intervista di Giuseppe Ciarallo |
Stefano Bellotti, più noto come ‘Cisco’, è una delle voci più incisive di quel nostrano combat rock che affonda le sue radici nei testi poetici e ribelli degli Stormy Six dei primi anni Settanta, nelle atmosfere create dalla dura ironia di Gianfranco Manfredi, passando poi per i Gang dei fratelli Severini, i 99 Posse e tutti quei gruppi che hanno fatto della loro musica un mezzo per trasmettere messaggi di resistenza e di lotta contro ‘lo stato attuale delle cose’ e la massificazione dei cervelli e dei desideri in questo ignobile scorcio di Storia.
A proposito, leggenda vuole che il soprannome Cisco sia stato affi bbiato a Stefano per una sua maglietta con la scritta San Francisco, frequentemente indossata, usuratasi nel tempo fino a lasciare solo le ultime cinque lettere. Voce e frontman dei Modena City Ramblers per quattordici anni a partire dal 1992, nel 2006 Cisco intraprende la carriera di solista che lo porterà a pubblicare quattro lavori: La lunga notte (2006), Il mulo (2008), Dal vivo – vol. 1 (2009) e Fuori i secondi, album di recentissima uscita.
Dunque Cisco, partiamo proprio dalla copertina e dal titolo del tuo nuovo disco: nell’immagine sei ritratto nei panni di un ginnasta fine Ottocento, con tanto di baffoni alla ‘Umberto’, nell’atto di reggere un antiquato bilanciere con una mano e una coppa con l’altra. Anche il titolo, Fuori i secondi, rimanda a una terminologia sportiva essendo nella boxe l’invito dell’arbitro all’uscita dal ring di allenatori e tecnici dei due pugili, per l’inizio del combattimento. Hanno un significato simbolico, copertina e titolo?
Certo, copertina e titolo viaggiano di pari passo. Quello che tu giustamente definisci ginnasta, inizialmente doveva essere un pugile di fine Ottocento, proprio per rispecchiare al meglio il titolo e il senso del disco. Poi l’immagine ha virato un po’ ed è finita per essere meno didascalica e più immaginifica. Il mio nuovo lavoro propone musicalità e sensazioni un po’ vintage, racconta storie e personaggi di un passato lontano, come la vicenda di Dorando Pietri del 1908, l’avventura nello spazio di Gagarin degli anni ’60, la folle genialità di Antonio Ligabue. Fin dal progetto iniziale del disco, mia intenzione era quella di comunicare questo sapore di tempi andati, figure in bianco e nero che, per un motivo o per un altro, di tanto in tanto tornano prepotentemente nell’immaginario dei nostri giorni.
Per quanto riguarda il titolo, mi piace molto l’idea di impegno che il grido ‘fuori i secondi’ implica. È un invito, quasi un ordine, a che ognuno si prenda le proprie responsabilità e si metta in gioco
in prima persona. Sono stufo di stare a sentire, nell’inutile brusio senza costrutto, di quanto siano ladri questi e quanto imbroglioni gli altri, che tende a fare di ogni erba un fascio, come fossero tutti uguali nel rubare, e che finisce irrimediabilmente nella rassegnata cantilena del “tanto non cambierà mai niente perché è sempre andata così e sempre così andrà”. Bene, a me non va più di sentire queste sterili lamentele diventate oramai un alibi per poter restare immobili, con quel fare gattopardesco che tanto piace ai cittadini di questo Paese.
Ma, del titolo, mi piace soprattutto quel forte richiamo a quegli uomini giunti secondi nella vita, cui la storia ha poi restituito una più giusta collocazione. Penso all’esistenza disperata di Antonio Ligabue o all’emblematica storia di Yuri Gagarin, prima eroe unanimemente osannato, poi superato in fama dai primi passi fatti da Armstrong sulla Luna. Per finire con il ‘secondo’ più famoso della storia sportiva di tutti i tempi: Dorando Pietri. Prova però a chiedere in giro chi ha vinto la maratona nel 1908 a Londra e vedrai cosa ti risponderanno!
