QUI la prima parte dell’inchiesta
Dentro la sanità pubblica e privata
Per identificare quali siano i reali problemi della sanità lombarda dopo la riforma, abbiamo intervistato tre primari ospedalieri: due di essi lavorano in importanti strutture private e il terzo in un grande nosocomio pubblico. Abbiamo deciso di proteggere tutti come fonte anonima, per evitare possibili conseguenze negative e permettere loro di risponderci in assoluta libertà. Le domande hanno riguardato i temi affrontati nel corso della prima parte dell’inchiesta (1), in primo luogo le conseguenze dell’aziendalizzazione del Sistema sanitario nazionale, pubblico e privato, e in particolare quali rischi comporti il sistema dei rimborsi a prestazione basato sui DRG; secondariamente, come si spiega l’esplosione di truffe al Sistema sanitario regionale, e come siano possibili episodi da ‘clinica degli orrori’ come quelli sbandierati a gran voce su giornali e televisioni, ammesso che siano accaduti realmente – per ora, si tratta solo di accuse, il processo deve ancora concludersi.
«I DRG hanno qualche vantaggio e molte pecche, e almeno nel mio caso sono inapplicabili, a meno di evidenti distorsioni» ci racconta uno dei medici, primario in un istituto privato. «Il problema è che i DRG, basandosi sulla scheda di dimissione ospedaliera, vengono rimborsati al reparto che dimette i pazienti, così la mia unità – paradossalmente – riceve i rimborsi solo nel caso che i pazienti muoiano: se invece le terapie prestate funzionano, i pazienti, a emergenza cessata, vengono trasferiti in un altro reparto, a seconda della patologia principale. Sarà questo reparto che, ad avvenuta guarigione e conseguente dimissione, riceverà i rimborsi dalla regione. Quindi, se la direzione dell’ospedale valutasse il mio operato sulla base dei DRG prodotti, dovrebbe concludere che quanto più numerosi sono i decessi, tanto meglio lavoro: un evidente assurdo». A questo proposito, gli ultimi dati pubblicati, fra cui quelli elaborati dall’Istituto dei Tumori, mostrano un incremento considerevole nel tasso di mortalità sia per quanto riguarda le strutture pubbliche che per quelle private. «Dal mio punto di vista questo fenomeno si spiega in gran parte con il miglioramento delle tecniche di anestesia, che permettono oggi di operare pazienti molto anziani o affetti da patologie debilitanti – per esempio cardiopatici – per i quali in precedenza gli interventi chirurgici erano praticamente esclusi. Ovvio che in questi casi la percentuale di decessi sia maggiore.» Ma, visto che operare diventa sempre più ‘sicuro’, non si tende a esagerare? «Prendiamo un esempio molto frequente, la rottura del femore su un paziente ultraottantenne. L’alternativa all’operazione è la morte, perché una persona di questa età non sopravvive a lungo immobilizzata in un letto. Forse vale la pena correre qualche rischio in più. Se si trattasse di sua madre, che cosa deciderebbe?»
Resta il fatto che la differenza nei rimborsi fra patologie che non richiedono interventi chirurgici e patologie che li richiedono (DRG medici e DRG chirurgici) come pure fra patologie o interventi senza complicazioni e patologie o interventi con complicazioni sono davvero consistenti (2): un’operazione su un paziente anziano, che può portare più facilmente a complicazioni per il precario stato di salute legato all’età, economicamente è un ottimo affare, tanto più che – considerazione cinica – i rimborsi arrivano a prescindere dall’esito dell’intervento, anche in caso di morte del paziente. Se da un lato non si può accusare il ministero di remunerare arbitrariamente gli interventi chirurgici in modo maggiore rispetto ad altri tipi di terapie – dal momento che prevedono più figure professionali coinvolte e l’uso di una struttura costosa come la sala operatoria – dall’altro i DRG, una volta inseriti in un’ottica manageriale che preme per ottenere una produttività sempre più elevata, si trasformano in uno strumento la cui gestione può condurre a eccessi pericolosi. «Basta consultare le tabelle e fare qualche calcolo: per un’appendicite vengono rimborsati circa 3.000 euro, ed è un intervento che si effettua in day hospital; per un intervento al colon mediamente dai 16 ai 18.000 euro; per una tracheotomia, un buchino sotto la gola, possono essere rimborsati anche più di 70.000 euro: sono i DRG chirurgici quelli estremamente convenienti per la clinica» afferma il secondo primario che opera in una struttura privata. Il problema, dunque, non sembrano essere i rimborsi a prestazione in quanto tali, ma la loro applicazione in un contesto aziendalizzato. Questo è il caso soprattutto degli istituti di cura privati, la cui principale ragione d’essere è il profitto. «Da noi i medici – prosegue la nostra fonte – lavorano in stato di evidente stress: non solo sono sottopagati rispetto a figure professionali equivalenti in ospedali pubblici e assunti spesso con contratti a termine; non solo maturano annualmente 0,4 punti contro il punto tondo dei loro colleghi del comparto pubblico (3), ma sono costantemente angosciati dall’imperativo di ‘rendere’. È sufficiente assistere alle discussioni fra colleghi per rendersene conto: bisogna essere decisi a rischiare anche il posto di lavoro o davvero votati al giuramento di Ippocrate per resistere alla tentazione di gonfiare i rimborsi».
