C’è un proverbio, citato spesso dal mio amico Mimmuzzo, che recita: “Perché abbiamo due orecchie e una sola bocca?”, ed è spesso seguito da un’altra affermazione che sostiene con altrettanta decisione: “Parliamo per rispondere, non per farci ascoltare”. Entrambe le frasi mi sembrano assai ragionevoli, e alludono in maniera diversa alla situazione di ipertrofia del fattore visivo tipico degli ultimi cinquant’anni – una sorta di inflazione della comunicazione visiva a detrimento di quella auditiva. Il portato più semplice della situazione è che non solo l’apparire è diventato più importante dell’essere, ma che l’affermare (possibilmente per slogan o frasi fatte) viene fatto a fini del tutto intimidatori, non certo per cercare qualcosa di nuovo tra interlocutori, ognuno dei quali è portatore di idee diverse. Banalmente, già da prima di mollare del tutto il tubo catodico al suo destino, avevo percepito che qualunque discussione televisiva era perfettamente inutile, e sottendeva semplicemente un’esibizione dei muscoli o – se volete – un gioco delle parti mirato esclusivamente ad affermare una rendita di posizione.
La cosa mi è sembrata subito piuttosto desolante, e l’impressione si è persino aggravata leggendo di una statistica (fatta da una delle solite università statunitensi) secondo la quale il tempo medio di ascolto di un discorso fatto da una donna da parte di un uomo è di circa sette secondi. Un po’ pochini, a dire la verità, anche solo per cogliere un minimo di sfumature collaterali, che nel periodare di un essere femminile hanno spesso maggiore importanza del discorso immediatamente percepito.
Non riesco più a trovare un articolo esilarante in cui una donna sotto pseudonimo spezzava una lancia a favore di una decrittazione del discorso femminile a vantaggio dell’incontro, della comprensione, del mutuo accoglimento a fini evolutivi di reciproche affermazioni, tra due esseri di sesso diverso. In tale contesto l’affermazione femminile: «Caro, non ho nulla da mettermi» rischia di generare a seconda dei casi un collasso, una solenne incazzatura, infine una rassegnata scrollata di testa da parte del soggetto maschile coinvolto che guarda fissamente l’armadio e/o il comò della sua compagna che letteralmente tracima articoli di vestiario di qualunque fatta, misura e colore. Non serve certo il brillante intuito di un Alan Turing per dipanare la complessa matassa linguistica: basta una po’ di buona volontà. Dopo tale operazione ermeneutica la frase dovrebbe suonare grosso modo come segue: «Tra tutto il materiale di vestiario a mia disposizione, al momento non ce n’è neanche uno che si accordi con il mio sentimento, il mio sentire di questo momento».
Effettivamente, non si può non rimanere ammirati di fronte al dono della crasi, dell’ellissi iperbolicamente significativa di un’affermazione secca e dritta che suona: «Non ho niente da mettermi» anche perché con poco sforzo di immaginazione la risposta maschile oscilla prevedibilmente tra il: «Ma se hai l’armadio pieno di roba» e il: «Ma se ti ho appena comprato una valigia di vestiti!»
L’affermazione femminile, come vedete, viene recepita alla lettera, e noi maschietti dovremmo ben sapere da un pezzo che come dice San Paolo (patrono inconscio di molti maschi), “Littera enim occidit, spiritus autem vivificat” – ossia: “Infatti la lettera uccide, lo spirito invece vivifica” (2ª lettera ai Corinzi 3,6). Cerchiamo dunque di cogliere lo spirito dell’affermazione mettendoci nei panni (scusate il bisticcio) della femmina di turno che non ragiona, bensì percepisce… e le cose diverranno subito molto più chiare, a patto di accettare un tal modo di argomentare.
Scherzi a parte, la faccenda dell’ascolto è piuttosto seria, e a parte il consiglio di prendere a martellate il tubo catodico, la mia verità del momento sta nel fatto che – almeno in questo Paese – tutto viene fatto meno che mettersi umilmente nell’ascolto dell’interlocutore. In questo senso mirabile è il verbo anglosassone under-stand, cioè stare sotto, tradotto con comprendere, capire: il bambino o la persona umile che sono più in basso di te si sforzano costantemente di comprendere. È un atteggiamento che porterebbe sicuramente molti benefici alla società, che invece ragiona quasi costantemente alla lettera giocando a metterla subito dopo in cagnara, senza sforzarsi di ragionare o di argomentare. Mica per caso l’unico che sa ragionare con i computer, nella saga del commissario Montalbano, è l’umile agente Catarella, che possiede di natura un modo di ragionare binario ‘si/no’, tipico dei computer. Senso dell’umorismo sotto zero, logica letterale, azioni conseguenti.
Il questore di Roma, nella recentissima calata dei barbari olandesi del Feyenoord, ha mostrato di ragionare allo stesso modo, visto che a lui era stato demandato l’ordine pubblico e… “Signori, io morti non ne faccio”. Logico, conseguente, cartesiano: del patrimonio artistico in cui inciampi ogni due per tre a Roma non so che cosa farmene, di fatto sono autorizzato a fregarmene, non è compito mio proteggere delle pietre – al massimo io proteggo i negozi e se del caso le persone, che però non debbono essere manifestanti sindacali, di sinistra, mentre che mai disoccupati, sfrattati, non parliamo dei No Tav.
