La bocciatura delle banche italiane, i quotidiani schierati a difesa e il circolo vizioso del ‘sistema Paese’
Il 26 ottobre scorso sono stati resi noti i risultati della ‘valutazione approfondita’, composta da un esame della qualità dell’attivo patrimoniale (Aqr, Asset quality review) (1) e da uno stress test (con doppio scenario, di base e avverso) (2), effettuata dalla Banca centrale europea sui bilanci dei maggiori istituti di credito dell’Eurozona (dati al 31 dicembre 2013). Undici banche, di cui due italiane (Cassa di Risparmio di Genova e Montepaschi), non hanno superato l’esame. In realtà sarebbero state venticinque, di cui nove italiane, per una carenza di capitale complessiva di 25 miliardi di euro, ma nel corso del 2014 alcune di loro sono corse ai ripari, ripianando la situazione, fra cui sette italiane (Veneto Banca, Banco Popolare, Credito Valtellinese, Popolare di Sondrio, Popolare dell’Emilia Romagna, Popolare di Milano e Popolare di Vicenza, le ultime due sul filo di lana), con iniezioni di capitale per complessivi 15 miliardi. Le altre sono rimaste al palo, e la Bce ne ha assunto la vigilanza a partire dal 4 novembre.
Come risultato, Montepaschi dovrà raccogliere nei prossimi nove mesi 2,11 miliardi di euro, e Carige 810 milioni. “Questa revisione senza precedenti delle posizioni delle banche più grandi – ha detto il vicepresidente della Bce, Vitor Constancio, nel presentare i risultati alla stampa – aumenterà la fiducia del pubblico nel settore bancario. Identificando problemi e rischi, contribuirà a riparare i bilanci e rendere le banche più robuste. Ciò dovrebbe facilitare più credito in Europa, il che aiuterà la crescita economica” (3). La mancanza di credito, soprattutto alle imprese piccole e medie del sud Europa, viene infatti considerata una delle cause principali della stagnazione.
A casa nostra la bocciatura non è stata affatto presa bene, nonostante i problemi di Montepaschi e Carige fossero noti da tempo. E diversi commentatori sono corsi a ripetere ai microfoni il refrain secondo il quale altri in Europa stanno peggio. Secondo alcuni di loro tra il 2007 e il 2013 il sistema finanziario italiano e quello francese sono stati i migliori d’Europa perché, sulla base degli aiuti pubblici di cui hanno beneficiato, hanno reso ai rispettivi Stati più denaro di quello che hanno ricevuto. Le banche tedesche, invece, sono state le peggiori. “È importante chiarire a quanto ammontava, ancora a fine 2013, il sostegno complessivo che ciascuno Stato europeo ha concesso ai rispettivi sistemi bancari, sempre con il beneplacito della Commissione europea. Gli aiuti pubblici ricevuti dalle banche hanno migliorato oggettivamente gli stress test: le carenze di capitale emerse sarebbero infatti ulteriori rispetto ai rafforzamenti di capitale già ottenuti dagli Stati, da rimborsare secondo gli accordi stipulati. Il fatto invece che in taluni casi gli aiuti alle banche sono stati resi possibili solo grazie ai fondi forniti agli Stati dall’Esm o dal Fmi non influisce sul sistema di calcolo usato da Eurostat, visto che sono sempre gli Stati a essere direttamente responsabili della restituzione dei fondi alle istituzioni internazionali” (4).
