di Felice Accame e Emilio Del Giudice |
Il principio di indeterminazione oltre il soggettivismo, l’oggettivismo e l’ontologismo; la diatriba tra Lenin e Bogdanov e la fisica quantistica; il rischio dello scetticismo. Incontro dibattito alla libreria Odradek di Milano, 14 gennaio 2011
Felice Accame. Nel 1909, Natalia Bogdanova riceve una lettera da Mak’sim Gor’kij. In essa, lo scrittore si dice costernato per quanto ha scritto Lenin – di recente, in Materialismo e empiriocriticismo – contro suo marito Bogdanov con toni tali da far presumere ch’egli si ritenga il solo depositario della verità. L’anno successivo, Bogdanov risponderà da par suo in Scienza e fede rinfacciando a Lenin una serie di asserzioni caratteristiche della filosofia realista: tra l’altro, che la “verità assoluta è la somma di tutte le verità relative”, che può darsi una “conoscenza obiettiva assoluta” e che “a ogni ideologia scientifica corrisponde una verità obiettiva”.
A ciò – e ad asserzioni dogmatiche simili a ciò – Bogdanov contrappone la sua ‘tettologia’, come scienza generale dell’organizzazione chiaramente relativistica. Tra i due contendenti, tuttavia, si può dire che le acque si plachino, perché, divisi sulla questione fondamentale della teoria della conoscenza ma ugualmente, entrambi, sinceri rivoluzionari, decidono di soprassedere sulla loro contesa – e sulla contesa fra le collettività che rappresentavano – almeno fino a che la rivoluzione non avesse mutato il corso della storia russa.
Inutile dire che questa resa dei conti non è mai avvenuta. Una volta al potere, Lenin liquidò fisicamente una buona parte della frazione dissidente dei bolscevichi di sinistra, risparmiando però Bogdanov che, infatti, seppure di poco, gli sopravvisse.
Orbene, a mio avviso, aveva torto marcio Lenin e aveva torto marcio Bogdanov, perché nessuno dei due – per volontà o per incapacità – aveva fatto i conti fino in fondo con la filosofia e, pertanto, il valore analogico del mio racconto – che, peraltro, si rifà a storia nota – qui finisce. Se
nella contesa fra me e Del Giudice, nella mia fantasia malata, mi vedessi nella parte di Bogdanov – e Del Giudice in quella di Lenin – prenderei spunto da questa vicenda per dire che, questa volta, non ho alcuna intenzione di farmi fregare.
Tengo molto a Del Giudice, perché lo ritengo una persona intelligente e leale, scienziato valente e, soprattutto, intellettuale di opposizione a questo opprimente sistema nel quale ci tocca faticosamente vivere fino a che vivere ci sarà dato, ed è proprio per queste ragioni che voglio spendere in termini di argomentazioni tutto ciò che ho da spendere per tentare di convincerlo delle mie tesi e per far sì che, prima della prossima rivoluzione, la questione della filosofia e la filosofia stessa siano liquidate una volta per tutte.
Ciò detto, sarà bene che confessi come, per raggiungere il mio scopo, debba orientarmi alla meno peggio. Infatti, non posso affermare di sapere esattamente cosa ci divide – me e Del Giudice – ma so con certezza che, in un incontro pubblico di qualche mese fa, lui – con tutta l’affettuosa benevolenza di cui è capacissimo – ha categorizzato alcune mie affermazioni sulla procedura scientifica come ‘fesserie’. Da ciò il mio sospetto –un sospetto reso legittimo se non altro dal mio orgoglio – che, alla base di quel suo giudizio, possa annidarsi un contraddittorio più ampio – un contraddittorio che potrebbe fin annoverare una cospicua dose di quel che fu il dibattito fra Lenin e Bogdanov.
