Giorgio Galli e Davide Pinardi
Riflessioni sulla metodologia storica e sull’incapacità della sinistra di liberarsi della leggenda nera di Stalin: un’afasia che ha paralizzato qualunque proposta alternativa di società. Incontro dibattito sul saggio Stalin e la sinistra: parlarne senza paura di Giorgio Galli (Baldini Castoldi Dalai, 2010) alla libreria Odradek di Milano, 12 marzo 2010
Davide Pinardi: Il saggio del professor Giorgio Galli affronta la figura di Stalin in una prospettiva storica al fine di sollecitare l’avvio di un’analisi più serena, equilibrata e ragionevole su di essa, un’analisi non più condizionata da considerazioni politiche di breve respiro. In sintesi potremmo dire che si tratta di una profonda riflessione sul rapporto che lega la figura storica di Stalin e la sinistra italiana. In particolare, soprattutto, si mette in luce la percezione alquanto deformata che quest’ultima ha del ‘famigerato’ leader russo, diventato ormai una sorta di ombra in grado di delegittimare qualunque logica di ricerca, di progetto, di continuità politica rispetto al passato, quasi che quella presenza così ingombrante avesse, nel tempo, essiccato e distrutto l’apparato radicale più profondo della stessa sinistra.
A mio parere, per prima cosa occorre aprire una parentesi su un concetto centrale nella metodologia storica. Di questi tempi da molte parti si va ripetendo in maniera sempre più ossessiva il tormentone della ‘verità dei fatti’: in ogni occasione si ribadisce in sostanza che i fatti – se si guardano senza paraocchi o convenienze di parte – parlerebbero da soli e, di conseguenza, quasi sempre si accusano le controparti di ‘falsificazione’. Queste accuse, così come le falsificazioni stesse, non sono certo un fenomeno nuovo. Si pensi alle tormentate vicende delle ricostruzioni del massacro di Katyn, alle fotografie di Robert Capa, alla famosa immagine della partita a scacchi tra Lenin e Bogdanov a Capri (nella quale sono via via scomparsi, per ordini successivi di Stalin, i presenti che attorno al tavolino osservavano la sfida). Insomma, non è solo di questi tempi il gioco continuo di alimentare l’illusione che, nella ricerca storica, si possa ricostruire ‘la verità’. Di questi tempi, però, il gioco sembra quasi obbligatorio. E guai a chi non si adegua…
Invece, purtroppo, per quanto l’illusione sia destinata a persistere, la storiografia offre sempre e ‘soltanto’ rappresentazioni della Storia, dal momento che i fatti, di per sé, esistono esclusivamente in funzione dei contesti, delle ragioni, dei nessi logici con i quali li si definiscono. È inevitabile che una ricostruzione storica finisca per privilegiare certi nessi causali negandone altri. Per esempio, la storiografia tende a dimenticare che le azioni dei protagonisti delle vicende anche più importanti sono originate e vengono compiute in funzione di percezioni, di sensazioni, di carenze informative coeve (e che dunque non sono uguali a quelle che abbiamo oggi).
Anche per questa ragione diventa impossibile raggiungere una verità storiografica unica e indiscutibile. Il problema non è quello della ‘verità storica’ ma, semmai, quello che non tutte le rappresentazioni storiografiche appaiono ugualmente coerenti, ugualmente sostenibili, ugualmente oneste. Molto di tutto ciò dipende dalla deontologia dello storico, dal suo rapporto con i committenti, espliciti o latenti, dalla qualità della sua ricerca, dalla capacità e dalla possibilità di documentarsi, dalla continuità di approfondimento mostrata nel lavoro, dalla libertà che ha potuto avere di cambiare idea.
La questione della figura storica di Stalin si collega a questa riflessione generale: e dunque al criterio di ricostruzione dei fatti da parte degli storici, a quanto si riconosca che ogni ricostruzione altro non sia che una rappresentazione e non una ‘verità’, a quanto – sulla base di un processo mediatico – vengano costruite delle mitologie che pretenderebbero di ossificare ‘dati di fatto’ nell’immaginario collettivo fino a farli diventare indiscutibili.