Tradotta dal gergo criptico dell’economista, questa frase vuol semplicemente dire che gli Stati, come la Germania, che si sono indebitati con istituzioni sovranazionali al fine di investire nel sistema bancario nazionale, hanno alterato le regole della concorrenza del settore, e di conseguenza la promozione che le banche tedesche hanno ottenuto dalla Bce sarebbe il frutto di una specie di ‘imbroglio’ ai danni di quelle che non hanno beneficiato di aiuti pubblici. Così almeno la pensa Guido Salerno Aletta, una delle penne di punta del gruppo Class Editore: “Lo Stato italiano, nel periodo 2007-2013, ha incassato dalle banche complessivamente ben 1,36 miliardi di euro netti, a fronte degli aiuti concessi con i Tremonti-bond, i Monti-bond e soprattutto con la garanzia sovrana prevista nel decreto Salva-Italia sulle emissioni bancarie […] le esposizioni dirette (liabilities) dello Stato italiano verso il sistema bancario, che hanno impatto sul debito pubblico, ammontavano a fine 2013 ad appena 4 miliardi di euro, una inezia”.
Il sistema bancario italiano non ha avuto quindi necessità di aiuti pubblici dopo la crisi finanziaria del 2008, e anzi nel 2012 è intervenuto a sostegno del debito pubblico. Se poi, successivamente, ha visto aumentare le sofferenze, è per colpa della crisi economica causata, secondo Salerno Aletta, solo “dall’errata valutazione dell’impatto delle misure fiscali adottate per raggiungere l’equilibrio strutturale del bilancio pubblico”, cioè dalle misure fiscali depressive che sono state adottate per fare cassa e rientrare entro i parametri di Maastricht. “A fine 2013, l’esposizione dello Stato tedesco in termini di liabilities è stata di 217,9 miliardi di euro, su un complesso a carico degli Stati dell’Eurozona pari a 343,4 miliardi di euro. C’è una enorme sproporzione: mentre il Pil della Germania è pari al 28,1% di quello dell’Eurozona, l’ammontare delle esposizioni dello Stato tedesco verso il suo sistema bancario è pari al 63% di quello totale. Non si scappa, delle due l’una: o sono le banche tedesche a essere poco affidabili, oppure è lo Stato tedesco a essere troppo generoso”.
E ancora: “Quello della Germana è un vero e proprio sistema, un’architettura che usa il sistema bancario e le sue perdite per rendere più competitiva l’industria sul piano del commercio internazionale: un dumping che danneggia comparativamente gli altri competitor. […] Le banche tedesche sussidiano l’industria erogando prestiti con tassi di interesse irrisori, se non in perdita, bilanciati da investimenti esteri a tassi elevati e quindi molto rischiosi. Quando le banche tedesche accusano perdite, il costo viene accollato al bilancio pubblico”.
A Salerno Aletta fanno eco Fabio Pavesi e Carlo Bastasin su Il Sole 24 ore del 26 ottobre: “Le banche tedesche non solo godono di un’economia tra le più salde, ma sono di fatto le meno esposte. È infatti il credito l’attività considerata più a rischio per una banca. Le attività finanziarie, comprare e vendere azioni, bond e commodity sono considerate meno pericolose, tanto più se gli asset finanziari, come è accaduto in questi ultimi anni salgono a dismisura. Quel capitale, calcolato dalle autorità per stabilire la solidità patrimoniale, non è parametrato all’intero bilancio ma alle sole attività a rischio, i cosiddetti Rwa. E qui il sistema tedesco ha tutti i vantaggi dalla sua parte. Gli Rwa, le attività ponderate per il rischio, sono infatti relativamente più basse delle altre banche commerciali, in particolare quelle del sud Europa. Le banche germaniche cioè fanno, in proporzione, meno credito e più trading finanziario”. E concludono: “Di fatto ciò che rende più solide le banche germaniche è la loro bassa esposizione al credito, non certo l’abbondanza di capitale che anzi è tenuto ai livelli minimi indispensabili. Quel che lascia perplessi è che le attività di trading finanziario siano di fatto considerate meno pericolose. Finché i mercati salgono nessun problema per i bilanci di banche come le tedesche imbottite di Bund, azioni, titoli strutturati” (5).