Del resto, che l’ambiente medico sia sottoposto a pressioni indebite è lo stesso Ordine nazionale a denunciarlo: in un comunicato emesso per difendere l’immagine dei medici della Santa Rita non coinvolti nelle indagini, la professione medica viene definita come «sempre più disperatamente difficile da esercitare», e non certo perché la ricerca scientifica non faccia passi avanti.
Ma anche negli ospedali pubblici qualche rischio c’è. «Se il problema nelle strutture private è la possibilità di abusi più o meno gravi, il problema nelle strutture pubbliche è quello degli sprechi» ci racconta la nostra terza fonte, primario di un ospedale pubblico lombardo. «La regione a fine anno copre i buchi che si creano nei bilanci, e questo non rappresenta certo un incentivo al contenimento dei costi. E alla fine, gli sprechi vengono ripianati coi soldi pubblici, vale a dire a carico dei contribuenti».
A proposito di sprechi, ci è stato segnalato da fonti non mediche un sistema di tangenti, la cui entità varierebbe dal 5 al 10% del valore delle forniture, nel quale sarebbero coinvolti alcuni responsabili degli acquisti di strutture pubbliche; ma sono voci e accuse che non ci è stato possibile verificare. Tuttavia, ci siamo chiesti se esistano meccanismi di controllo finalizzati a evidenziare irregolarità amministrative, per esempio la corretta gestione delle gare di appalto, e purtroppo non ci è nota la presenza di strumenti pensati a questo scopo. La situazione, per fortuna, sembra molto diversa per quanto attiene la dimensione clinica. Tutti i medici intervistati ci hanno confermato che non solo su SDO e DRG i controlli ci sono, ma che sono anche frequenti e accurati, sia in ambito pubblico che privato. «Non solo siamo puntualmente visitati dai Noc (Nuclei operativi di controllo, n.d.a.), ma siamo anche tenuti a compilare settimanalmente report relativi agli eventi sentinella, ossia a quei dati che sono indizio di un comportamento medico scorretto, come per esempio il tasso di ricovero ripetuto per singolo paziente e l’indice di mortalità» ci confermano sia il primario della struttura privata sia quello della struttura pubblica. Ma allora, come possono accadere casi come quello della clinica Santa Rita? I controlli, nonostante tutto, sono insufficienti? O c’è sotto dell’altro?
«Oggi in televisione e alla radio ho sentito le dichiarazioni dei pazienti all’apertura del processo e mi sono chiesto: ma dicono la verità o sono stati imbeccati ad arte? E che rapporto avevano con il medico che li ha operati?» Questa affermazione non proviene da un medico della Santa Rita, ma dal ‘nostro’ primario che lavora nel settore pubblico. «Un paziente affermava di avere subito una resezione del polmone, che definiva inutile visto che gli esami effettuati non avevano evidenziato malignità. Ma certi distretti dell’organismo non sono facilmente indagabili, come appunto il polmone o, per parlare dei casi di cui mi occupo, l’intestino. Gli esami che si possono effettuare a livello preliminare spesso non danno risultati conclusivi e perciò l’intervento chirurgico può essere fortemente consigliabile. La cosa fondamentale, in questi casi, è informare il paziente in modo esaustivo circa la sua situazione e chiarire quali siano le varie alternative terapeutiche, sapendo che in medicina ci sono molte zone grigie, e i comportamenti da attuare non sono standardizzabili, nonostante esistano, e per fortuna, linee guida e protocolli, non applicabili però a tutti i casi indifferentemente».
