(Paginauno n. 10, dicembre 2008 – gennaio 2009)
QUI la seconda parte dell’inchiesta
Dentro la sanità pubblica e privata
“Sulla definizione di azienda sanitaria si sono purtroppo cimentati troppi personaggi che poco conoscono i fondamentali concetti dell’economia aziendale, così nel passato un ministro della Sanità poté affermare a grandi titoli di cronaca che l’ospedale non è un’azienda”.
Massimo Saita, in Governance ed economicità nelle azienda sanitarie
Il caso
Milano, Casa di Cura Santa Rita, 9 giugno 2008: la Guardia di Finanza arresta tredici medici e il proprietario della struttura. Anche la clinica, convenzionata con il sistema sanitario nazionale, è indagata in qualità di ente giuridico, in base alla legge sulla responsabilità amministrativa degli enti. Le quattordici ordinanze di custodia cautelare sono state firmate dal gip Micaela Curami, su richiesta dei pm Grazia Pradella e Tiziana Siciliano. Quali sono i reati contestati? L’inchiesta condotta su quattromila cartelle cliniche avrebbe evidenziato rimborsi gonfiati per un totale di circa 2,5 milioni di euro, ma non è tutto, perché già dal giorno successivo iniziano a filtrare dettagli agghiaccianti. I medici della struttura non si sarebbero limitati a falsificare sulla carta le cure prestate per poter ricevere, sulla base del nuovo ordinamento, rimborsi più elevati: dopo aver deliberatamente diagnosticato malattie inesistenti avrebbero addirittura effettuato centinaia di interventi chirurgici inutili o perfino dannosi, che in cinque casi avrebbero comportato la morte dei pazienti, operati nonostante versassero in condizioni di forte debilitazione. Fra le accuse contestate c’è infatti anche il reato di omicidio aggravato da crudeltà, insieme a quelli per lesioni gravissime, per truffa e per falso ai danni del sistema sanitario nazionale. Si legge con sgomento che alcuni pazienti tubercolotici sarebbero stati ‘curati’ con l’asportazione del polmone; che interventi di mastectomia non motivati sarebbero stati effettuati su donne in giovane età (fra cui una ragazza di diciotto anni); che una paziente di ottantotto anni affetta da tumore sarebbe stata operata, senza nessuna ragione che non sia il profitto, tre volte in tre mesi.
Queste le accuse, grazie alle quali la Santa Rita ha meritato il titolo di “clinica degli orrori” nelle cronache giornalistiche.
Ma la vicenda – sulla quale la magistratura sta ancora indagando – è solo l’ultima, e forse non la più grave, degli episodi di malasanità che hanno riguardato la Lombardia negli ultimi anni. Con ciò non si intende dimenticare la quota di reati in campo medico ascrivibili alle altre regioni italiane; quel che stupisce è che queste situazioni non impediscano di continuare a proporre, da parte politica e non solo, il modello di sanità lombardo come esempio di eccellenza da seguire. Giuseppe Santagati, avvocato specializzato in diritto amministrativo, è da vent’anni manager della Sanità a Milano. Di quel che succede negli ospedali parla con cognizione di causa, perché è lui che, nel lontano 1996, ha scoperto la madre di tutti gli scandali, quello ‘delle ricette d’oro’ (700 medici indagati, 175 condannati), e che invece di voltarsi dall’altra parte, o di pretendere la sua parte nel banchetto, ha raccolto le proprie carte ed è andato a consegnarle nelle mani dell’allora procuratore della Repubblica Francesco Saverio Borrelli. “La regione paga, butta i nostri soldi. Come fanno a ripetere che la Sanità lombarda è la migliore d’Italia? Hanno trasformato gli ospedali in un supermercato: ed è una gara a offrire le cure più costose, non importa se utili o no. Uno entra per una visita ed esce con un trapianto. L’interesse del sistema è il profitto dell’imprenditore della sanità, non la salute del paziente” (1).
Come è possibile che chi ha giurato di prendersi cura dei malati arrivi a questi eccessi?