Stalin viene considerato da molti una figura largamente positiva fino a qualche anno dopo la sua morte. Poi accade qualcosa per cui questa immagine comincia a sgretolarsi ed emergono attacchi e critiche, in parte presenti anche prima – la critica trotzkista, quella orwelliana di Animal farm e di 1984, quella delle sinistre anarchiche e libertarie – per via delle quali si legittima e si afferma una nuova rappresentazione opposta, assolutamente criminalizzante. Stalin diventa così una sorta di mostro portatore di qualunque colpa e responsabilità. Man mano che la ‘leggenda nera’ si amplia, finisce fatalmente per gonfiarsi sempre più, fino probabilmente a falsificarsi non più parzialmente ma completamente (perché se non esiste una assoluta ‘verità’ storica, di certo esistono molte assolute ‘falsità’ storiche…). E se prima l’immagine di Stalin era stata falsificata in una accezione positiva, nelle nuove versioni egli si trasforma via via in un feroce antisemita, in un vigliacco di fronte alle situazioni d’emergenza, in un paranoico assetato di sangue, in un ignorante incapace di comprendere qualunque problematica nazionale presente nell’enorme Unione Sovietica del tempo. È evidente che si tratta di una rappresentazione complessiva molto forzata e totalmente decontestualizzata.
Galli cerca, tra le altre cose, anche di evidenziare quanto sia importante non scollegare la costruzione di giudizi storici da uno studio sulle condizioni reali del tempo in cui gli avvenimenti oggetto di analisi sono accaduti. Per esempio supera la questione dei numeri delle vittime dello stalinismo non evitandola ma, anzi, sottolineandola con una doverosa contestualizzazione. Doverosa perché si può dire che è proprio in questa gara dei numeri, alquanto grottesca in un’ottica storiografica, che si sostanzia spesso la rappresentazione di Stalin supermostro paragonabile a Hitler: dietro i calcoli ‘spannometrici’ dei morti a causa sua si nascondono frequentemente le posizioni al contempo più seriose e più ridicole dei dibattiti finto-storiografici.
Se infatti è già molto complicato, nello stabilire una ‘verità giudiziaria’, attribuire a uno specifico colpevole una singola strage, figuriamoci quanto è difficile farlo quando si affronta la questione dei mandanti politici. Ecco perché diventa falsificatorio, oltre che ridicolo, collegare milioni di morti, spesso affidandosi a una serie di passaggi logici assai acrobatici, a un unico responsabile. Questi storici ‘dei numeri’ non si accorgono di quanto le loro forzature, in ogni direzione, delegittimino le loro battaglie combattute a colpi di calcolatrice.
Altrettanto delicata è la questione del rapporto tra Stalin e la sinistra italiana degli ultimi vent’anni, in particolar modo se analizzato nella prospettiva di quel senso d’imbarazzo e di incapacità della sinistra a sottrarsi a una sorta di inespiabile senso di colpa, quasi che ‘il voler cambiare il mondo per davvero’ significhi automaticamente puntare al gulag. Ragione per cui la sinistra ha spesso trovato meno colpevole (e più conveniente…) abbracciare il sistema economico neoliberista e la filosofia politica della liberal-democrazia, come sostiene Galli nel suo saggio. Lasciando così intendere automaticamente che le democrazie liberali non siano anch’esse state caratterizzate da comportamenti e atti criminali. Ma quando mai! Nel momento in cui adottassimo le medesime logiche contabili utilizzate per analizzare le dittature, ci renderemmo conto dell’enorme carico di morti che anch’esse – le nobili democrazie borghesi – hanno sulla coscienza.
Si potrebbe quasi dire che la sinistra ha, da questo punto di vista, una sola strada per poter tornare a pensare e a proporre un modello politico-economico differente dal capitalismo occidentale, per poter immaginare un socialismo che si proponga in una dimensione diversa rispetto alla classica democrazia liberale: deve liberarsi della leggenda nera di Stalin. Deve scrollarsi di dosso una mitologia sbagliata, non relegandola nel silenzio bensì aprendo riflessioni di carattere storiografico, evidenziandone gli errori – gli strumenti per farlo non le mancano – al fine di uscire da uno stallo che paralizza qualunque ipotesi alternativa di società. Una paralisi che di fatto sarebbe una resa perenne a un modello dominante che, dopo essere stato vincente per un certo numero di anni, oggi si rivela essere stato anche portatore di disastri, di guerre e di drammatiche bancarotte economiche.
