa tornata contrattuale, non solo perché riguarda ancora tantissimi operai, ma anche perché da sempre questa categoria è la più organizzata e capace quantomeno di difendere i propri diritti. Il contratto, lo ricordiamo, non riguarda la più grande azienda del settore, la Fca, che Marchionne nel 2012 portò fuori da Confindustria proprio per avere la libertà di firmare un accordo peggiore di quello previsto per tutti gli altri metalmeccanici. Già all’epoca era evidente che Marchionne avrebbe fatto scuola per l’intero settore (e non solo), e infatti questo rinnovo sembra proprio voler colmare la distanza assumendo il ‘modello-Marchionne’ come standard. Al momento della stesura di questo articolo l’accordo deve ancora essere raggiunto, per cui analizziamo la piattaforma proposta dalla Fiom (1), già molto moderata in partenza visto che l’obiettivo dichiarato è quello di tornare a firmare un accordo unitario con Fim-Cisl e Uilm.
La prima richiesta padronale è la restituzione secca di 75 euro per la bassa inflazione, sul modello della trattativa lampo dei chimici. Per venire incontro alle necessità dei sindacati, che avrebbero grosse difficoltà a presentare un accordo che preveda una riduzione esplicita dei salari, Federmeccanica sembra disposta ad accordarsi per un recupero indiretto del salario da realizzare attraverso due punti: 1) assorbimento di tutti gli aumenti a coloro che hanno una retribuzione, esclusa quella a obiettivi, al di sopra di una soglia di garanzia, probabilmente equivalente ai minimi tabellari; 2) dilatazione dei tempi di erogazione delle tranche di aumento.
Niente restituzione, dunque, ma l’aumento sarà comunque misero, quando non del tutto nullo. La Fiom richiede, infatti, un aumento del 3%, che andrà però ad assorbire l’elemento perequativo. Se prendiamo il salario mensile di un 5° livello (1.774 euro lordi), il 3% è pari a 53 euro, mentre l’elemento perequativo è circa 37 euro. La Fiom si presenta al tavolo della trattativa proponendo quindi per il 2016 un aumento di 16 euro lordi mensili. Nel caso di un 1° livello (1.297 euro lordi) il 3% corrisponde a 39 euro, quindi sottratto il valore del perequativo restano 2 euro lordi.
Le aziende pretendono inoltre la cancellazione di ogni automatismo residuo nel Ccnl: chiedono di eliminare gli scatti di anzianità in cambio di un sistema di premi – significa togliere l’ultimo pezzo di salario fisso per riconoscerlo a discrezione dell’impresa – e pongono il tema anche sulla effettiva erogazione salariale; premi e salari si possono dunque riconoscere solo rispetto a obiettivi di produttività. Sugli orari la proposta Fiom appare fortemente negativa, con l’introduzione della 4ª squadra fino a 18 turni e della 5ª oltre i 18 turni che, più che “rafforzare i livelli occupazionali”, come si afferma a parole, avrà come effetto la normalizzazione del lavoro il sabato e la domenica. Del resto su questo tema basta vedere come sta andando alla Fca di Marchionne, dove in molti stabilimenti si lavora su 20 turni (2).
Non mancano le clausole di “raffreddamento del conflitto” attraverso l’istituzione di un sistema negoziale tra sindacati e azienda per la risoluzione delle controversie, né l’accordo sulla sanità integrativa. Infine un esplicito incoraggiamento all’utilizzo del part time, il cui ricorso (anche forzato, visto che grazie al Jobs Act le tutele del contratto sono del tutto saltate) concede all’azienda la possibilità di regolare al meglio la quantità di forza lavoro in relazione alla domanda produttiva. Ma persino queste proposte moderate avanzate dalla Fiom paiono essere eccessive agli occhi delle aziende: nell’ultimo incontro del 2015 Federmeccanica ha ribadito la volontà di non corrispondere alcun aumento per il 2016 e solo aumenti irrisori destinati a pochissimi lavoratori per il 2017.
1) Cfr. La Piattaforma della Fiom-Cgil per riconquistare un rinnovato Contratto nazionale collettivo di lavoro con Federmeccanica e Assistal, ottobre 2015
2) Cfr. Clash City Workers, Le fortunate di Melfi, 13 maggio 2015
COMMERCIO
Sottoscritto a marzo 2015, il rinnovo riguarda oltre 500 mila lavoratori impiegati nei settori della piccola e grande distribuzione. Il nuovo contratto ricalca il precedente accordo firmato dalle sole Cisl e Uil nel 2011, con la Cgil che quindi ha deciso di accodarsi alla piattaforma degli altri due sindacati confederali, rinunciando alle velleità di lotta, in verità mai messe in atto, espresse con il rifiuto di firmare il Ccnl in maniera unitaria nel 2011. In pratica vengono confermate le novità all’epoca introdotte per rendere gratuita alle aziende la possibilità di sfruttare il decreto Salva Italia, varato da Monti nel 2011, per liberalizzare gli orari e i giorni di apertura degli esercizi commerciali; anche in questo rinnovo infatti si conferma l’obbligatorietà del lavoro domenicale, equiparandolo a un normale giorno feriale, e quindi confermando il non pagamento degli straordinari e la precettazione in queste giornate.