La riforma del SSN
Il Sistema sanitario nazionale come oggi lo conosciamo è stato disegnato nel corso dell’XI Legislatura, protagonisti Giuliano Amato (presidente del Consiglio) e Francesco De Lorenzo (ministro della Sanità). Nel 1994 De Lorenzo verrà arrestato nel corso dell’inchiesta Tangentopoli e ammetterà di avere incassato da aziende farmaceutiche fornitrici del SSN ben 8 miliardi delle vecchie lire. Condannato nel 2000 con sentenza definitiva a cinque anni di carcere per corruzione, il suo modo di intendere la gestione della cosa pubblica non ha – stranamente – messo in discussione la validità della riforma che, attraverso la legge delega n. 421/1992 e il decreto legislativo n. 502/1992, ha trasferito alle regioni e alle province autonome le funzioni legislative e amministrative in materia di assistenza sanitaria e ospedaliera, e in particolare “la determinazione dei principi sull’organizzazione dei servizi e dei criteri di finanziamento delle unità sanitarie locali e delle aziende ospedaliere”.
Nello stesso tempo, la legge ha introdotto il cosiddetto ‘rimborso a prestazione’, stabilendo che le strutture sanitarie non fossero più finanziate a piè di lista, sulla base delle spese effettivamente sostenute (per quanto riguarda gli istituti pubblici) o sulla base dei giorni di degenza (per quanto concerne gli istituti privati), ma attraverso un meccanismo centrato sulla scheda di dimissione ospedaliera (SDO), un modulo che contiene tutte le informazioni rilevanti relative al ricovero. Quanto in essa indicato permette di attribuire il paziente a un gruppo diagnostico predefinito (il tanto citato DRG, Diagnosis related group) cui corrisponde un valore di rimborso predeterminato, a prescindere dalle specificità dei singoli casi clinici (ogni malato è diverso dagli altri, anche a parità di patologia) e dal percorso diagnostico-terapeutico seguito: tanto per un parto cesareo, tanto per una nefrectomia, tanto per un trapianto di fegato, e così di seguito.
L’aspetto più rivoluzionario della riforma, quello destinato a cambiare (forse per sempre) il rapporto fra il cittadino e il suo diritto alla salute, non consiste tuttavia né nei trasferimenti di competenze alle regioni né nel rimborso a prestazione. Come rivelano i termini di legge, accuratamente scelti, da allora in avanti non si sarebbe più parlato di ospedali, ma di aziende ospedaliere, e anche l’acronimo USL (Unità sanitaria locale), sarebbe stato presto sostituito da ASL (Azienda sanitaria locale). Ben lontano dal rappresentare una modifica meramente lessicale, essa avrebbe innescato una serie di cambiamenti destinati a stravolgere il sistema fin dalle fondamenta, in un processo che politici e osservatori hanno definito appunto aziendalizzazione della sanità.
Regione che vai, Sanità che trovi
La riforma, nel trasferire le competenze in materia sanitaria dallo Stato alle regioni, non ha stabilito uno schema organizzativo unico, e pertanto ogni regione ha risposto alle norme di legge con modalità proprie. In realtà, le forme praticate sono state essenzialmente due: la prima va sotto la definizione di ‘modello lombardo’ ed è stata seguita dalla sola Lombardia, mentre la seconda, avviata in Emilia Romagna e in Toscana, è stata successivamente adottata con qualche variazione da tutte le altre regioni italiane.
In Lombardia, ogni ASL riceve fondi dalla regione sulla base della ‘quota capitaria pesata’, cioè sulla base della dimensione della popolazione di riferimento ponderata in relazione alle caratteristiche socio-demografiche. Con questi finanziamenti, la ASL copre i costi dell’attività socio-sanitaria e di prevenzione, provvede alla spesa farmaceutica, retribuisce i medici generici e acquista le cure mediche, definite ‘prestazioni sanitarie’, dalle strutture erogatrici pubbliche o private accreditate. Il principio che caratterizza il modello lombardo è rappresentato dalla ‘libera scelta’ del cittadino che, almeno sulla carta, può decidere in quale istituto, pubblico o privato, ricevere le terapie di cui ha bisogno. Attuando la riforma, la Lombardia ha posto dunque i soggetti pubblici in diretta competizione con i soggetti privati (convenzionati), che hanno visto crescere in modo considerevole la propria quota di mercato. Ma il sistema competitivo non ha le stesse regole per gli operatori pubblici e per quelli privati: mentre le cliniche private possono ‘scremare’ i pazienti sulla base dei valori di rimborso, e di conseguenza possono rifiutarsi di curare i malati cui corrispondono DRG inferiori ai costi delle terapie (per ragioni che approfondiremo più avanti, spesso i valori di rimborso stabiliti non sono consistenti, cioè non riflettono in modo adeguato i costi che l’ospedale deve effettivamente sostenere), gli istituti pubblici sono obbligati ad accettare i pazienti con qualsiasi tipo di patologia (2). A questa distorsione si affianca in Lombardia la crucialità del ruolo svolto dalla Regione, che rappresenta “la holding delle aziende sanitarie pubbliche, in quanto ne detiene la proprietà e ne nomina i direttori generali” (3). Inoltre, disavanzi di gestione ‘ingiustificati’ (termine quanto mai ambiguo trattandosi di salute, soprattutto se lasciato all’interpretazione di soggetti senza competenze mediche) a carico degli ospedali pubblici, policlinici universitari compresi, comportano su tutto il territorio nazionale il commissariamento da parte della regione di competenza e la revoca dell’autonomia aziendale (4). Possiamo solo immaginare cosa capiterebbe nella malaugurata ipotesi che il governatore della regione – l’amministratore delegato della holding – avesse interesse allo smantellamento del servizio pubblico, per tornaconto personale o appartenenza politica, dal momento che la legge non pone nessun tipo di controllo specifico al suo operato.
