La nobilitazione ‘scientifica’ dell’egemonia economica americana
Il 10 dicembre 1896 moriva Alfred Nobel. Donò al mondo la formula chimica della dinamite – che tra brevetti e stabilimenti di produzione gli fruttò l’accumulazione di un’enorme ricchezza – e l’istituzione del premio Nobel. Nel testamento dispose che il proprio patrimonio, debitamente investito, confluisse in un fondo, i cui interessi dovevano essere destinati a coloro i quali più avessero “contribuito al benessere dell’umanità” nei campi della fisica, della chimica, della fisiologia o della medicina, della letteratura e “della fraternità tra le nazioni, per l’abolizione o la riduzione degli eserciti permanenti e per la formazione e l’incremento di congressi per la pace”.
Certo fa perlomeno sorridere che l’inventore della dinamite si sia preoccupato della pace tra le nazioni ma la scienza, si sa, rivendica per sé un’ipocrita deontologia neutrale: sono gli uomini, che ne fanno cattivo uso.
La scienza genera anche ricchezza, come è accaduto nel caso di Nobel stesso; il sistema produttivo si appropria di una scoperta e la mette a frutto ricavandone, oltre che un supposto benessere per l’umanità, lauti guadagni.
Non a caso dunque, tre riconoscimenti su cinque rientrano nel campo scientifico, e a essere premiati sono sempre quegli studi che proficuamente sanno inserirsi nella produzione capitalistica.
Nobel non contemplò l’istituzione di alcun premio per l’economia non considerandola, si dice, una scienza ma una professione, le cui teorie non sono affatto verificabili né suffragate da prove incontrovertibili. Nel 1968 la Banca di Svezia istituisce, con propri fondi, il ‘Premio per le scienze economiche in memoria di Alfred Nobel’, che viene assegnato per la prima volta l’anno successivo; da allora è conosciuto come il ‘premio Nobel per l’economia’ ed è consegnato insieme agli altri riconoscimenti. L’economia assurge dunque a scienza, diviene anch’essa neutrale e portatrice di verità univoche.
Nel 1997, il Nobel va a Robert Merton e Myron Scholes, per aver inventato “un nuovo metodo per determinare il valore degli strumenti derivati”. Si legge nella motivazione che “gli strumenti dei derivati rispondono a un fine altamente utile nella società, permettendo di ridistribuire il rischio tra coloro che sono disposti ad accollarselo. […] Fino alla fine degli anni Sessanta non esisteva un metodo pienamente soddisfacente che permettesse di valutare e stabilire il prezzo delle opzioni”; la formula di Merton e Scholes “è stata applicata ai nuovi contratti negoziati a Chicago, ed è ora usata quotidianamente da migliaia di operatori sui mercati di tutto il mondo”; la loro “intuizione si rivelò essere la chiave per un generale e potente metodo di determinazione del valore di tutti i tipi di opzione e di altri contratti derivati. In combinazione con l’avanzamento della tecnologia informatica, a questo metodo si deve la crescita esplosiva dei nuovi prodotti finanziari avvenuta negli ultimi 10-15 anni”.
Menti geniali, quindi, Merton e Scholes, ai quali l’economia finanziaria, e il mercato dei derivati soprattutto, devono molto.
Il 23 settembre 1998 il presidente della Fed di New York, William McDonough, chiama a raccolta con urgenza quattordici banche di rilevanza mondiale, americane ed europee: occorre stringersi e fare blocco comune per salvare uno tra i principali fondi speculativi – i famigerati hedge fund – sull’orlo del fallimento: il Long Term Capital Management (LTCM). Tra i soci del fondo figurano Merton e Scholes.