La prima di queste considerazioni concerne ogni tentativo di fondare una teoria della conoscenza. Vorrei che se ne constatasse la vanità – e che si ammettesse che non avrebbe potuto essere altrimenti. Occorrerà spiegarne – rispiegarne per l’ennesima volta il perché: checchessia categorizziamo come ‘cosa’, ‘qualcosa’, checchessia cui poi, eventualmente, diamo un nome, non può che essere il risultato di nostre operazioni mentali. Da ciò consegue che raddoppiare il risultato di una percezione – ponendone una copia in un metaforico interno di noi e ponendo l’altra copia in un altrettanto metaforico esterno di noi – non ha alcun senso. Perché le copie sono inconfrontabili – dei due elementi uno solo può esserci noto perché da noi costituito, l’altro è una finzione, prodotto di una presupponente illusione metodologica. Da ciò deriva che la richiesta di verità o di esattezza di una delle due copie – a seguito di un’eventuale uguaglianza ottenuta dal confronto – è una richiesta impropria, priva di senso.
Questa consapevolezza è già di Platone. Le narrazioni più e meno fantasiose cui Platone fa ricorso per sanare questa situazione – la reminiscenza di cose già note in una vita precedente, l’eccezione che spetterebbe non si sa bene in virtù di che ai pochi che sarebbero capaci di vedere dopo essersi liberati dalla schiavitù nella caverna oscura – non possono essere considerate come soluzione del problema neppure da Platone stesso. Il quale, facendovi ricorso,
cerca di salvare le gerarchie sociali e le strutture di potere che esse hanno generato.
Un’altra considerazione rilevante concerne una soluzione linguistica con cui questa illusione metodologica, inconsapevolmente, è stata nascosta: si è designato con il verbo ‘conoscere’ il passaggio dal metaforico esterno al metaforico interno della copia. Si è fatto ricorso ancora una volta a una metafora irriducibile a operazioni mentali: dal designare la ripetizione nel tempo, il verbo è finito a designare la ripetizione nello spazio.
La teoria della conoscenza in altro non consiste. Le variazioni che ha subìto nel corso della storia della filosofia sono direttamente dipendenti dalla consapevolezza relativa alla contraddizione iniziale. Queste variazioni – sia nella forma idealistica che nella forma scetticheggianterelativistica – minano alla base l’impresa scientifica, ovvero quella che per me – se ricondotta alle sue operazioni costitutive – rimane un modello fondamentale di democrazia di
principio (che, poi, la pratica neghi ciò, non è da prendersi in considerazione qui).
Veniamo dunque alla scienza. La teoria della conoscenza, ratificando lo sdoppiamento dei risultati della percezione in due copie, ci consegna un mondo bell’e fatto, indipendente da noi, come una raccolta di enti – ontologizzato.
Così, non ci sarebbe più possibile pensare a un’analisi in termini di dinamismi, di operare costitutivo, e la scienza – la nostra forma di conoscenza sicura – avrebbe l’ingrato compito di rappresentare la realtà, intesa come la collezione delle copie esterne, in quanto collezione di esatte copie interne. Così differenzieremmo anche gli oggetti – quelli passibili di scienza (quelli naturalistici) e quelli non passibili di scienza (quelli spirituali – o designati con altre metafore più o meno acconce).
Sulla scienza, insomma, ricadrebbe l’eredità della teoria della conoscenza e la sua contraddizione iniziale. La scienza, allora, sarebbe un’impresa vana – proprio come la vorrebbero l’idealismo e lo scetticismo.
Tuttavia, se rinunciamo alla teoria della conoscenza potremmo pervenire a un’idea della scienza caratterizzata dalle sue procedure. Ne propongo una articolata in tre fasi.
A. Si assuma qualcosa come termine di confronto – ovvero lo si tenga fermo almeno per tutta la durata del confronto. (Per esempio: “Gli esseri umani hanno una temperatura corporea di 36,5°”)
B. Si individui qualcosa come differenza – esito dell’operazione di confronto con risultato una differenza. (“Felice, in questo momento, ha una temperatura corporea di 37,8°”)
C. Si sani la differenza. (“Felice ha l’influenza”, “Felice è fortemente coinvolto nella sua argomentazione”, “È un effetto di un esperimento di fisica quantistica eseguito questa mattina da Emilio Del Giudice”, “Il mago Otelma ha gettato il malocchio su Felice”).