L’altro modello organizzativo, emiliano ma largamente diffuso in tutta Italia, prevede un finanziamento diretto della regione sia alle ASL, che al loro interno svolgono anche un’attività ospedaliera ‘di primo livello’, sia a nosocomi di rilievo nazionale autonomi, solitamente di alta specializzazione, definiti di ‘secondo livello’, cui i cittadini possono ricorrere nei casi in cui la gravità o la particolarità delle proprie patologie lo richieda. In questo caso, le regioni finanziano il sistema privato solo in quelle situazioni in cui la specificità delle terapie prestate lo giustifica: in una logica economica, potremmo dire che le strutture indipendenti svolgono un ruolo integrativo dell’offerta.
Si potrebbe pensare che le differenze fra i due modelli influiscano sulla distribuzione delle strutture private sul territorio nazionale a favore della Lombardia, ma un’analisi condotta nel 2004 ha dimostrato che sono il Lazio e la Campania le regioni con il maggior numero di istituti sanitari privati (rispettivamente 118, di cui 84 accreditati; e 76, di cui 71 accreditati). Nei prossimi anni ci si attende una nuova accelerazione nel processo di aziendalizzazione del SSN, dal momento che la legge finanziaria 2002 (art. 28) emanata dal governo Berlusconi II – ministro della Sanità Gerolamo Sirchia – attribuisce al governo la delega alla regolamentazione per la trasformazione delle strutture sanitarie in società per azioni e fondazioni di diritto privato; per fusioni e accorpamenti con attività fra loro analoghe e complementari; per la soppressione o la liquidazione di enti, amministrazioni e organismi pubblici, compresi quelli che operano in ambito sanitario, i cui servizi “possano essere più proficuamente erogati al di fuori del servizio pubblico”. Ma proficuamente per chi?
Nell’attesa di una risposta, notiamo con stupore quale triste destino accomuni i ministri della Sanità che hanno messo mano al sistema per orientarlo in senso privatistico: il 17 aprile scorso anche Sirchia è stato condannato in primo grado (tre anni di carcere e cinque anni di interdizione dai pubblici uffici) per avere incassato tangenti da aziende del settore sanitario nel periodo in cui ricopriva il ruolo di primario di Ematologia al Policlinico di Milano. Come è capitato al suo illustre predecessore (5), ci aspettiamo di vederlo presto al lavoro con nuovi e prestigiosi incarichi istituzionali, magari una pubblica docenza di Economia sanitaria.