Non solo. È sul metodo da loro inventato che si basava LTCM per la gestione dei prodotti derivati, quella stessa formula che era loro valsa il premio Nobel poco meno di un anno prima. Il capitale di 4,8 miliardi di dollari, dovuto ai depositi degli investitori, era stato usato come garanzia collaterale per l’acquisto di titoli per 125 miliardi di dollari, i quali titoli, a loro volta, erano garanzia collaterale di prodotti derivati per un totale di 1.250 miliardi di dollari. Nulla di illegale in simili operazioni, sia chiaro; semplice economia finanziaria basata sul rischio. Tuttavia, qualcosa nel metodo da premio Nobel deve non aver funzionato anche se, finché è durato, è stato un Eldorado: i rendimenti elargiti dall’hedge fund ai propri investitori, al netto di un 2% per spese di gestione e di un 25% trattenuto dal fondo stesso a titolo di profitto, erano stati del 42,8% nel 1995, del 40,8% nel 1996 e appena il 17,1% nel 1997, a causa della crisi asiatica che aveva fatto crollare i mercati. L’investimento minimo per entrare in LTCM era di 10 milioni di dollari vincolati per tre anni. Investimenti per tutte le tasche, insomma.
In poche ore le quattordici banche convocate dalla Fed misero a disposizione 3,5 miliardi di dollari per salvare il fondo. Tutto fuorché il fallimento, dato che le banche stesse, e persino qualche dirigente a titolo personale, erano a loro volta investitori della LTCM. McDonough dichiarò che l’operazione di salvataggio era inevitabile e giustificata, perché «una chiusura improvvisa e disordinata delle posizioni della LTCM avrebbe comportato rischi inaccettabili per l’economia americana». E non aveva torto; oggi è chiaro a tutti, grazie alla vicenda dei mutui subprime, come nei mercati finanziari un battito d’ali a New York si trasformi in un tifone nel resto del mondo. Il 26 settembre 1998, tre giorni dopo, il portavoce del fondo speculativo dichiarava al Washington Post: «Oggi siamo tutti molto contenti. Sul lungo periodo siamo in grande forma finanziaria».
Non risulta alcuna imbarazzata dichiarazione successiva all’accaduto da parte dell’Accademia reale svedese delle Scienze, preposta a designare, insieme agli altri Nobel scientifici, quello per l’economia; evidentemente anche la commissione crede che la scienza economica sia da valutare sul lungo periodo, anche quando miseramente fallisce nel breve.
D’altra parte, nemmeno oggi si registrano atti di contrizione o vergogna per i Nobel riconosciuti a Friedrich von Hayek nel 1974 e a Milton Friedman nel 1976, padri di quel neoliberismo che ha portato oggi l’economia, finanziaria e reale, a un crollo strutturale; e in questo caso, siamo ampiamente di fronte a una gestione di lungo periodo. Tuttavia non si può affermare che l’Accademia delle Scienze sia stata immobile ad attendere che lo tsunami economico – con il proprio portato scientifico e ideologico – la travolgesse. L’ha saputo piuttosto cavalcare con maestria, uscendone indenne e, ancora, sulla cresta dell’onda: nel 2008 il premio è stato assegnato a Paul Krugman, economista definito neokeynesiano.
Un cambio di rotta operato con una disinvoltura tale da far invidia allo stesso trasformismo politico che l’ha messo in pratica sul campo. Perché delle due, l’una. O, scientificamente, visto che di scienza si pretende di parlare, la teoria economica che traghetta la società umana verso il benessere collettivo è il liberismo, che sostiene l’indefettibilità di un libero mercato capace di regolarsi grazie alla presenza di una fantomatica mano invisibile, oppure è il keynesismo, che promuove l’intervento dello Stato nell’economia.