Da sempre, prima con i Ramblers e poi nei tuoi dischi da solista, si nota un legame indissolubile con la terra, quella tua Emilia che, sembra di intuire, hai imparato ad amare fin da piccolo dai racconti dei tuoi vecchi, racconti di guerra, di rastrellamenti, di fughe sulle montagne e di Resistenza… I testi, a volte scritti e cantati direttamente in dialetto, e i personaggi che spesso incontriamo nelle tue canzoni (anche in Fuori i secondi, come detto, racconti le storie di alcuni di essi), testimoniano proprio questo attaccamento quasi morboso alle tue radici. E chi tanto ama, può anche permettersi di criticare, come fai tu nel brano Emilia, nel quale vedi la tua terra ridotta a “una vecchia signora disfatta, distesa sul suo capezzale, con gli zigomi al silicone e una storia finita male”. Devo dire che sei in buona compagnia: già nel 1979 lo scrittore Loriano Macchiavelli titolava una delle avventure del suo questurino Sarti Antonio Cos’è accaduto alla signora perbene?, dove la nobildonna decaduta, la ex signora perbene è una Bologna che già all’epoca evidentemente stentava a riconoscere. Lo stesso Guccini, nel suo disco Metropolis del 1981, diceva del capoluogo emiliano: “Bologna è una ricca signora che fu contadina […], Bologna è una strana signora, volgare e matrona, Bologna bambina perbene, Bologna busona”…
Si è vero, a volte mi faccio prendere la mano ed esagero con i riferimenti alla mia terra e ai suoi personaggi. Il fatto è che la sento così tanto mia, che mi è impossibile non vederla come il filtro attraverso il quale osservare le vicende dell’intero pianeta. Voglio dire, ognuno di noi ha un mondo, che sia geografico o di altro tipo poco importa, che sente proprio, che ama e che custodisce gelosamente, un mondo che però non può essere esente dalla critica, dall’individuazione di quei difetti e di quelle storture che col passare del tempo rischiano di diventare i nostri. Alla fin fine, il discorso riguardo al mio microcosmo non vuole essere locale ma globale e generalizzato, ‘Glocal’, come si suol dire oggi: riferirmi al mio piccolo per parlare del mondo a tutto il mondo!
La canzone cui fai riferimento è un vero e proprio grido di sofferenza nel vedere la mia terra irrico scibilmente distrutta e deturpata in nome di un progresso tecnologico sempre meno comprensibile, con interessi economici loschi e connivenze mafiose sempre più chiare e palesi, tutto ciò unicamente in nome del dio denaro e del mero profitto. Mi chiedo quale mondo erediteranno da noi i nostri figli…
Anche in altre canzoni del disco torni a tematiche legate alla tua terra. Questa volta attraverso il racconto delle vite avventurose e disperate di tre tuoi conterranei: il mitico Dorando Pietri diventato la figura di vincitore per antonomasia pur essendo stato squalificato dalla gara più importante e privato della sua medaglia, il folle Antonio Ligabue capace di trasporre su tela gli infiniti mondi germogliati nella sua mente di persona sola e abbandonata, il poeta Augusto Daolio, che troppo presto ha abbandonato la scena…
Certo, i tre personaggi che racconto e canto sono un modo per parlare ancora una volta della mia terra e della sua storia, come ho fatto altre volte in passato con canzoni legate alla Resistenza. Tre personaggi davvero diversi l’uno dall’altro ma allo stesso tempo molto simili. Pensa a cosa sarebbe stato Antonio Ligabue senza la nebbia e la golena del grande fiume nei pressi del quale ha vissuto gran parte della sua esistenza. Un genio che con la sua arte visionaria ha saputo riprendersi un posto nella storia, pur essendo percepito, in vita, come un emarginato, un reietto, un diverso additato da tutti come un pazzo.
Oppure cosa sarebbe diventato Dorando Pietri senza le grandi pianure su cui correre e allenarsi
per andare a vincere la maratona olimpica di Londra. O Augusto Daolio, cantore delle nebbie, dei
portici, della vita emiliana al bar, con le partite a briscola e i lunghi viaggi per raggiungere i luoghi dei concerti con i suoi Nomadi. Simili nelle sconfitte, simili nelle glorie postume. Simili nell’amore che hanno messo nel loro lavoro e nelle loro vite. Perdenti vincenti ai quali la storia ha infine riconosciuto il giusto valore.
Se hai davvero voglia di capire quanto la terra abbia giocato un ruolo determinante nella vita di questi uomini, ti consiglio di fare un piccolo viaggio dall’itinerario affascinante: raggiungi Modena e prendi la strada per Guastalla, che ovviamente si chiama via Guastalla. Troverai Carpi e la sua immensa piazza, i campi in cui Dorando correva; dopo Carpi fai una bella sosta a Novellara, e sotto i portici fatti un bicchiere di frizzantino che dalle mie parti è rigorosamente Làmbrusc! Poi dopo esserti riposato in uno dei bar in piazza, prosegui per Guastalla e Gualtieri in direzione del grande fiume che tutto crea e tutto distrugge. Al termine del viaggio, forse, potrai dire di avere compreso il legame di Antonio, Dorando e Augusto con il loro mondo, e di avere visto la strana fauna che anco ra oggi abita un posto tanto incantevole quanto duro e inospitale.