DRG: molte ombre, poche luci
Nonostante le dimostrazioni di solidarietà al sistema pervenute da voci prestigiose dopo lo scoppio dello scandalo Santa Rita, fra cui quella senza dubbio autorevole di Umberto Veronesi, a tutt’oggi la validità della metodologia dei DRG è quanto meno controversa. Prestigiosi commentatori accademici hanno osservato come sia difficile anche solo definire le motivazioni che hanno condotto all’adozione del sistema di pagamento a prestazione (SPP) nel nostro Paese. Alcuni sottolineano lo stretto legame fra SPP e aziendalizzazione, perché gli incentivi che esso impone all’organizzazione degli ospedali sono di natura esclusivamente manageriale (cioè la riforma si disinteressa della componente clinica); altri ipotizzano che l’adozione del SPP sia stata motivata dall’intento di mostrare all’Unione europea, in un periodo di crisi economica gravissima che aveva portato all’espulsione dell’Italia dal Sistema monetario europeo, che si stava facendo sul serio per mettere la spesa pubblica sotto controllo, ricorrendo a uno strumento (i DRG appunto) allora ‘di moda’ nell’ambiente internazionale, dal momento che negli Stati Uniti aveva significativamente ridotto il tasso di crescita della spesa ospedaliera (6). Tuttavia ancora oggi, mentre si è senza dubbio assistito a un rafforzamento del ruolo dei manager e a un decrescente peso dei clinici nel governo delle strutture sanitarie, per quanto riguarda l’obiettivo del contenimento della spesa i dati disponibili sono quanto meno stupefacenti: infatti la spesa sanitaria totale per prestazioni di ricovero e ambulatoriali è aumentata in tutti i Paesi in cui il sistema dei DRG è stato attuato (7). Il commento più favorevole che si possa fare a tal proposito è che i DRG in Italia non abbiano aumentato il tasso di crescita della spesa e che quindi il loro impatto sui conti pubblici non sia stato negativo (8).
Ma, fatto ancor più preoccupante, né le regioni né lo Stato hanno mai avuto interesse a valutare se il nuovo sistema abbia peggiorato o migliorato l’efficienza delle strutture sanitarie – limitandosi a dichiarare, fin troppo ideologicamente, che all’aziendalizzazione si accompagna per forza un aumento di efficienza – e neppure se sia cresciuta o diminuita la qualità delle cure mediche prestate: “Il nostro SSN non dispone di alcun sistema di sorveglianza di eventi sentinella relativi alla qualità delle prestazioni erogate; né risultano pubblicati studi, ancorché di dimensione locale, che abbiano indagato la relazione fra SPP e qualità dell’assistenza nell’ambito dei nostri ospedali” (9). Quel che è certo, e la letteratura economico-sanitaria lo conferma, è che all’adozione dei DRG si accompagnano sempre importanti fenomeni distorsivi (10), fra cui: la riduzione della durata della degenza, in quanto per ogni DRG è prevista una degenza standard e, di conseguenza, il paziente deve essere dimesso più rapidamente (quicker and sicker: più in fretta e più malato); l’attribuzione delle diagnosi ai DRG più convenienti (per esempio, il parto cesareo); la pratica in ricovero di interventi effettuabili in day hospital o in ambulatorio (per esempio, ernie); e la già citata scrematura dei casi meno remunerativi (cream skimming). Questi effetti distorsivi sono causati o aggravati dal fatto che, come abbiamo accennato in precedenza, i DRG non sono stati adeguati ai costi effettivi dell’ospedale che il controllo di gestione consente di rilevare (11): sono identici per strutture grandi o piccole, nonostante la dimensione abbia evidentemente un ruolo nell’architettura dei costi e nella flessibilità operativa; identici per regioni diverse con problemi sociosanitari diversi; per strutture pubbliche e private, che hanno un diverso grado di libertà nell’accettare i casi da trattare, e così di seguito. Di conseguenza, per raggiungere il pareggio di bilancio (istituti pubblici) o per aumentare i profitti (cliniche private) i medici sono messi nella condizione di essere ricattati dal direttore generale – la nuova figura introdotta dalla riforma, che ha pieni poteri pur non essendo un clinico – affinché siano sempre più produttivi (12). Se poi, come alla Santa Rita, il loro stipendio viene commisurato alla quantità di denaro che riescono a far entrare nelle casse della clinica, non ci si deve stupire che un paziente con un’unghia incarnita possa subire un’operazione al menisco, o peggio ancora.
Aziendalizzazione perché? Aziendalizzazione per chi?
Come mai le istituzioni hanno reputato necessario affermare, addirittura per legge, che gli ospedali sono aziende?
Partiamo innanzitutto dalla definizione di azienda, così come la si ritrova in letteratura: le aziende sono “il sistema di operazioni economiche finalizzato a creare e ad accrescere nel tempo valore” (13), dove il valore, nelle caso delle aziende sanitarie, sarebbe costituito dallo stato di salute della popolazione.