I media progressisti hanno salutato con soddisfazione il Nobel a Krugman, intravedendovi un’implicita autocritica, da parte dell’Accademia di Stoccolma, alle scelte fatte in passato; nulla di più sbagliato, tuttavia non una sorpresa. Una simile presa di posizione avalla infatti l’etica ufficiale del premio Nobel, che lo vuole assegnato su presupposti scientifici e neutrali e non politici, isolandolo totalmente dal contesto nel quale oggi, come ieri, è maturato. L’economia finanziaria della totale deregolamentazione, iniziata con Reagan e le teorie monetaristiche di Friedman, ha mostrato le prime crepe nell’estate del 2007 con il crollo dei titoli subprime; crepe strutturali, e non cicliche, come quelle evidenziate nelle precedenti crisi degli ultimi quarant’anni. Ben altro e altri crolli sono seguiti a distanza sempre più ravvicinata, fino a costringere i governi europei, e quello statunitense in primis, a dover sostenere il capitale finanziario. Nell’ottobre dello scorso anno, pochi giorni dopo la decisione dell’amministrazione Bush di immettere 700 miliardi di dollari nel tanto decantato libero mercato, è stata resa nota l’assegnazione del Nobel per l’economia all’americano Krugman.
Nessuna capacità di preveggenza, tanto meno analisi scientifica; solo una banale, quanto perfetta, sincronia temporale. Il processo di nomina inizia infatti un anno prima della consegna del riconoscimento. Eppure c’è chi sostiene, e lo fa dalle pagine gentilmente concesse da la Repubblica (13 ottobre 2008): «Non credo che l’Accademia delle Scienze faccia scelte di campo». È Francesco Daveri, professore ordinario di Politica Economica presso la facoltà di Economia dell’università di Parma e redattore del sito economico lavoce.info.
Eppure anche qui varrebbe una semplice analisi sul lungo periodo: dei 62 premi Nobel per l’economia fino a oggi riconosciuti, 43 sono andati a economisti americani. Occorrerebbe riflettere prima di sostenere una presunta neutralità politica, quando non solo la Storia degli ultimi cinquant’anni ma una ben più estesa nel tempo dimostra il consecutivo alternarsi di egemonie culturali economiche – e non di teorie scientifiche! – legate a differenti fulcri dominanti: la Spagna nel XVI secolo, l’Olanda nel successivo, la Gran Bretagna dal 1700 fino alla fine del 1800, con il suo impero coloniale, e infine gli Stati Uniti, che già negli anni Venti del secolo scorso rappresentavano il 40% della produzione industriale globale e con gli accordi di Bretton Woods impongono il dollaro come valuta di riferimento. È la stessa Storia a narrarci l’ascesa e il declino di successivi e diversi ‘imperi’ o, se vogliamo utilizzare un termine più moderno, che non ne modifica tuttavia il significato, di diverse ‘economie-mondo’: una ‘metropoli’ dominante attorno alla quale ruota una periferia economica da essa dipendente.
L’istituzione del Nobel per l’economia nel 1968 risponde, molto semplicemente e altrettanto banalmente, alla necessità di legittimare l’impero del XX secolo, e proprio per dissimularne il portato ideologico si è rivestito il riconoscimento con l’abito scientifico.
Si era nel pieno della guerra fredda. Tuttavia, in ballo non c’era il conflitto tra capitalismo e comunismo: per quanto di Stato, la stessa struttura economica dell’Urss era capitalistica e soprattutto, la separazione Est-Ovest era netta e non vi era alcuna necessità, in Occidente, di un premio che nobilitasse culturalmente un’economia già egemone. Il passaggio epocale che il Nobel doveva avallare era quello al neoliberismo.
Il ’68 aveva visto le lotte studentesche, il ’69 quelle operaie; il Pil statunitense, in rapporto al dato mondiale, era sceso dall’apice del 27,73% toccato nel 1951, al 22,38% del 1970; la bilancia dei pagamenti (importazioni/esportazioni), da positiva che era sempre stata nel dopoguerra – a eccezione di alcuni singoli anni – era entrata nella curva negativa. Contemporaneamente, Germania e Giappone registravano tassi di crescita superiori agli Stati Uniti, divenendo pericolosi competitori per l’economia americana industriale; nel maggio del 1971, il marco tedesco era già stato rivalutato ben due volte rispetto al dollaro.