Di tutt’altro tenore Il gigante, storia autobiografica nella quale descrivi tutte le prelibatezze di cui ami ‘cibarti’. Citi Woody Allen e Pasolini, romanzi neri e gialli, opuscoli proibiti, fumetti, il punk, il jazz, il reggae, il folk e i cori alpini. Al di là della voracità che manifesti nel brano, quali sono le tue letture e soprattutto sei un fruitore di cultura disordinato o sei portato ad apprendere con metodo?
Il gigante rappresenta in toto quello che sono al cento per cento! Autodidatta in tutto e per tutto, autarchico, orso e anche un po’ orco famelico. Sono molto pigro ma anche maledettamente curioso, non ho titoli di studio particolari, mi piace leggere ogni cosa purché mi emozioni, mi piace ascoltare di tutto o quasi, in maniera compulsiva e disordinata. Probabilmente un po’ di metodo non mi farebbe certo male. Ma questo mio modo di essere mi ha permesso di diventare ciò che sono, di non precludermi porte o strade, di assaggiare di tutto e di più, avidamente. C’è però anche un rovescio della medaglia: per assecondare questa mia inesauribile fame ho dovuto comprare migliaia di dischi in vinile, alcuni ascoltati una sola volta o nemmeno, acquistare libri che appena dopo qualche pagina ho abbandonato miseramente su un comodino o su una libreria impolverata. Il risultato è che alla fine ho una casa piena di cose che non so più dove mettere. E la cosa paradossale è che non ho il coraggio di liberarmi di quei libri e quei dischi, perché penso sempre che prima o poi mi verrà voglia di leggerli, di ascoltarli. Con una punta di orgoglio, dico sempre che la mia cultura, poca o grande che sia, me la sono fatta da solo, in maniera autarchica: ho iniziato a leggere una volta finita la scuola, non ho mai studiato musica ma faccio il musicista e suono, non so scrivere – a volte sono un vero e proprio dislessico – ma alla fine compongo canzoni. Credo di essere l’esempio vivente del fatto che ogni uomo ha in sé la possibilità di vedere realizzati i propri sogni!
Nel pezzo La dolce vita, nel descrivere lo squallore dell’oggi richiami le visioni fantasmagoriche e un po’ nostalgiche di Fellini e il puro pessimismo di Bianciardi; in Gagarin, attraverso gli occhi dell’astronauta russo vedi il mondo come è e come dovrebbe essere, senza frontiere e confini, invenzioni umane create per dividere sentimenti ed esistenze; nelle esortazione alla lotta e al cambiamento de I tempi siamo noi, citi Mao e inviti a una riappropriazione delle vite scippate da un potere sempre più subdolo e invisibile. In contrasto con lo spirito attivo, combattivo presente nel resto dei pezzi, mi sembra invece il testo di Credo, nel quale utilizzi immagini simboliche e semplici, universalmente condivisibili. Anche il richiamo all’uomo qualunque (già peraltro citato nel cappello introduttivo al brano I tempi siamo noi) dell’ultima strofa, risulta stridente e forse sarebbe stato meno ambiguo usare il termine ‘uomo comune’. Nell’immediato secondo dopoguerra, il Fronte dell’Uomo Qualunque ha rappresentato quanto di più retrivo e populistico ci potesse essere, da cui il termine ‘qualunquismo’. Se ci pensi, e qui esaspero volutamente il concetto per meglio spiegare la mia tesi, la neutralità del messaggio fa sì che anche il più ottuso
dei leghisti, naturalmente dal suo punto di vista, possa sposare in toto i pensieri contenuti in questa canzone, impossibili da respingere. Insomma, come dice Corrado Guzzanti attraverso il suo supereroe Aniene: “Troppi tuono è come nessun tuoni”.