Discorso analogo per un altro degli interventi più spesso contestati in caso di indagini sulle cartelle cliniche, e cioè la rimozione chirurgica di metastasi. «Sui giornali si parla di questo tipo di operazioni come se fossero sempre inutili e dannose, ma la realtà è ben diversa: per esempio, in caso di tumore al colon con metastasi epatiche, si eliminano con interventi di chirurgia classica o con nuove tecniche meno invasive anche le metastasi per aumentare la possibilità di guarigione ed evitare lunghe terapie chemioterapiche, molto debilitanti per i pazienti. Oppure nei casi in cui gli esami evidenzino la presenza di metastasi, ma non si riesca a rintracciare il tumore primario – a volte capita – rimuovere la metastasi può essere una soluzione da praticare. O ancora, in casi limite, in cui si è già tentato tutto quel che si doveva tentare senza risultati apprezzabili, rimuovere chirurgicamente le metastasi può essere l’unica strada possibile per aumentare l’aspettativa di vita del paziente. Ripeto, in medicina le vere certezze sono poche, perché ogni organismo è un caso a sé e risponde in modo assolutamente individuale a qualunque terapia si decida di praticare. Quello che conta è che ci sia un’assoluta chiarezza fra medico e malato».
«È vero – conferma il secondo primario della struttura privata – ci sono casi in cui la rimozione chirurgica delle metastasi non solo non è inutile o dannosa, ma addirittura fortemente consigliata per il benessere del paziente. Non si possono fare semplificazioni, e sono convinto che molte delle accuse rivolte ai medici della Santa Rita e di altre strutture coinvolte in accertamenti giudiziari cadranno in sede processuale: dimostrare l’inadeguatezza di alcune decisioni mediche è molto difficile, a volte addirittura impossibile.» Proprio per questa ragione il cammino imboccato sulla strada dell’aziendalizzazione della sanità porta a risultati tragici: «Il corpo umano non è una macchina, e un ospedale non è un’officina meccanica: non lo puoi organizzare per linee di produzione e farti retribuire un tanto al pezzo».
Il personale della Santa Rita ha un blog (4), che raccoglie sfoghi e testimonianze di medici, personale infermieristico, pazienti, semplici cittadini, insieme ad articoli apparsi su stampa e web e alla corrispondenza della clinica con l’Ordine dei medici in relazione allo scandalo. È una lettura istruttiva, perché oltre all’indignazione (sacrosanta) per l’accaduto fa sorgere numerose domande a cui si dovrebbe rispondere, e le domande non sono quelle che ci si aspetterebbe. Per esempio, viene riportata una notizia Ansa del 10 ottobre 2008 secondo la quale la direzione generale della Asl di Milano aveva denunciato il 26 settembre 2007 (dieci mesi prima dello scoppio dello scandalo), attraverso la relazione di una commissione costituita ad hoc da medici interni e specialisti di parte esterni alla Santa Rita, le presunte irregolarità commesse dal dottor Pier Paolo Brega Massone, ex primario di chirurgia toracica. Dice l’articolo: “Medici, infermieri, fisioterapisti e altri dipendenti si chiedono perché la Asl non abbia sospeso con l’Ordine dei medici l’attività di Brega Massone, quando il rischio per la salute pubblica era già stato ampiamente documentato e verificato dalla commissione. Per dimostrare la fondatezza delle loro affermazioni, i sanitari hanno fornito all’Ansa un documento protocollato (pubblico ma non diffuso dai media) della Asl città di Milano, che è poi il testo della relazione in cui vengono rilevate le irregolarità”. A seguito delle conclusioni della relazione, l’amministrazione della Santa Rita ha licenziato in tronco il primario, che dunque non lavorava più nella struttura da ottobre 2007. Il personale dell’ospedale, e noi con loro, si chiede: perché la ASL lo ha lasciato continuare la sua attività presso un’altra struttura (la clinica San Carlo, anch’essa indagata dal gennaio 2007 per truffa al Sistema sanitario regionale con cartelle gonfiate per un milione di euro)? Perché nel mese di luglio 2008, a un anno di distanza, ha revocato la convenzione e chiuso tutto l’ospedale, non solo il reparto incriminato, in cui comunque non operava più il presunto responsabile delle irregolarità? Perché il trattamento riservato alla Santa Rita è così diverso da quello che la Asl ha reputato necessario applicare in casi analoghi?