Giorgio Galli: Mi sono deciso a scrivere questo saggio dopo essere stato un critico dell’esperienza del comunismo staliniano e post-staliniano. Ritengo che allora la critica fosse doverosa, così come oggi sono convinto che sia altrettanto doveroso, per uno storico, recuperare l’argomento, soprattutto per aprire un dibattito a sinistra. Il titolo del saggio spiega molto a tal proposito: Stalin e la sinistra: parlarne senza paura. Penso che oggi la riflessione della sinistra debba andare in direzione di un recupero dell’esperienza staliniana per capovolgerla e valorizzarla in chiave economica, quando, invece, la scelta degli attuali dirigenti dei partiti di centro-sinistra si propone solo nell’ottica del silenzio.
Dopo essere stato, dunque, un critico di quell’esperienza politica, mi sono trovato di fronte a una deriva del discorso storico secondo la quale il dramma del ventesimo secolo è consistito nella presenza del movimento comunista. Ma quel che più mi stupiva, era notare che la medesima deformazione storica veniva perpetuata da coloro che a lungo avevano pensato e affermato, con frasi che sbalordivano anche allora – seppure in senso opposto – che, parole di Togliatti, Stalin fosse: l’uomo che più di tutti ha fatto per il progresso dell’umanità. Dello stesso Togliatti mi sovvengono anche le parole pronunciate per commemorarlo alla Camera: “Giuseppe Stalin era un genio del pensiero e un genio della Storia, da lui prenderà nome un secolo intero”.
Dopo di che mi sono meravigliato moltissimo nel vedere che, mutati i tempi, tale giudizio non sia stato sostituito da una riflessione critica. Al contrario, i precedenti giudizi su Stalin sono stati sostituiti – nell’immaginario politico delle generazioni successive a Togliatti – dall’accettazione passiva della versione krushoviana, per poi venire anch’essa sepolta, via via che il tempo passava, da uno straordinario silenzio. Al punto che oggi, qualsivoglia politico appartenente alla vasta costellazione di sfumature rappresentate della sinistra, tende a pensare che Stalin non sia mai esistito. La sostanziale percezione che si ha, è che questa figura sia scomparsa dal discorso, per non essere più recuperata. Né per rivederla criticamente né per analizzarla in altro modo.
Mi è sembrato l’inizio di un processo di afasia in cui la sinistra ha cominciato a tacere la propria storia, a non parlare del proprio passato, fino al momento in cui non parla più di nulla. Secondo me, dal silenzio su Stalin deriva il silenzio su tutto. Così che oggi, la sinistra italiana si ritrova priva di un pensiero e priva di riflessione, in un silenzio tombale riempito solo dalle motivate, semplici e ovvie critiche a Berlusconi e da un’assoluta identificazione politico-economica con i criteri interpretativi della liberal-democrazia, uscita vincente – secondo la rappresentazione storiografica proposta – dal conflitto con il fascismo prima e con il comunismo poi.
Personalmente credo che si possa esprimere finora un buon giudizio complessivo della liberal-democrazia, a patto di focalizzarla però nell’ambito di quella riflessione critica maturata al suo stesso interno. Cosa che non fa la sinistra, al punto da essere oggi arrivata a identificarla con il bene assoluto, come la forma politica che ha risolto e che sempre risolverà tutti i problemi. Una concezione talmente radicale da essere estranea persino ai filosofi liberal-democratici: nessuno dei grandi fondatori del Sistema, da Locke a Montesquieu da Tocqueville fino agli ultimi pensatori di tale dottrina, ha mai pensato che fosse il bene assoluto né mai ha creduto che si potesse proporre e riprodurre questo modello a ogni latitudine. Nemmeno gli ultimi brillanti teorici della liberal-democrazia la presentano come la presenta il personale politico, filosofico e culturale di quella che è stata la sinistra italiana pervasa di stalinismo.