Un’avvertenza o, meglio, più che un’avvertenza, un’implicazione: termine di confronto, differenza e sanatura sono risultato di operazioni mentali di qualcuno – di uno, di una collettività.
Fino a ora, tuttavia, questa procedura non è ancora sufficiente, a mio avviso, a caratterizzare la procedura scientifica. Manca un’operazione mentale ulteriore: l’assegnazione di ripetibilità – una ripetibilità in linea di principio – dal Big Bang alla cottura degli spaghetti – alla procedura medesima, ovvero ai rapporti posti in essere.
A questo punto ci imbattiamo nel punto più spinoso. Ci si chiederà: se tutto ciò è risultato di operazioni mentali di qualcuno – che potrebbero pur sempre essere giuste o sbagliate – come facciamo a fidarci? Perché le cose funzionano? Non è forse questo un buon argomento a favore delle scetticismo? (Non stiamo forse ripetendo la stessa obiezione che Hume mosse a Berkeley?)
A questa obiezione io rispondo così.
Punto primo. A fare queste operazioni siamo in tanti. Mai ‘tutti’ – una categoria infida – ma tanti sì.
Punto secondo. Termini di confronto, differenze e sanature sono irrelati e interdipendenti. Ogni sanatura nuova, per esempio, deve essere coerente con le sanature poste in precedenza e non può contraddirne nessuna – quando ciò accade si è costretti, infatti, a cambiare il termine di confronto o a vivacchiare in attesa di una soluzione. La storia della scienza è zeppa di casi del genere.
Punto terzo. Queste procedure devono risultare ‘viabili’ – come direbbe Ernst Von Glasersfeld – ovvero quanto meno non devono implicare la morte dell’organismo vivente che le adotta.
Messe così le cose, la scienza anziché consacrare l’autorità trascendente di qualcuno, si dimostra un’impresa intrinsecamente democratica, perché è risultato di un lavoro collettivo e perché è riducibile a istruzioni eseguibili in linea di principio da chiunque – senza alcuna necessità, ripeto, di poteri speciali conferiti a qualcuno.
Qualcuno potrebbe dirmi che la mia tesi è vecchia e risaputa. C’è chi sostiene che la filosofia contemporanea è avvertitissima di tutto ciò e che, pertanto, in questo tipo di errori non cade più da un pezzo. Io dico di no. Dico che l’istruttoria contro la filosofia non è mai stata fatta in modo sufficientemente radicale e che, pertanto – anche dopo accalorate denunce – le cose tornano tali e quali, tanto è vero che è ancora la stessa filosofia a pontificare: realismo e versioni varie di idealismoscetticismo pagano (si pensi al nazismo e al fascismo), soprattutto chi sta dalla parte giusta del tavolo della storia.
A testimonianza di quanto dico – con dispiacere – porto l’esempio di un libro recente, uno degli autori del quale, in precedente occasione (La rivoluzione dimenticata), si è meritato un’ampia dose della mia stima. Si tratta di Ingegni minuti – Una storia della scienza in Italia di Lucio Russo e Emanuela Santoni (Feltrinelli, Milano 2010).
Raramente – sembra un paradosso ma è così – un libro che ambisca a raccontare una ‘storia della scienza’ – in Italia, altrove o tanto in generale da non doverne specificare né luogo né tempo – prende l’avvio chiarendo cosa debba intendersi – o cosa venga inteso nel corso del racconto stesso – per ‘scienza’, ovvero per l’oggetto del discorso. Rispettando l’intelligenza del lettore, il libro di Russo e di Santoni ha l’indubbio merito di farsi carico di questa cautela. Tuttavia, va da sé che la definizione data costituisca il criterio in base a cui qualcosa venga incluso nel racconto e qualcos’altro no. Non solo: va da sé, anche, che la definizione
sia discutibile.