Ma a questo punto, per comprendere, è necessario fare un passo indietro.
Milano, 15 giugno 2008. Le Fiamme gialle effettuano un blitz all’ospedale Policlinico San Donato nell’ambito delle indagini sulle truffe in materia di rimborsi di prestazioni sanitarie da parte di cliniche private. Risultato: 24 avvisi di garanzia e due milioni di euro sequestrati. Indagato eccellente è il proprietario della struttura, Giuseppe Rotelli, definito dai media “il re delle cliniche private” lombarde per aver rilevato da Antonino Ligresti gli ospedali Galeazzi (già nel 1997 alla ribalta per lo scoppio di una camera iperbarica con undici morti), Madonnina e Città di Milano. L’acquisto ha portato a 18 le strutture sanitarie di sua proprietà, e le possiede quasi per intero, a parte una piccolissima quota di minoranza di UBS Fiduciaria, una società della famosa, e in questi tempi bui gravemente malversata, banca elvetica. A Rotelli le cliniche fruttano almeno 700 milioni di euro l’anno in termini di ricavi, la società che le possiede non è gravata da debiti e ha in attivo un rilevante patrimonio immobiliare che ne moltiplica il valore. Ma Giuseppe Rotelli, oltre a essere un importante imprenditore della sanità, è anche un membro dei salotti buoni, e non solo milanesi: ha infatti un debole per l’editoria e possiede il 12% del gruppo Rizzoli-Corriere della Sera (per comprendere la rilevanza della sua partecipazione in RCS basti pensare che il gruppo Fiat ne possiede solo il 10%); detiene inoltre una partecipazione minoritaria in Eurovision, holding che controlla i canali televisivi Telelombardia, Antenna 3 e Canale 6. Due volte presidente del Comitato regionale della regione Lombardia per la programmazione sanitaria, è tra gli estensori del Piano ospedaliero regionale approvato nel 1974 e ha partecipato alla redazione di molte leggi in materia di sanità. A partire dal 1984 ha coordinato il gruppo di lavoro delle quattro università lombarde che ha portato alla redazione del primo progetto di Piano sanitario della regione Lombardia. Dal 1980 al 1993 ha ricoperto la carica di presidente dell’Istituto per la Scienza dell’amministrazione pubblica (ISAP), e nel 1993 è stato chiamato dalla facoltà di Medicina e Chirurgia dell’università di Milano a ricoprire la cattedra di Organizzazione e legislazione sanitaria.
Per rendere un’idea della rilevanza del soggetto, sconosciuto al grande pubblico, diremo solo che ha una pagina tutta sua (e molto edificante) su Wikipedia: niente a che vedere dunque con il famigerato notaio Pipitone, piccolo ma cattivissimo proprietario della ‘clinica degli orrori’. Insieme a Giuseppe Rotelli sono indagati 4 dirigenti e 19 medici del Policlinico San Donato, tutti accusati a vario titolo di falso ideologico e truffa ai danni del Servizio sanitario nazionale, e lo stesso ospedale è iscritto nel fascicolo di indagine per la responsabilità amministrativa degli enti. Secondo quanto emerge dall’inchiesta condotta dal pm Sandro Raimondi, i professionisti avrebbero attestato sulle cartelle cliniche fatti e situazioni non rispondenti al vero allo scopo di procurarsi un indebito rimborso da parte della regione per gli anni 2004, 2005 e 2006. In numerosissimi controlli effettuati il DRG è stato classificato in maniera inesatta, permettendo alla struttura di incassare 2,4 milioni di euro invece dei regolari 346mila. Capitava per esempio che i medici scrivessero nella diagnosi di aver riscontrato “altri tumori maligni della cute del tronco, eccetto lo scroto” quando l’esame istologico dichiarava “dermatite cronica cute torace”, tutto perché gli interventi chirurgici per neoplasie maligne sono rimborsati al di fuori del tetto annuale di budget assegnato alle strutture. Inoltre, sono stati prodotti molti DRG relativi ad “asportazioni radicali di organi e tessuti”, interventi molto ben pagati nei quali vengono riscontrate parecchie (remunerative) complicazioni. In conclusione, per l’accusa “le degenze paiono più correlabili a un più favorevole rimborso economico che verso esigenze specifiche di cura del singolo assistito”.