È per questa ragione che nel mio saggio ho preso in considerazione la questione delle cifre – pur ammettendo, come affermava ora anche Pinardi, che non si possa attribuire a una singola persona, a una singola corrente politica, un determinato numero di morti, e nonostante io sia convinto che non valga la pena di focalizzarsi sui numeri, di raccontare come qualunque sistema sociale, come ogni svolta storica, abbiano comportato decine di milioni di morti. Tuttavia i numeri possono aiutare, con una certa immediatezza, ad avvicinarsi il più possibile a una verità, per così dire, storica. Perciò sono partito dalle ricerche più recenti, da uno storico inglese, Richard Overy, per arrivare ad attribuire alla soluzione politica che si è realizzata in Unione Sovietica, nel periodo in cui il soggetto politico erano Stalin e il suo Partito comunista, non i 30 milioni inventati da Conquest nel suo diffusissimo saggio Il libro nero del comunismo, bensì, 9 milioni.
La differenza è emblematica, a dimostrazione di quanto la storiografia liberal-democratica, in complicità con l’antistalinismo di sinistra, abbia influenzato l’immaginario degli italiani per costruire il mito di Stalin dittatore sanguinario. Certamente rimane una cifra molto pesante. Di sicuro lo si può definire un esperimento storico molto ‘costoso’. Ma se vogliamo stabilire una proporzione con ‘l’altra parte’, quella della liberal-democrazia, i 9 milioni di morti prodotti dall’esperienza sovietica tra il 1917 e il 1953, sintetizzata nel nome di Stalin, si collocano in un contesto nel quale, in Europa, i milioni di morti sono stati 75! Infatti, con un’ironia un po’ tragica, avevo suggerito all’editore di intitolare il mio saggio: Stalin, un mostro al 12%. Il che è logico secondo ‘il gioco’ dei numeri: se vogliamo attribuire a una sola persona 9 milioni di vittime, occorre inserire questo numero all’interno del contesto storico in cui è vissuto: per cui possiamo contabilizzare quei morti nell’ordine di un 12%. Il che significa che non possiamo che addebitare il rimanente 88% a esperienze filosofiche che con Stalin e con il comunismo hanno nulla a che vedere. Non sto dicendo che questa sia la verità, è probabile che queste cifre siano suscettibili di qualche tipo di modifica; ma, più o meno, le proporzioni restano queste.
Cifre dunque assai lontane da quelle riportate da Il libro nero del comunismo – un saggio, tra l’altro, veramente singolare per come è costruito perché unisce studi di ottimo livello come quelli di Furet, a materiale assolutamente inverosimile. Tuttavia se chiedessimo a una persona, probabilmente anche a una persona che si colloca politicamente a sinistra, quanti morti abbia ‘provocato’ Stalin, la troveremmo d’accordo con le enormi cifre dichiarate da Conquest. Il che è dovuto all’enorme costruzione imposta attraverso un apparato mediatico di dimensioni colossali quali mai s’era visto nella storia umana. Questo enorme apparato mediatico non può certo essere affrontato da qualche saggio e da qualche pamphlet scritti qua e là, anche se credo sia comunque utile dare un segno materiale di presenza fisica di fronte a questa vicenda che consegna una Storia del ventesimo secolo difficile da ritenere anche minimamente accettabile – per quanto, purtroppo, soprattutto in Italia, costituisca la modalità con la quale viene costruita questa identificazione.
Non è stato il comunismo staliniano il dramma del ventesimo secolo. La storiografia più aggiornata – che non trova spazio nell’apparato mediatico – definisce la ‘seconda guerra dei trent’anni’ il fenomeno più rilevante del Novecento, ossia quel conflitto mondiale avviato nel 1914 e conclusosi nel 1945 – la prima è quella famosa del 1618, che si conclude nel 1648 con la pace di Westfalia. All’inizio della seconda guerra dei trent’anni, Stalin e Hitler non erano nemmeno proponibili nelle vesti di mostri del ventesimo secolo: nel 1914 non esistevano né comunismo né fascismo. Lenin faceva un grande sforzo per fare riconoscere, alla Seconda Internazionale, il suo come il partito maggioritario, e si chiamava Partito operaio socialdemocratico di Russia. C’è voluta la guerra perché nel 1917 Lenin dicesse: dobbiamo indossare una camicia pulita, non quella sporca della socialdemocrazia. E la camicia pulita si chiamò comunismo.