Sembra che non ci sia niente da eccepire finché non si riflette sul fatto che non sono le operazioni economiche che aumentano lo stato di salute dei pazienti, ma è la pratica clinica. Proprio come ogni famiglia prende delle decisioni che hanno un riflesso economico senza per questo trasformarsi in azienda (pensiamo alla scelta del percorso scolastico più adatto ai figli e alla sua incidenza sul bilancio familiare), allo stesso modo il fatto di operare con risorse finanziarie limitate e di prendere decisioni con conseguenze economiche non può permettere di definire azienda un ospedale. Costringendo la pratica della medicina entro un insieme di regole economiche si altera in modo radicale non solo la natura del rapporto medico-paziente (che diventa un rapporto fornitore-consumatore di cure sanitarie) ma della scienza medica nel suo complesso, aprendo la strada a storture di ogni tipo. Ci sono parecchie ragioni per cui curare le malattie non può essere considerato alla stregua di vendere un piatto di spaghetti o un telefonino: per citarne solo una, il cliente (cioè il paziente) non è in grado di stabilire autonomamente quale sia il suo bisogno (di quale malattia soffra) e nemmeno di quali beni e prestazioni (cioè di quali terapie) necessiti per raggiungere la sua soddisfazione economica (ovvero la sua guarigione). Leggere nei manuali di economia sanitaria (che sono destinati non solo agli amministratori, ma anche ai clinici) che un paziente è “un individuo razionale che valuta le informazioni ricevute; decide in modo strategico se e quanto informarsi; e quanta conoscenza trasferire al medico” (14) è talmente lontano dalla realtà di una persona ammalata da far rabbrividire. E infatti, “nel discutere i modelli economici del comportamento degli ospedali la teoria dell’impresa non è molto utile, a causa del grado di discrezione che il decisore può esercitare” (15).
Quindi, per quale ragione il legislatore ha voluto forzare l’ospedale entro la definizione di azienda?
Tutte le motivazioni dichiarate (contenimento della spesa sanitaria e miglioramento della qualità delle cure) crollano di fronte all’evidenza: come abbiamo visto, nonostante la riforma, i costi del SSN continuano ad aumentare a un tasso di crescita invariato, e di che cosa sia successo alla qualità delle prestazioni mediche le autorità si sono bellamente disinteressate.
L’unica considerazione possibile in termini logici è la seguente: se l’ospedale diventa un’azienda, la salute diventa un business, e che business! Il Sistema sanitario nazionale vale in Italia l’8,5% del Pil e la spesa sanitaria assorbe la quasi totalità della disponibilità finanziaria delle regioni. Si capisce allora come trasformare gli ospedali pubblici in aziende pubbliche, consentire che queste ultime assumano la veste giuridica di società per azioni e fondazioni di diritto privato, permettere la fusione o l’accorpamento delle une con le altre qualora il mercato lo richieda o addirittura la chiusura se non raggiungono il pareggio di bilancio (condizione diffusa nella sanità pubblica dopo l’introduzione di DRG tanto accuratamente raffazzonati) rappresenti una strategia deliberata per mettere il lauto giro d’affari del SSN nelle mani dei capitali privati che operano secondo le più moderne teorie del profitto.
Nel prossimo numero analizzeremo quali sono i meccanismi, impliciti in queste teorie, che rischiano di trasformare un buon ospedale in una clinica degli orrori.
(1) Il Venerdì di Repubblica, 11 luglio 2008
(2) Governance ed economicità nelle aziende sanitarie, Massimo Saita, I libri de Il Sole 24 ORE, pag. 45
(3) Massimo Saita, op. cit., pag. 34
(4) Decreto legge 502/1992, art. 8
(5) Dall’ottobre 2005 Francesco De Lorenzo è Professore Ordinario di Biochimica all’Università Federico II di Napoli (francesco.delorenzo@unina.it); è inoltre presidente dell’AIMaC, Associazione Italiana dei Malati di Cancro
(6) Politiche innovative nel Ssn: i primi dieci anni dei Drg in Italia, AAVV, Il Mulino, pag. 14
(7) Massimo Saita, op. cit., pag. 43
(8) AAVV, op. cit., pag. 115
(9) AAVV, op. cit., pag. 179
(10) Massimo Saita, op. cit., pag. 43
(11) Massimo Saita, op. cit., pag. 44 e AAVV, op. cit., pag. 15
(12) Decreto legge 502/1992 , art. 6
(13) Massimo Saita, op. cit., pag. 11
(14) Economia sanitaria, Rosella Levaggi e Stefano Capri, Franco Angeli, pag. 81
(15) Rosella Levaggi e Stefano Capri, op. cit., pag. 103