Russo e Santoni, dunque, definiscono la scienza di cui si occupano come un “insieme di conoscenze” – “elaborate nell’arco di molti secoli” – che “condividono alcune caratteristiche fondamentali che le rendono ben distinguibili da altri prodotti culturali” – un insieme che si articolerebbe in “teorie caratterizzate dalla contemporanea presenza di coerenza logica interna e di un rapporto esplicito e verificabile con la realtà”.
Ci risiamo. Ma – al di là del fatto che in tale definizione si fa ricorso a un termine non definito come ‘teoria’ – resta il fatto – un fatto solido, annosamente solido come l’intera storia della filosofia – che non è affatto scontato cosa possa intendersi per verificare checchessia ‘con’ – tramite, per mezzo della – ‘realtà’ – termine a sua volta sul quale pochi – e fra questi neppure Russo e Santoni nella circostanza – ritengono opportuno soffermarsi con intento definitorio.
Emilio Del Giudice. Per prima cosa, mentre da un lato ho grande simpatia per Lenin, da un altro non mi riconosco in metodi drastici di liquidazione fisica dell’avversario citati da Accame – metodi che, in realtà, non appartenevano nemmeno a Lenin: i massacri vennero dopo e non a caso lui fu il primo a morire. Gli altri gli sono sopravvissuti, ed è inutile dare a Lenin la colpa delle morti avvenute dopo la sua, di morte… Ma veniamo alla polemica tra Lenin e Bogdanov: sono d’accordo con Accame, in una certa misura avevano entrambi torto, ma in un’altra avevano entrambi ragione, anche se in modo parziale. La preoccupazione di Lenin, molto fondata, era di non lasciar cadere a mare l’oggettività: su questo non transigeva e avendo colto, nella formulazione di Bogdanov e Lunacarskij, un timore, caricò a testa bassa.
In realtà, Bogdanov e Lunacarskij non ce l’avevano con l’oggettività, ma con l’ontologismo. Con la pretesa di definire gli oggetti. Per esempio, io dico la parola ‘Felice Accame’, e credo di sapere che cosa questa parola dica. Quindi mi viene chiesto: definisci Felice Accame. Quanto è alto? Non lo so. Quanto pesa? Non lo so. Quanto è la sua temperatura? Non lo so. Quanto ha di colesterolo? Non lo so. Allora tu non conosci Felice Accame, non sai niente di Felice Accame, mi viene contestato. Non è vero, io lo conosco. E allora che cosa conosci? Conosco una risonanza, un certo fascio di sentimenti e sensazioni che si unificano in quella persona.
Viceversa, immaginiamo che qualcuno sappia quanto è alto Felice Accame, quanto pesa, quanto è la sua temperatura, e niente altro: non l’ha mai visto, non ci ha mai parlato. Questo qualcuno sa qualcosa più di me? No. Quindi vuol dire che tutta questa discussione è mal posta. Mi spiego: quasi tutti gli scienziati che hanno scoperto qualcosa, di teorie della conoscenza non sapevano nulla.
Cito un episodio che mi è stato raccontato.
Il giovane Heisenberg, dopo aver formulato il suo fondamentale articolo sul Principio di determinazione, volle chiedere a Einstein il suo parere e, prima di mandarlo alle stampe, gli inviò una copia del testo e chiese un colloquio. Einstein lo ricevette una sera a casa e conversarono tutta la notte, separandosi solo all’alba. Questa fu la conversazione, come mi è stata riportata da uno degli ultimi collaboratori ancora in vita di Heisenberg.
Einstein disse: da un punto di vista tecnico e matematico non ho alcuna obiezione da fare, non ho trovato errori. Però, non posso nascondere che questo lavoro mi lasci un po’ a disagio, perché se tu – Heisenberg – hai ragione, ciò significa che non tutte le variabili esistenti in natura
possono, in principio, essere definite. Sono d’accordo che non possiamo avere la conoscenza di tutto, ma una cosa è la limitazione della conoscenza dovuta alla nostra limitatezza, altro è una limitazione di principio. E questo mi turba, perché il mio ideale di mondo si fonda sul principio che
tutto deve essere calcolabile. Il giovane Heisenberg lo fulminò.