Un rinnovo comunque depotenziato dal fatto che a partire dal primo gennaio 2014 i grandi del settore (Ikea, Auchan, Carrefour e altri) sono usciti da Confcommercio per confluire in Federdistribuzione, che dopo due anni è ancora priva di contratto nazionale. Anche in questa trattativa si era partiti dalla richiesta di restituzione di una quota salariale dovuta alla bassa inflazione, richiesta respinta ma al prezzo di aumenti minimi e grossi sacrifici in termini di orario per i lavoratori. Appena 85 euro di aumento parametrati al IV livello, in cinque rate (36 euro di media mensili), mente l’una tantum che doveva risarcire l’anno e mezzo di ritardo nel rinnovo sparisce: una rinuncia che, secondo l’opposizione interna alla Cgil, vale 255 euro per un quarto livello (1).
Si concorda inoltra l’inserimento della “clausola di flessibilità”, che consente all’impresa di obbligare il dipendente a lavorare 44 ore settimanali per 16 settimane, senza nemmeno pagare lo straordinario; le ore saranno infatti recuperate nell’arco dei dodici mesi successivi, a discrezione della proprietà. E sono addirittura previste deroghe al ribasso: a livello aziendale o territoriale sarà possibile concordare orari di 48 ore per 24 settimane in un anno.
Viene inoltre sottoscritto una sorta di demansionamento in ingresso (alla faccia delle promesse con cui la Cgil si impegnava a lottare contro il Jobs Act durante la fase dei rinnovi contrattuali): in pratica si potranno assumere disoccupati e lavoratori senza stabilizzazione dopo l’apprendistato, con un contratto di 12 mesi, di cui sei con un sottoinquadramento di 2 livelli e altri sei di un livello; il sottoinquadramento potrà poi essere prolungato per altri 24 mesi in caso di trasformazione in contratto a tempo indeterminato. In aggiunta, per quanto riguarda l’apprendistato, il tasso di conferma scema dall’80 al 20%, e il tempo entro cui deve avvenire tale conferma si dilata da 2 a 3 anni.
1) Cfr. Leonardo De Angelis (Sindacato è un’altra cosa – Filcams Lazio), Ccnl Terziario. Ma la Filcams è contraria al Jobs Act?, 1 aprile 2015
TRASPORTI
Il contratto collettivo del settore trasporti autoferrotranvieri (mobilità TPL) riguarda oltre 116 mila lavoratori. Proprio in quanto contratto dei lavoratori del trasporto pubblico locale è importante non solo per quel che riguarda le specifiche condizioni di lavoro, ma anche perché queste ultime si traducono nella qualità del servizio erogato ai cittadini. È evidente, infatti, che l’allungamento dei turni e dell’orario settimanale inevitabilmente finirà per influire su stanchezza, attenzione, concentrazione, efficienza degli autisti, tramutandosi in maggiori disagi e rischi per i passeggeri.
Innanzitutto occorre dire che un contratto collettivo mancava dal 2008, con gli stipendi fermi agli accordi del 2005, se si esclude l’aumento una tantum di 700 euro nel 2013. Tanta attesa però non è sfociata in un contratto migliore e risarcitorio per i mancati aumenti di questi otto anni. Anzi. L’accordo prevede di saldare l’arretrato con appena 600 euro una tantum (400 a gennaio 2016 e 200 ad aprile) che, sommati ai 700 già erogati nel 2013, diventano 1.300 euro: se li dividiamo per i 112 mesi senza aumenti (comprensivi di tredicesima e quattordicesima), sono 11,6 euro lordi mensili. Una miseria pagata per di più con anni di ritardo. Non va meglio sugli accordi che varranno da qui in avanti. I sindacati hanno accettato 100 euro al parametro 175, di cui 35 erogati alla firma, 35 a luglio 2016 e 30 a ottobre 2017. A conti fatti 23 euro medi mensili che solo nel 2017 diventano 67, quando ormai mancheranno solo tre mesi alla scadenza del Ccnl.
In merito agli orari di lavoro, viene prevista l’estensione del periodo del conteggio degli straordinari da 17 a 26 settimane (metà anno!). In pratica ogni sei mesi si contano le ore lavorate e lo straordinario verrà pagato solo se si superano le 39 ore di media (con un limite massimo che non dovrebbe eccedere le 48 ore di media a settimana, ma si tratta di un limite derogabile). Quindi sarà possibile lavorare 13 settimane per 50 ore e altre 13 per 28 ore: un lavoro a chiamata a tutti gli effetti, e un modo per non pagare lo straordinario. Per agevolare questa forma di sfruttamento l’orario massimo settimanale viene aumentato a 50 ore e lo straordinario totale annuo a 300 ore – anche questo derogabile in peggio: per esempio, in casi particolari (grandi eventi come Expo e Giubileo o in caso di difficoltà aziendali) sarà possibile aumentare l’orario di 60 minuti alla settimana e non conteggiare questo straordinario nel monte delle 300 ore. In aggiunta, se non si raggiungeranno altri accordi aziendali per saturare ulteriormente l’orario l’azienda potrà unilateralmente ridurre i tempi accessori (il tempo necessario per raggiungere un punto di cambio turno, per esempio) di 5 minuti a turno. Viene infine prevista la saturazione dell’orario a 39 ore effettive per tutti e, se l’orario di lavoro dovesse essere minore, viene previsto l’obbligo di lavoro supplementare ‘volontario’.
Non manca l’accordo sul welfare aziendale: i lavoratori saranno obbligati a versare 90 euro al fondo pensione Priamo, gestito da Cgil, Cisl e Uil insieme alle aziende del settore. Un fondo cui dovranno aderire tutti i lavoratori, anche coloro che non sono iscritti al sindacato.