Ma non è stato solo il quotidiano di Confindustria a concedere scusanti ai nostri istituti di credito: tutti i principali giornali si sono schierati compatti pro banche. Nel suo articolo L’irritazione di Bankitalia: calcoli su scenari improbabili, Stefania Tamburello sul Corsera del 27 ottobre cita Fabio Panetta, vicedirettore generale di Bankitalia e rappresentante italiano nel meccanismo di vigilanza della Bce, che alla conferenza stampa tenutasi a Palazzo Koch dopo la pubblicazione dei risultati ha definito “estremo, quasi apocalittico” lo scenario economico dello stress test, che disegnerebbe “un Paese al collasso e con zero possibilità di realizzarsi”, dal momento che prevede cinque anni di recessione, il crollo del Pil come in tempo di guerra, il forte rialzo dei tassi a medio e lungo termine e il riacutizzarsi delle tensioni sul debito sovrano (ma sarà poi così improbabile, questo scenario?). “«Per le banche italiane si ipotizzavano perdite di circa 3 miliardi e mezzo sui titoli pubblici in portafoglio, mentre nella realtà si sono registrate plusvalenze» dice ancora Panetta.
Uno scenario dunque troppo severo, deciso a Francoforte collegialmente dopo un’ampia discussione che risente sicuramente della situazione di bassa crescita dell’Italia. «Fosse stata una corsa di cavalli sarebbe stato come partire con l’handicap» rileva il direttore generale della Banca d’Italia Salvatore Rossi”.
Repubblica ha scelto invece di intervistare il presidente dell’Abi Antonio Patuelli (6), che afferma: “L’esito dei test delle banche è soddisfacente per noi: c’è grande prevalenza di risultati positivi, e i rilievi emersi sono stati in gran parte già risolti. La prova di revisione degli attivi è andata bene per tutti, ed è quella che si basa su dati reali, esistenti. Purtroppo è andato meno bene lo stress test, esercizio teorico fatto con assunzioni catastrofiche, ma che richiede rafforzamenti concreti”, ma “paghiamo la debolezza del Paese”. Inoltre, “il debito pubblico italiano non ha favorito le banche. Aggiungo che l’Italia è storicamente Paese con imprese gracili e sottocapitalizzate. E che gli aiuti pubblici alle banche durante la crisi, sono stati erogati generosamente altrove, come i 40 miliardi della Germania o i 45 della Spagna, ma non da noi. Altra forma di non aiuto, la tassazione di settore, da anni superiore a tutti i Paesi europei. Non parliamo della bad bank, concetto che in italiano non ha neanche traduzione: gli alleggerimenti di sofferenze qui avvengono tutti con operazioni di mercato, non con fondi pubblici come in Spagna, dove hanno risanato le banche anche grazie ai contribuenti italiani”.
In sostanza, le critiche che economisti, analisti e banchieri nostrani fanno alla valutazione della Bce (e che non riguardano tanto la bocciatura degli istituti di credito italiani, quanto la promozione degli altri, soprattutto quelli tedeschi), poggiano su tre capisaldi: il sostegno finanziario che quasi tutte le nazioni, ma non la nostra (apparentemente in nome della libertà di mercato), hanno riconosciuto alle banche in periodo di crisi; le ‘apocalittiche’ ipotesi di base assunte dalla commissione per gli stress test; e la vocazione all’investimento invece che al credito che caratterizza le banche tedesche.
Partiamo dalla fine (e i lettori ci scuseranno per il necessario abuso di termini tecnici, che cercheremo di spiegare): la vocazione agli investimenti è stata chiamata in causa soprattutto per quanto riguarda le cosiddette Landesbanken, un gruppo di istituti di credito a proprietà regionale (dei lander, gli Stati federati in cui è suddivisa la Germania) unico nel suo genere, su cui si erano concentrate le preoccupazioni degli analisti (anche internazionali) prima degli esami della Bce, e che abbastanza a sorpresa, almeno per alcuni, sono stati invece promossi in blocco. Le Landesbanken, responsabili istituzionali delle attività delle Sparkassen (le banche di risparmio a base locale e regionale), hanno come business principale il wholesale banking, sono cioè ‘banche all’ingrosso’.