Ora, medici, infermieri e tutto il personale della Santa Rita si chiede (e noi, di nuovo, con loro): come mai i 19 medici del Policlinico San Donato sono solo indagati e non agli arresti e sospesi dal loro ruolo fino a tempo da stabilire? Perché i reparti interessati non sono stati chiusi? Perché non c’è un attacco mediatico alla struttura? Perché, a parità di accuse, non sono stati sospesi gli accreditamenti della regione? Scrive Fabio Glavina, cardiologo alla Santa Rita: “Alcuni mesi fa furono aperte inchieste su un famoso cardiochirurgo che, si ipotizza, abbia impiantato valvole cardiache su persone sane e su un famoso urologo a cui hanno perfino sparato di recente (innocenti fino a prova contraria). Eppure quei due ospedali non sono stati chiusi, nemmeno i reparti incriminati, e i medici ancora oggi lavorano e operano: due giustizie dunque. Perché? Il dottor Brega non lavora più qui dal settembre 2007. Le cifre contestate alla clinica sono le più basse di tutte quelle nell’occhio del ciclone (basta leggere l’inchiesta di Panorama). Perché chiudono solo noi? Per gli altri il rischio della reiterazione del reato non sussiste? La realtà è che si stanno muovendo forze che vanno oltre la semplice giustizia, delle quali io personalmente ho paura”.
Ma quali forze? Dopo tutto questo tam tam non solo mediatico (chiusura, revoca della convenzione con la regione, riapertura, ri-attribuzione della convenzione), le quotazioni economiche della Santa Rita sono scese drasticamente e il proprietario, che ha patteggiato una pena di 4 anni e 4 mesi di reclusione, è anziano: forse, dopo questa batosta, non se la sentirà più di governare una clinica, e chissà che non ci sia qualcuno pronto a rilevare la sua proprietà a prezzi di saldo. L’ipotesi non è campata in aria, tutt’altro. Il comparto sanitario assorbe più del 90% delle risorse a disposizione della regione, e fa gola a molti; non solo, se si analizza la geografia delle cliniche accreditate, si scopre che poche società posseggono molti degli ospedali in oggetto, indizio che il settore si presta a economie di scala: più strutture si posseggono, meglio possono essere ottimizzati gli investimenti. A questo punto, l’acquisto di un istituto di cura come la Santa Rita che – reparti incriminati a parte – ha diverse unità cliniche d’eccellenza o quasi, è appetibile per molti dei gruppi ospedalieri operanti in regione. Tra parentesi, a suggerire che a pensar male si fa peccato ma spesso ci si azzecca, non si riesce a capire quale sia stata la causa scatenante le indagini: non un normale controllo a campione, non la relazione interna della Santa Rita, ma – così si è detto – le denuncie di alcuni pazienti oppure una soffiata anonima. Denuncie o soffiata molto utili per un eventuale compratore, e ben amplificate da stampa e televisioni, anzi, amplificate come mai era successo in precedenza, a suon di particolari raccapriccianti che hanno portato la vicenda al processo in un lampo (altra stranezza, almeno in Italia). D’altro canto, criminalizzare sui media Pipitone è senz’altro più facile che criminalizzare chi, come Rotelli, possiede una bella quota del più importante quotidiano nazionale (Corsera viene distribuito gratuitamente in tutti gli ospedali del Gruppo ospedaliero San Donato), frequenta i salotti buoni, è titolare di cattedre universitarie e ha amicizie politiche e finanziarie prestigiose. Il ‘re delle cliniche’ – sia detto per inciso – si è affrettato a dichiarare che, nel caso venissero accertate le irregolarità (e si dice sicuro del contrario), le responsabilità possono essere unicamente di quei medici che hanno diagnosticato il falso e compilato DRG adulterati, non certo sue. Suoi, sono solo i profitti. Dunque, lui che c’entra?