Io credo che non ci sia nulla di più rivoluzionario, oggi, di un uomo qualunque, inteso come uomo comune, che con le sue semplici capacità autodidatte abbia voglia di riprendere in mano la propria storia e quella del suo Paese. Oggi, nell’Italia dei professori e dei tecnocrati, dove l’avere è stato anteposto all’essere, dove solo l’immagine conta, e i contenuti non hanno alcuna importanza, venire dal basso, essere semplice e avere solamente la forza delle proprie idee è allo stesso tempo devastante e disarmante. Nel loro essere geniali e speciali, non erano forse uomini comuni Ligabue, Augusto, Dorando? E a modo loro non hanno forse tentato di cambiarlo in meglio, questo mondo? Con ciò non voglio dire che l’antipolitica sia una soluzione, ma credo che oramai i partiti così come li conosciamo siano morti e sepolti, completamente inadeguati a guidare un Paese che necessita di grandi cambiamenti. L’uomo qualunque, o comune se preferisci, quindi, inteso come essere normale, con capacità e limiti, che riesca ad andare oltre il qualunquismo e vedere la potenzialità dei cambiamenti, mettendosi in gioco in prima persona senza timore. Per tornare alla tua domanda e al riferimento che fai al leghismo, credo proprio che sia vero il contrario: la lega ha tutt’altro che idee qualunquiste e antipolitiche. Ha dimostrato negli anni di saper bene cosa volere e con quali mezzi ottenerlo.
Poche idee chiare, preistoriche, spesso pleonastiche, e assolutamente antidemocratiche. La forza a Bossi & company, in questi anni, è stata data proprio da quei politici e da quei partiti che hanno continuamente sottovalutato il movimento leghista e hanno bollato come naif quel suo modo spiccatamente populista di ottenere consensi. E loro hanno approfittato egregiamente di questa mancata capacità di comprendere il fenomeno.
Nel 2001 c’è il tuo primo lavoro ‘indipendente’ rispetto alla militanza nei Modena City Ramblers. Con La Casa del vento pubblichi l’ottimo Novecento, un disco davvero ricco che contiene tutte le tematiche a te care (antimilitarismo, antirazzismo, ecologismo, denuncia del revisionismo storico e importanza della memoria), legate da melodie declinate nella tua lingua musicale: l’irlandese. Perché parlare del Novecento, il cosiddetto secolo breve che nel disco inizia simbolicamente con la morte di Giuseppe Verdi, in un momento in cui tutti, anche i partiti del cosiddetto centrosinistra, spingono per lasciarsi alle spalle quello spicchio di storia che nel bene e nel male ha cambiato per sempre il destino dell’umanità?
Riguardo a Novecento e al lavoro fatto insieme alla Casa del vento, in realtà l’intenzione era quella di mettere un punto e cercare di voltare pagina, sia a livello concettuale che musicale. Infatti è arrivato in un periodo di grandi cambiamenti all’interno dei MCR e la mia collaborazione con la Casa del vento doveva servire a prendere tempo e rifiatare, per ragionare su un possibile cambiamento stilistico del mio vecchio gruppo. Quindi Novecento oltre a un doveroso omaggio a Bertolucci, voleva essere appunto un modo per mettere dei paletti su concetti e argomenti a me cari, ma che in seguito avrei considerato parte del mio passato artistico. Con i MCR, il frutto di quei ragionamenti portò dapprima a Radio rebelde, opera di rottura e forse non compresa appieno, e poi a Viva la vida e muera la muerte, disco fortunato che raggiunse addirittura le vette della classifica di vendita in Italia, cosa quasi imbarazzante per un gruppo come il nostro. Quando ho capito che la strada che i Ramblers avevano scelto di imboccare era quella del passato, sentieri già battuti e conosciuti, compresi che la mia presenza all’interno della band era diventata inutile se non dannosa. Citando un grande intellettuale dei nostri tempi, Pasolini, “non tornerò mai dov’ero già, non tornerò mai a prima, mai!”.
Invece riguardo al Novecento inteso come se colo, che dire, forse sarebbe meglio chiedere agli storici. Per quanto mi riguarda, ancora oggi reputo sia stato un secolo incredibile, pieno di contraddizioni ma anche di grandi slanci e di notevole progresso per l’umanità.
Tornando al nuovo disco, nel brano Ninnananna italiana, che se non vado errato è una bonus track presente solo sull’LP, parli di un Paese anestetizzato, talmente abituato alla degenerazione, da non far più caso nemmeno a fenomeni macroscopici come la diffusione di comportamenti mafiosi nel nostro vivere quotidiano e della mafia stessa all’interno di organi istituzionali. Come è stato possibile, secondo te, in un tempo tutto sommato breve, passare dalla voglia di partecipazione diretta e di cambiamento, presente negli ann Settanta, all’attuale narcolessia di un popolo che non capisce altro che tette culi e partite di calcio che la tv gli propina a tambur battente, e che comunque non riesce a vedere oltre il suo piccolo, limitato orticello?