Questo significa che il loro core business consiste nell’offrire servizi finanziari di alto livello non alle famiglie e alle piccole imprese (che beneficiano invece, come accade da noi, del credito delle banche di risparmio), ma ad altri intermediari finanziari operanti nel credito al consumo, nel settore dei mutui o dei prestiti personali, ai grandi clienti corporate, alle imprese di medio-grandi dimensioni, alle società che costruiscono e investono in immobili, agli investitori internazionali, a clienti istituzionali (per esempio i fondi pensione, gli enti locali o le agenzie governative), e ovviamente alle altre banche e istituzioni finanziarie.
Le Landesbanken sono impegnate in attività quali l’emissione e la sottoscrizione di azioni e obbligazioni, la quotazione in borsa, il market making (7), che assicura la negoziazione anche ai titoli poco trattati, la consulenza finanziaria, le operazioni di M&A (fusioni e acquisizioni) e il fund management, cioè l’attività di trading su portafogli in titoli di grandi dimensioni per conto di operatori terzi. Nessuno stupore quindi che siano “imbottite di Bund, azioni, titoli strutturati”, è la loro attività tipica, e i giornalisti del Sole 24 ore dovrebbero saperlo, come dovrebbero sapere che c’è una ragione se questi “Bund, azioni, titoli strutturati” vengono considerati meno rischiosi dei prestiti alle famiglie e alle imprese, non solo in presenza di un’economia solida come quella tedesca, ma soprattutto nelle fasi recessive: a differenza delle sofferenze bancarie (cioè dei crediti che divengono inesigibili, in tutto o in parte, perché i clienti non riescono più a rimborsare i prestiti), le azioni, le obbligazioni e i derivati possono essere velocemente venduti sul mercato, quindi hanno necessariamente un profilo di rischio più basso (ovviamente, quanto più basso dipende dalla qualità del singolo titolo).
Non ce ne vogliano Salerno Aletta, Pavesi e Bastasin, ma le Landesbanken, ben lungi dall’essere un problema per la solidità del sistema bancario, sono invece uno dei fattori critici di successo dell’economia tedesca. Anche a noi un po’ di wholesale banking farebbe comodo. Le imprese italiane, che si finanziano quasi esclusivamente con il credito, durante questi anni di crisi hanno sofferto ben più dei loro concorrenti d’oltralpe, come spiega bene Gianluca Antonecchia (8): “Dall’inizio del secolo e fino al 2007 il modello di finanziamento bancario ha permesso alle imprese italiane un soddisfacente (quando non abbondante) grado di disponibilità creditizia. Ciò ha rafforzato i canali di dipendenza delle imprese italiane dal settore bancario, rinviando quel processo di diversificazione delle fonti di finanziamento (verso obbligazioni e capitalizzazione interna, soprattutto) che gli altri due grandi partner /competitor europei, Francia e Germania, stavano al tempo affrontando. Come dalla miglior tradizione popolare, però, dopo i confetti escono i difetti. La crisi economica ha messo in evidenza il difetto più destabilizzante del sistema bancocentrico di finanziamento alle imprese: la prociclicità. La stretta creditizia si è perciò abbattuta con maggior reverbero sulle economie come quella italiana e spagnola che, non avendo sviluppato solide alternative ai prestiti bancari, si sono ritrovate senza liquidità sufficiente (gli squilibri nei conti pubblici hanno, poi, aggravato la situazione)”.