Gli Usa risposero iniziando a stampare una quantità sempre maggiore di moneta. La Federal reserve venne letteralmente sommersa dalle richieste di conversione di dollari in oro finché il 10 agosto 1971 Nixon dichiarò, unilateralmente, la fine della convertibilità della moneta americana. È in tale contesto che s’inserisce la crisi petrolifera del 1973, mutando ogni equilibrio raggiunto fino a quel momento dal sistema capitalistico. La risposta fu immediata e prevedibile: se, infatti, la mediazione è tipica dei periodi di crescita economica, la repressione è peculiare delle fasi di crisi. Durante gli anni Cinquanta e Sessanta gli alti profitti avevano permesso al capitale di concedere diritti e aumenti di salari alla classe lavoratrice così ottenendo, contemporaneamente, la pacificazione della società e la nascita di quel sistema consumistico necessario come bacino di assorbimento delle merci prodotte; gli anni Settanta videro l’attacco al mondo del lavoro. Allo stesso tempo prese avvio la messa in discussione dell’intervento statale nell’economia dato che la leva pubblica, oltre a non aver reso immune l’intero sistema da un’ennesima crisi, sembrava avere esaurito la propria spinta propulsiva e il capitale privato, in piena flessione di profitti, necessitava ora di espandersi anche nei settori fino a quel momento rimasti sotto il controllo pubblico.
Presero piede le teorie neoliberiste di Friedman, più mercato meno Stato, quest’ultimo relegato a gestire solo la politica monetaria; l’America di Reagan abbracciò la nuova fede e diede la stura al processo delle privatizzazioni, trascinandosi dietro – che economia mondo sarebbe stata, altrimenti? – l’intero sistema capitalistico occidentale, l’Inghilterra della Thatcher per prima.
Come gli abitanti di Hamelin assediati dai topi, nella fiaba Il pifferaio magico dei fratelli Grimm, il capitale, messo alle corde, impone alla politica di mutare corso: deve uscire dall’economia e favorire lo sfruttamento dei lavoratori; deve cambiare musica, e fare in modo che gli stessi cittadini fischiettino convinti il nuovo motivetto. Che cosa di meglio di un pifferaio, allora? Friedman – conosciuto nell’ambiente economico e politico fin dalla fine degli anni Cinquanta – e la scuola di Chicago incantano l’opinione pubblica, il neoliberismo diventa pensiero dominante e l’Accademia di Stoccolma collabora con la coccarda del Nobel. Il capitale osserva con soddisfazione coloro che ritiene essere la causa dei propri mali – i lavoratori e i lacciuoli dello Stato – annegare nel fiume.
Da allora, e dunque fin dalla sua nascita, il premio Nobel ha fedelmente servito le politiche economiche messe in atto dall’impero americano, provvedendo a nobilitare ogni scelta neoliberista ivi compresa la deregolamentazione dei mercati finanziari, avviata da Reagan nel 1981. Tanto valeva premiare l’inventore del Gioco dell’aeroplano, dato che questo sono, a conti fatti, i prodotti derivati, nati dalla continua necessità del capitale di valorizzarsi e dunque di spostarsi dall’economia produttiva, ormai parca nell’elargire utili, all’economia finanziaria. Un processo che non è affatto una deformazione del capitalismo ma la sua naturale evoluzione, della quale oggi iniziamo appena a intravedere la portata distruttiva. Mettendo insieme i dati del Fondo monetario internazionale, della Banca mondiale, dell’Organizzazione mondiale della Sanità, della Conferenza delle Nazioni unite per il commercio e lo sviluppo e del World federation of exchanges, si ottiene la seguente situazione, riferita all’anno 2007: sono poco più di 5.500 i miliardi di dollari movimentati, ogni giorno (!), dall’economia mondiale. Di questi, meno di 50 sono generati dal commercio; poco più di 100 dal Pil; altrettanti dai mercati borsistici; quasi 1.600 dal mercato dei cambi; i rimanenti, 3.650 miliardi di dollari, sono il risultato – fittizio e aleatorio, e abbiamo visto in quale misura – degli scambi di contratti derivati. Di denaro che, a dispetto di ogni empirica regola economica conosciuta, per quanto non scientifica, dovrebbe produrre denaro.