Non è dunque per eccesso di pessimismo che ho gioito all’ascolto di questo simpatico lavoro dell’inedito duo costituito dal pianista toscano Stefano Bollani, da sempre innamorato/ impallinato dal Brasile, e dal virtuoso brasiliano del bandolim, a nome (neanche a farlo apposta) Hamilton de Holanda, apparentato in quanto al cognome al più illustre Chico Buarque de Hollanda, ed entrambi di apparentemente chiara discendenza da colonizzatori del Nord Europa. Non fosse per lo spiritaccio toscano che lo agita, il pianista potrebbe tranquillamente passare per uno degli eccentrici geniacci del pianoforte che ogni tanto la natura ci regala, senza guardare alla nazionalità (e per fortuna neanche al volume dei capelli, se no Allevi sarebbe già nell’Olimpo). Talento naturale già rivelatosi a sei anni, volendo diventare un cantante, la leggenda racconta avesse spedito una audiocassetta al suo idolo Renato Carosone, il quale lo incoraggiò a proseguire ascoltando molto blues e jazz. Ascoltando: ecco la parola chiave.
Bollani ha un orecchio estremamente fine – la tecnica pianistica superba è cosa a parte – che gli consente di trattare con estrema naturalezza le partiture jazzistiche più ardite così come le più innocenti melodie infantili e trarne risultati sorprendenti, sia in termini di sonorità, che di impasto tra strumenti diversi, che infine di soluzioni armoniche originali. Non è neanche un caso che alla fine i suoi incontri più prolifici e significativi non siano quelli con i jazzisti puri – che pure hanno prodotto risultati di grande rilievo, come il CD con Frisell, Lund & co. – quanto quelli con musicisti di formazione eclettica.
Il suo socio Hamilton de Holanda ha infatti nel curriculum incontri e frequentazioni con lo straordinario pluristrumentista Hermeto Pascoal (capace di comporre sinfonie sul canto degli uccelli amazzonici) e con l’altro sommo arrangiatore, compositore ed esecutore a nome Egberto Gismonti – il che equivale a dire andare a scuola con il condensato massimo della MPB, Musica Popular Brasileira, laddove il termine ‘popular’ è inteso nel senso più genuino di musica suonata e vissuta dal popolo, in tutta la sua complessità. De Holanda è il partner ideale per proseguire questo percorso di ascolti reciproci, vista l’abilità nell’unire in maniera fluida e coerente i tanti linguaggi del Brasile con la sonorità peculiare del mandolino, attraverso una tecnica sopraffina e la visione aperta alle suggestioni proposte dalla modernità.
Figlio di un lignaggio vivissimo, quello dei suonatori solisti di bandolim, a cominciare dal padre di tutti Jacob do Bandolim fino al suo maestro più vicino Armandinho, il nostro Hamilton non è scevro da citazioni curiose: a questo proposito viene da dire che Apanhei-te cavaquinho (Ti ho beccato cavaquinho), scritto da Ernesto Nazareth per prendere in giro i cavaquinisti, visto che l’autore aveva inserito una nota nella melodia fuori dall’estensione dello strumento, è invece suonabile con il bandolim anche nella versione custom di Armandinho, come nel CD Retocando o Choro.
Per chi non lo sa il bandolim a 10 corde suonato da de Holanda è sostanzialmente il mandolino portoghese introdotto in Brasile nel periodo della colonizzazione, omologo del nostro mandolino partenopeo per intenderci, ma di forma differente perché ha il fondo piatto e la forma di una castagna. Le corde sono doppie, e questo lo rende uno strumento più adatto del cavaquinho sia per i soli, le melodie (avendo piú ‘corpo’), sia per l’accompagnamento (in quanto le corde doppie conferiscono più sonorità negli accordi). Inoltre, nel caso dello strumento che suona Hamilton c’è una corda in più che rende il suo strumento più completo, con una estensione più ampia, adatta a un repertorio più internazionale, più vasto e capace di fondersi bene con i vari generi.
Hamilton ha dovuto imparare a suonare molti altri strumenti da giovanissimo, causa la mancanza di insegnanti adeguati di bandolim. Per lui è stato quindi fondamentale ascoltare i grandissimi della MPB che citerà ampiamente in questo lavoro con Bollani: Luiza di Tom Jobim (in cui Bollani echeggia all’inizio addirittura Honeysuckle Rose di Fats Waller), Canto de Ossanha (Baden Powell/Vinicius de Moraes, con Bollani che suona un bebop alla Tom&Jerry e De Holanda che omaggia Django Reinhardt), Beatriz (Edu Lobo con parole di Chico Buarque), poi composizioni come Rosa di Pixinguinha oppure O que será di Chico Buarque e poi Oblivión (Astor Piazzolla… alla faccia di chi dice che i brasiliani non ascoltano tango e meno male che non hanno riproposto Libertango). Bollani ci mette di suo un’omaggiata a Carosone in Guarda che Luna, in cui viene imitato benissimo Paolo Conte, e una stralunata Il barbone di Siviglia più saporita a dirsi che a suonarsi… un live di puro divertimento e ascolto reciproco: ci voleva.
Stefano Bollani e Hamilton de Holanda, O que será, ECM, 2013