Stefano Caselli e Stefano Gatti dell’Università Bocconi, in uno studio condotto da Carefin Bocconi con Equita Sim, sottolineano come “bancocentrismo e frammentazione del sistema produttivo insieme determinano il sottodimensionamento del mercato finanziario e il limitato ricorso delle imprese italiane al finanziamento sul mercato dei capitali. L’incidenza dei prestiti obbligazionari sul totale dei debiti delle aziende non finanziarie non raggiunge il 7%: solo poche aziende emettono obbligazioni sul mercato dei capitali, in media dieci all’anno nell’ultimo decennio. Pur mostrando una crescita significativa rispetto ai livelli del 2007, il rapporto tra obbligazioni e debiti finanziari delle imprese italiane è circa la metà di quello delle aziende francesi e anglosassoni. Analogamente, il ricorso al finanziamento con capitale di rischio in Borsa è circoscritto a poche grandi imprese. In Italia la capitalizzazione totale delle imprese non finanziarie è inferiore al 20% del Pil, mentre in Francia e in Germania raggiunge invece il 50% e 35% dei rispettivi Pil. […]
Appare dunque evidente l’urgenza di avvicinare le imprese ai mercati dei capitali per dare all’economia reale gli strumenti per affrontare la crisi; risulta altresì evidente come il raggiungimento di questo obiettivo non possa prescindere da un settore di intermediazione finanziaria sviluppato ed efficiente. Affinché le imprese, e in particolare le Pmi, incrementino la quantità di capitale investito nell’attività imprenditoriale anche attraverso un significativo riequilibrio della loro struttura finanziaria è infatti necessario l’intervento efficace di intermediari che congiungano le risorse finanziarie dei mercati alle necessità di finanziamento. […] Dallo studio […] emerge tuttavia come il settore dell’intermediazione finanziaria in Italia sia strutturalmente sottodimensionato e dominato da un numero ristretto di campioni nazionali e come dall’inizio della crisi a oggi il settore abbia subìto un ulteriore consistente ridimensionamento, caratterizzato dalla progressiva scomparsa di operatori collegati alle banche commerciali, dalla riduzione dei team dedicati ai servizi di ricerca societaria e dal continuo allontanamento degli operatori esteri”.
Il problema diviene ancora più drammatico perché, nelle piccole e medie imprese che costituiscono l’ossatura del nostro sistema industriale, si aggiunge un altro fattore, anche lui figlio dell’antica (ormai) disponibilità di credito: la resistenza dei proprietari a investire nell’azienda i soldi propri: “Vitale ed elastica, a tratti geniale, ma anche minuta e sottocapitalizzata. L’impresa famigliare italiana ha spesso il proprietario Porschemunito, dalle frequenti gite a Chiasso, e una patrimonializzazione sistematicamente inferiore rispetto alle concorrenti tedesche, francesi e perfino spagnole. E, oggi, questi limiti del nostro capitalismo a prato basso iniziano a emergere, non senza drammaticità. Adesso, che la pax fra banche e imprese si è rotta e che il confronto sui mercati non ha in palio la crescita bensì la sopravvivenza, i numeri assumono un significato preciso” (9). Perché negli anni buoni l’imprenditore Porschemunito, come lo chiama il giornale di Confindustria, invece di investire nella sua azienda e accantonare fondi, ha intensificato le gite a Chiasso, nella convinzione che gli utili sono dei proprietari, e le perdite dei creditori. Così se la fabbrichetta di famiglia fallisce, oltreconfine il futuro è assicurato. Altro che capitale di rischio.
E arriviamo al secondo ordine di accuse, la presunta mancanza di discernimento degli stress test, accusati di ‘punire’ i nostri istituti di credito per la debolezza della struttura economica italiana e per le basse aspettative di crescita del Pil. Al contrario, come abbiamo visto, le ipotesi della Bce fotografano esattamente quel che succede in un sistema bancocentrico come il nostro: ogni stretta di liquidità del sistema creditizio si ripercuote sul sistema economico (perché non vengono erogati i prestiti che servono a finanziare le imprese) e ogni crisi del sistema economico si ripercuote sul sistema bancario (perché i prestiti erogati quando l’economia girava smettono di essere rimborsati). Banche, imprese, famiglie sono legate a doppio filo nella già citata prociclicità: quando le cose vanno bene, vanno bene per tutti e quando vanno male, vanno male per tutti. Adesso, come tutti sanno, vanno male, e invece di mugugnare per le bocciature strameritate meglio sarebbe che i nostri vertici istituzionali (Bankitalia in testa) si ingegnassero per scioglierci da questo abbraccio mortale.