Ninnananna italiana è nata per lo spettacolo di Giulio Cavalli dal titolo L’innocenza di Giulio (1), monologo teatrale sul processo Andreotti, che narra delle amicizie mafiose del politico democristiano così come sono state raccontate dalla stampa italiana. Giulio Cavalli, attore che vive sotto scorta perché minacciato dalla mafia, un giorno mi chiese di scrivere alcune canzoni per lo spettacolo e di poterne usarne altre del mio passato, per intervallare parti del suoi monologhi. Per questo ho scritto un paio di pezzi nuovi e riarrangiato alcuni miei vecchi cavalli di battaglia. Quando posso vado sul palco insieme a Giulio a eseguirli dal vivo, voce e chitarra oppure con il tamburo.
Tornando alla domanda, la canzone non fa altro che leggere, secondo la mia opinione, il modo in cui il Paese oramai si è adagiato su certe questioni e non reputi più importante nemmeno capire se un politico che ha governato l’Italia per mezzo secolo, come Giulio Andreotti ha fatto, sia colluso con la mafia oppure no. Io credo che le ragioni siano ben chiare, la strategia della mafia dopo il periodo stragista dei primi anni Novanta è stata quella di infiltrarsi nelle istituzioni e lavorare in silenzio senza troppo clamore per non disturbare il cittadino comune, lasciandogli credere che la mafia è un problema di altri e non suo. Oggi ci siamo svegliati tutti con uno strano sapore amaro in bocca, scoprendo che la mafia è sotto casa, nel nostro giardino. Ha occupato le nostre città, le istituzioni, i consigli comunali e le aziende che ottengono gli appalti. Ci hanno fatto credere per anni che la mafia non esisteva, che tutt’al più era un problema dei siciliani, e oggi ci troviamo di fronte una realtà ben diversa!
Per concludere, visto che siamo ospiti di una rivista letteraria, parliamo un po’ di letteratura. Qua è il libro che ha cambiato la tua vita, e che ha influenzato il tuo lavoro di musicista, ovviamente nelle tematiche? E qual è (questa è una domanda che immancabilmente pongo a tutti i musicisti che intervisto) il romanzo che metteresti in musica se un giorno decidessi di lavorare a un concept album?
I libri che mi hanno cambiato la vita sono tanti, ognuno legato a un diverso periodo della mia vita. Potrei citarti Fiesta di Hemingway, oppure La fattoria degli animali e 1984 di Orwell. Ma anche L’insostenibile leggerezza dell’essere di Kundera o Il giovane Holden di Salinger. Venendo a cose più recenti ricordo che mi colpì moltissimo la prima produzione di Sepulveda, da Il vecchio che leggeva romanzi d’amore a La frontiera scomparsa, fino a Patagonia Express, vero e proprio inno al viaggio. Adoro scrittori anglosassoni come Nick Hornby e gli irlandesi Joseph O’Connor e Roddy Doyle. Tra gli italiani amo in generale la produzione di Pino Cacucci e Bruno Arpaia. Adoro Erri De Luca e il suo modo di scrivere, nonché l’amico Paolo Nori, che trovo geniale e unico. Ho divorato Benni e Pennac, letto disordinatamente e amato Pasolini e Pier Vittorio Tondelli. Ma non vorrei dimenticare il mio primo grande amore per il fumetto e i suoi autori. Come Alan Moore, Frank Miller, Garth Ennis e gli italiani Magnus, Bonvi, Pratt e Paz, solo per citarne alcuni.
Per quanto riguarda l’idea per un concept album, in parte l’ho già realizzata al tempo dei Modena City Ramblers. Il terzo disco, Terra e libertà, prendeva spunto a piene mani da Cent’anni di solitudine e da tutta quella letteratura latinoamericana che ci aveva letteralmente rapito. Oggi come oggi mi piacerebbe scrivere un disco solo in dialetto, magari la storia di persone della mia terra che raccontano la loro vita. Una sorta di Spoon River emiliana, sulla falsa riga delle Vite sbobinate di Alfredo Gianolio.
(1) Cfr. Il teatro partigiano, la politica e la lotta alla mafia. Intervista a Giulio Cavalli, di Daniela Bettera e Lara Peviani