Ora non resta che domandarsi quali scelte economiche avallerà in futuro il premio Nobel, dopo il contingente e necessario riconoscimento a Krugman; davanti a quale nuova musica e spartito si prostrerà con il solito elegante inchino. Qualcosa dovrà mutare, dato che nel fiume è annegato anche qualche bambino – la Lehman Brothers, per esempio. Certo, poco male. Ogni crisi strutturale che si rispetti deve generare nuovi e più potenti monopoli, perché il capitalismo possa rinascere più forte di prima.
Non è pensabile, a breve, la nascita di un nuovo impero, non fino a quando il dollaro, a dispetto dell’enorme debito pubblico statunitense, rimarrà moneta di riferimento mondiale.
Da escludere anche riconoscimenti ai pifferai della teoria della decrescita sostenibile la quale, per quanto rispettosa della struttura produttiva del capitalismo, poco si concilia con la rincorsa al profitto e con il conseguente consumismo.
Forse qualcosa può suggerire l’assegnazione del Nobel per la pace del 2007, con il quale sono stati omaggiati Al Gore e il Comitato intergovernativo per i mutamenti climatici dell’Onu. Non sarebbe la prima volta che il premio per la pace anticipa l’avvento di un nuova rivoluzione economica pur restando, ovviamente, all’interno del sistema capitalistico; anzi, proprio con lo scopo di salvaguardarlo e rilanciarlo dopo una crisi. Prima del Nobel per l’economia a Friedman, nel 1976, c’è stato quello per la pace a Henry Kissinger, nel 1973, ed è ormai comprovato quanto il segretario di Stato statunitense sia stato la colonna politica portante dell’esportazione del neoliberismo nell’Americana latina, continente ‘cavia’ del nuovo sistema economico grazie alle violente e repressive dittature imposte, foraggiate e militarmente sostenute dagli Stati Uniti.
Lo scorso dicembre, il neo presidente americano Obama ha reso pubblico il piano per affrontare la crisi economica: accanto alle classiche infrastrutture stradali, prevede un «massiccio sforzo per rendere gli edifici pubblici più efficienti dal punto di vista energetico», la sostituzione dei «vecchi impianti di riscaldamento e l’installazione di lampadine a basso consumo negli edifici federali». Pochi giorni dopo, ha incontrato a Chicago proprio il premio Nobel Al Gore, dichiarando successivamente alla stampa che il problema del mutamento del clima «è urgente» ed è «una questione di sicurezza nazionale». Contemporaneamente, i colossi dell’automobile – Ford, General Motor e Chrysler – richiedono sovvenzioni pubbliche presentando piani di ristrutturazione che prevedono l’avvio di una nuova produzione ‘ecologica’, auto ibride ed elettriche che rispondano a criteri di efficienza energetica.
Una via, quella ‘rispettosa dell’ambiente’, sulla quale si sta muovendo anche l’Unione europea, con il Pacchetto clima 20-20-20 sulle energie rinnovabili, che dovrebbe integrare il (fallimentare) protocollo di Kyoto, nato nel 1997 ma entrato in vigore solo nel 2005, dopo la firma da parte della Russia, e già in scadenza quest’anno. Clinton l’aveva sottoscritto nel 1997, Bush aveva ritirato l’adesione nel 2001. D’altra parte, tra i principali finanziatori del presidente repubblicano vi era la lobby petrolifera; ora sappiamo quale gruppo economico sostiene Barack Obama.
Sappiamo anche quale sistema economico ci aspetta: un capitalismo industriale altrettanto feroce e violento ma nobilitato dalla ‘preoccupazione dell’ambiente’, e uno finanziario nel quale le bolle ‘ecologiche’ non faranno rimpiangere quella immobiliare e della new economy.
Sappiamo infine quale nuova figura di scienziato idealizzeranno i prossimi Nobel per l’economia: l’economista che tiene nel cuore, accanto al profitto, la salvaguardia dell’ambiente. Per la salvaguardia dell’umanità, ancora ci sarà da attendere.