Se non si vogliono cambiare le cose, tuttavia, una ragione c’è, e riguarda – caso strano – proprio l’ultimo gruppo di critiche alla Bce che dobbiamo analizzare, il presunto favoritismo accordato alle banche tedesche in quanto beneficiarie di rilevanti aiuti di Stato. Oltre a non specificare come mai sarebbe un problema il sostegno pubblico ai settori economici in difficoltà (il sistema bancario è un settore proprio come il manifatturiero, l’editoria, l’edilizia ecc. e investirvi darebbe l’opportunità di aver voce in capitolo nelle sue strategie di indirizzo, nota non irrilevante per una politica che vuole dire la sua anche con i poteri forti), i Chicago Boys di casa nostra, ben più tolleranti verso le iniezioni di denaro pubblico quando vengono effettuate in loro favore sotto forme meno trasparenti, evitano di dichiarare che lo Stato non investe nelle banche nostrane perché sono le banche a investire nello Stato, e ne sono diventate oggi l’azionista di maggioranza. Secondo un’elaborazione dati congiunta Bankitalia-Bloomberg, ad aprile 2013 la quota di debito pubblico posseduta dalle banche italiane si attestava al 50%, e a essa si deve aggiungere il 5% circa storicamente nelle mani di Bankitalia.
Lo riporta Frank Menichelli nel suo studio intitolato Chi detiene il debito pubblico italiano? Un’analisi di lungo periodo (10), pubblicato dall’associazione Nuova Economia Nuova Società (Nens) (11). Consideriamo l’andamento di lungo periodo (1997-2013) delle quote percentuali di debito pubblico italiano detenute da banche italiane ed estere. Secondo Menichelli, l’andamento delle grandezze riportate identifica con buona precisione tre fasi distinte: “Un primo periodo (1997-1999) in cui il processo di convergenza verso la moneta unica ha imposto una rapida ‘europeizzazione’ del debito con una crescita decisa della quota detenuta dal settore bancario estero, prevalentemente comunitario; un periodo intermedio (2000-2008) caratterizzato dalla prevalente e capillare diffusione del debito italiano nelle banche dell’Eurosistema e dalla sostanziale costanza della quota detenuta dal sistema bancario nazionale; […] un periodo terminale (2009- 2013), in cui a partire dallo shock globale del fallimento di Lehman Brothers, il differenziale negativo tra le quote detenute dai sistemi bancari nazionale ed estero si è andato riducendo, dapprima per la crescita sostenuta del debito nelle mani delle banche italiane.
Il fenomeno si è poi amplificato per la riduzione improvvisa della quota detenuta dagli investitori esteri. […] Il processo di nazionalizzazione del debito non è solo la spia di un malfunzionamento del sistema finanziario comunitario, ma a sua volta ha degli effetti negativi particolarmente pronunciati sull’economia italiana. […] La quota di debito nelle mani degli investitori privati è infatti crollata da oltre il 40% a poco più del 10%; quest’ammontare pari a oltre il 30% del debito governativo italiano è detenuta ora in maggioranza dal settore bancario nazionale visto che il differenziale della quota detenuta dal sistema bancario estero è passata solo dal 20% al 35%. Complice di questo trend è stato anche il fenomeno dell’intermediazione da spread; le banche hanno infatti trovato dei guadagni privi di rischio proprio sostituendosi agli investitori privati nell’acquisto di titoli di Stato e collocando loro finanza strutturata di bassa qualità, cioè con probabilità risibile di fornire rendimenti coerenti con i rischi trasferiti. Le banche italiane sono dunque sempre più coinvolte a doppio filo nel rifinanziamento del debito governativo: infatti i rendimenti elevati rendono l’investimento in titoli di Stato appetibile in un momento di recessione in cui i profitti derivanti da investimenti nell’economia reale calano naturalmente”.