Proviamo a spiegarglielo attraverso le parole dei medici incriminati della Santa Rita, registrate nel corso delle intercettazioni ambientali: «Qui non si viene a fare i primari, qui si viene a fare i DRG!» (Brega Massone); «Lo sapevamo tutti che alla San Carlo era la proprietà che diceva ai medici di pompare i DRG! Però non è che fanno i controlli alla proprietà, nei guai ci vanno i medici e l’Ordine che sa di tutte queste porcherie ma non si muove» (Arabella Galasso, dottoressa); e ancora, «Pipitone prenderà quelli che gli fanno guadagnare miliardi, se anche li beccano la colpa è dei medici e lui viene fuori pulito. Lui guadagna e poi i Noc fanno le ispezioni a campione, non è mica detto che li becchino, capisci? Intanto però lui ha guadagnato» (Arabella Galasso); e infine, Brega Massone e Merlano, direttore sanitario, in riferimento al fatto che la regione Emilia Romagna richiede l’obbligo di assunzione dei medici per le strutture private che decidono di accreditarsi: «Non li pagano a DRG, ma li assumono a stipendio fisso. Se anche qui le cose andassero così non sarebbero successi tanti casini. Ovvio che se il datore di lavoro ti dice più operi più ti pago…». Ovvio, non è vero?
Ma in ottica strettamente aziendale, se i rimborsi pubblici avvengono sulla base delle prestazioni effettuate, è assolutamente logico e consistente remunerare anche i medici con lo stesso metodo, certo per una cifra ridotta della quota relativa alla copertura dei costi fissi e del (giusto?) profitto dell’imprenditore sanitario. Cerchiamo di chiarire meglio: il proprietario di un ospedale privato, a differenza di chi gestisce strutture pubbliche – che possono beneficiare del ripianamento di eventuali buchi di bilancio da parte della regione – è nella stessa situazione del proprietario di una fabbrica di automobili. Non ha nessuna certezza circa il valore dei rimborsi che riuscirà a ottenere (il numero di macchine che riuscirà a vendere per ogni modello), mentre sostiene tutta una serie di costi strutturali (sale operatorie, macchinari, personale infermieristico eccetera). Visto che il medico è nella posizione analoga a quella del rivenditore d’auto di una concessionaria, anzi, in una posizione molto più forte – perché è lui che decide il modello (la terapia) che meglio si confà al cliente (il paziente) – remunerarlo sulla base delle auto vendute è sicuramente un modo per orientarlo al profitto (suo e dell’imprenditore), e nello stesso tempo azzera il rischio di pagarlo più di quel che rende. Se qualche furbetto poi vende (per errore o dolosamente) la macchina sbagliata, non sarà mica colpa del produttore! Semplice e letale.
Ma per fortuna, non tutti gli ospedali privati scelgono di remunerare i loro medici a prestazione: moltissimi, per circoscrivere il problema dell’incertezza dei rimborsi, scelgono di pagarli il meno possibile attraverso contratti di lavoro a tempo determinato, spremendoli per ore e ore come fossero limoni, senza nessuna garanzia di crescita professionale. Ci racconta il primario della struttura privata: «Da noi lavorano bravissimi medici a 800, 900, 1.000 euro al mese, sempre con l’incubo del rinnovo del contratto. Il proprietario ha fiutato il business e fa quattrini a palate: per lui, il malato è solo lo strumento per arricchirsi».
Santa Rita, San Carlo, San Donato: è quasi certo che i medici pagheranno, e alcuni di loro sono stati messi alla gogna prima ancora di essere giudicati colpevoli da una sentenza della magistratura (in fondo, la firma sotto la cartella clinica è indubitabilmente loro). Quanto agli altri, gli imprenditori e i politici, di quali colpe si sono macchiati, in effetti? Volere il denaro, il potere, il successo? Volerne un po’ di più? D’accordo, il sistema qualche volta partorisce mostri, ma la Sanità lombarda resta la migliore d’Italia e, in alcuni distretti d’eccellenza, si colloca fra le migliori del mondo. Su questo, sono tutti d’accordo. E che nessuno si azzardi a criticare.
(1) vedi Scoppiare di salute di Giovanna Baer PaginaUno n°. 10/2008
(2) vedi Tariffe delle operazioni di assistenza ospedaliera per acuti erogate in regime di ricovero ordinario e diurno, http://www.ministerosalute.it/programmazione/sdo/sezUtility.jsp?id=83&label=ut_fil
(3) I punti maturati rappresentano un indicatore della qualità professionale raggiunta
(4) http://santaritami.blogspot.com/2008/06/commenti-generali.html