Il fascismo vi era men che meno. Il termine fascismo, che poi ha assunto una portata universale, prima della seconda guerra dei trent’anni era un termine di sinistra: c’erano i fasci siciliani e c’era il fascio operaio a Milano. Solo in seguito diventerà il fascismo così come adesso è noto a livello mondiale, ma sarebbe stato impensabile senza quel conflitto, le cui cause specifiche sono di difficile definizione. Lenin si illudeva che fosse la fase imperialista, la fase suprema e finale del capitalismo. Adesso sappiamo che sbagliava. Resta il fatto che la seconda guerra dei trent’anni è nata in un contesto culturale e geopolitico che era quello del pensiero liberale e democratico. Tutto lo sforzo per escludere come derivazione anche di questo pensiero quello che è nato dopo – fascismo, comunismo, guerre e milioni di morti – a me sembra sorprendente, per il fatto che c’è una scarsissima resistenza intellettuale a contestare un quadro storico e politico che è una chiarissima deformazione della realtà che persiste ancora adesso. Così, permangono ricostruzioni certamente fantastiche, secondo le quali la prima guerra mondiale è la guerra delle democrazie contro il militarismo austro-tedesco e la seconda è la guerra delle democrazie, di nuovo, contro il fascismo.
Riguardo il primo conflitto, certamente il militarismo era molto forte ma era presente ovunque, non era solo austro-tedesco. Inoltre la Germania e l’Austro-Ungheria erano liberal-democrazie con sistemi parlamentari sicuramente più avanzati di quello italiano, anche se non si può negare il peso che in essi aveva la monarchia. Mentre dall’altra parte, nella Triplice intesa, c’era anche la Russia zarista, la prigione dei popoli, come la definivano i liberali inglesi. Nella seconda guerra mondiale, almeno i termini erano leggermente più chiari, dato che il rapporto di contrapposizione culturale tra i fascismi storici degli anni Trenta e la liberal-democrazia era evidente. Certamente, anche in questo caso, esisteva l’asimmetria della prima fase della guerra: come dalla parte della liberal-democrazia c’era la prigione dei popoli, la Russia zarista, così, nel secondo caso, nella sfida tra la liberal-democrazia e il fascismo, c’era, alleato con la prima, un sistema politico diverso. Si può discutere riguardo alle sue caratteristiche, ma, di sicuro, l’Unione Sovietica non era né una liberal-democrazia né, tanto meno, uno Stato fascista, nonostante qualche audace simmetria che in seguito si è tentato di fare.
Tutta questa complessità della Storia del ventesimo secolo è stata completamente stravolta da una concezione estremamente semplificata, per la quale la liberal-democrazia ha sfidato e vinto il fascismo nella seconda guerra dei trent’anni, e, in seguito, ha sfidato e vinto il comunismo. Questo è il quadro che si è affermato, soprattutto in Italia. Altrove la riflessione si è sviluppata diversamente, in particolar modo nei Paesi anglosassoni, dove non manca un pensiero critico che legge diversamente, e in maniera più articolata, la Storia del Novecento. A Stalin è accaduto un po’ ciò che è accaduto per la storia della Chiesa cattolica, per cui abbiamo avuto in un primo momento la leggenda aurea, e in seguito, anche in contrapposizione, la leggenda nera. Stalin è, nello stesso tempo, il prodotto di una situazione storica e il simbolo di un mito.
Il presidente dell’American Historical Association, ovvero la storiografia anglosassone che qui in Italia viene assunta a modello, vent’anni or sono faceva una riflessione: abbiamo creduto di avere costruito una scienza storica, diceva, nella quale pensiamo di avere fondato la scientificità della Storia, ma, se analizziamo bene, ci accorgiamo che il confine tra la Storia e il mito è tuttora incerto e non così ben definito come ritenevano i nostri grandi maestri. Tutto ciò è curioso. Mentre all’interno del pensiero liberal-democratico più avanzato, si ammette che la scientificità della Storia sia un problema complicato ancora da risolvere, in Italia si finge che sia risolto, anche perché qui da noi si è capito che, usando in maniera deformata la comprensione del problema, si può veramente raccontare una Storia che un tempo il pensiero liberal-democratico definiva una Storia ad usum Delphini. Non ci sono più Delfini, ma la storia a loro uso continua a esserci.