E ancora: “Con il deflagrare della crisi del debito italiano nell’estate 2011 il tasso di incremento del debito detenuto dal sistema bancario subisce un’ulteriore accelerazione, mentre i prestiti alle famiglie e alle imprese iniziano addirittura a decrescere in valore assoluto, dando l’avvio al temuto credit crunch [stretta creditizia, n.d.a.] che sta tuttora aggravando l’infinita recessione dell’economia italiana”.
La situazione tuttavia diventerebbe drammatica qualora i titoli del debito governativo diventassero ‘carta straccia’ a causa delle pessime condizioni dell’economia dello Stato (è già successo a Irlanda e Grecia, per esempio): le banche, azioniste di maggioranza dell’Italia, sono massimamente esposte verso il ‘rischio Paese’, e gli esami della Bce non potevano non rilevarlo.
Le presunte ipotesi apocalittiche degli stress test e relative bocciature svelano dunque la pessima gestione non solo finanziaria, ma anche industriale e della cosa pubblica che costituiscono oggi il sistema Italia (una ragione c’è se gli investitori esteri da noi non solo latitano, ma addirittura scappano, come i cervelli), indissolubilmente intrecciate nel circolo vizioso che si autoalimenta sotto gli occhi di tutti, ma che a nessun osservatore conviene denunciare (figuriamoci spezzare). A quelli legati alle imprese o coinvolti in politica, perché sono sottomessi ai diktat delle banche, e a quelli collegati alle banche perché al momento sopravvivono discretamente sulle macerie della nostra economia (anche se gli indici di Borsa iniziano a tentennare davanti a tanta salute). Certo che prima o poi anche le macerie finiranno. E allora dove saremo?
(1) Gli attivi di una banca sono i suoi crediti, denaro che l’istituto ha investito in titoli finanziari e prestiti (a famiglie, imprese e altre banche). L’Aqr aveva lo scopo di verificare se il capitale di una banca fosse adeguato a fronteggiare il rischio insolvenza dei vari attivi; era considerato congruo un valore pari all’8% del capitale. ‘Capitalizzare’ significa versare nuova liquidità per portare il capitale a un valore appropriato al rischio
2) Uno stress test è una simulazione di quel che avverrebbe ai conti di una banca se peggiorassero le condizione macroeconomiche di base (variazione del Pil, andamento dei tassi di interesse ecc.)
3) A. Merli, Stress test: non passano 25 banche, 9 sono italiane. Più capitale per Mps e Carige, Il Sole 24 ore, 26 ottobre 2014
4) G. Salerno Aletta, Perché Berlino non può dare lezioni, www.formiche.net, 26 ottobre 2014
5) F. Pavesi, C. Bastasin, Il paradosso delle banche tedesche: hanno più derivati che crediti ma vengono promosse, Il Sole 24 ore, 26 ottobre 2014
6) A. Greco, Patuelli: «Aiuti miliardari a Spagna e Germania, noi paghiamo la debolezza del Paese», La Repubblica, 27 ottobre 2014
7) Per market maker si intende “il soggetto che si propone sui mercati regolamentati e sui sistemi multilaterali di negoziazione, su base continua, come disposto a negoziare in contropartita diretta acquistando e vendendo strumenti finanziari ai prezzi da esso definiti”. D. Lgs. n. 58/1998, art. 1, comma 5-quater
8) Gianluca Antonecchia, Impresa e banca, storia di una relazione in crisi reversibile, www.prometeia.com, 25 agosto 2014
9) M. Alfieri, P. Bricco, Il coraggio di investire sull’azienda, Il Sole 24 ore, 20 settembre 2009
10) F. Menichelli, Il processo di nazionalizzazione del debito pubblico italiano. Il supporto Bce alle banche, la disintermediazione dell’economia reale e la possibile fine dell’euro, www.nens.it
11) Nens è un think tank fondato nel 2001 da Pier Luigi Bersani e Vincenzo Visco, insieme con Nicola Rossi, Giulio Sapelli, Giuseppe Farina e Paolo Ferro Luzzi