Occorre prima precisare che egli riceveva, per sua fortuna, ben due stipendi: uno come professore di fisica all’università, e un altro come membro titolare professionista dell’Orchestra sinfonica di Monaco. Anche Einstein suonava il violino, ma era un dilettante. Heisenberg dunque era, oltre che un fisico professionista, anche un musicista professionista.
Nella sua persona si identificavano quindi due mondi, non uno solo. Ebbene, egli rispose: tutti noi sappiamo che esistono nel mondo fenomeni non calcolabili: la commozione artistica, l’amore… se abbiamo una dottrina, una teoria, in cui tutto è calcolabile in principio, questa dottrina non può affrontare questi fenomeni non calcolabili.
Vuol dire che se la fisica corrisponde alle tue aspirazioni, l’amore, l’arte, la bellezza, ne sono escluse. Se invece – e questa è la mia aspirazione – vogliamo che anche all’interno della scienza emergano l’amore, l’arte, la commozione, in principio dobbiamo avere una scienza in cui non tutto sia calcolabile.
Questa fu la risposta di Heisenberg, e infatti la fisica quantistica, a differenza della fisica classica, si ritrova in questo principio. Al contrario, tutti i cosiddetti paradigmi scientifici proposti dai non scienziati si fondano sull’ontologismo più assoluto, che è il fondamento della fisica classica.
Affrontiamo la questione da un altro punto di vista: dove nasce l’ontologismo?
Nasce dalla tendenza a separare la natura in parti. Una famosa frase di Cartesio afferma che tanto meglio conosciamo un oggetto quanto più lo dividiamo in parti. Questo è il sogno dell’atomismo. Se riesco a sbriciolare una persona e a numerare uno dopo l’altro tutti gli atomi di cui è fatta, avrò una conoscenza perfetta di questa persona.
Ma se qualcuno mi mostra tutti gli atomi di cui è composto un essere umano, che qui chiameremo Concettina, questi non mi dicono se Concettina è una donna allegra o triste; se è una donna che si commuove oppure no; se è bella o brutta.
Se qualcuno posiziona un analizzatore di spettri acustici e mostra, secondo per secondo, lo spettro delle frequenze emesse dal mio parlare in questo momento, questa mole di informazioni non può far conoscere ciò di cui sto parlando: fisica, politica, donne o calcio? Esiste quindi un principio di complementarietà.
Se conosco tutte le frequenze e le note musicali di una suonata, non significa che posso percepirla. Viceversa, se la sento, non riesco a dire su quale tasto, in un dato momento, stava il dito del pianista. Questo è il principio di indeterminazione.
Quest’ultimo corrisponde al fatto che nella realtà, sostanzialmente, esistono due moti: un moto unificante e un moto separante. Esistono entrambi, perché se ci fosse solo il primo siamo all’Essere di Parmenide, e se ci fosse solo il secondo saremmo all’incomunicabilità più totale.
In questo senso, nella polemica tra Bogdanov e Lenin, il primo era preoccupato dell’ontologismo: del desiderio di attribuire alla scienza – e in questo c’è una valenza politica – il
compito di dare certezza, dato che la scienza deve rassicurare. Una tendenza presente non nei buoni scienziati – non conosco nessun buono scienziato ontologista – ma nei cattivi scienziati, oppure in quelli che si presentano al pubblico come interpreti della scienza – i Piero Angela di turno. Oltretutto, la certezza è solo un aspetto della realtà, perché se tutto fosse certo nulla si muoverebbe; ci si può muovere solo se esiste qualche incertezza, e l’ha ben notato il filosofo Zenone nel paradosso della freccia, che non si può muovere perché in ogni momento è al suo posto. E allora dov’è il movimento della freccia? È proprio nel fatto che c’è una indeterminazione.
Questo desiderio di definizione assoluta nasce come conseguenza del suggerimento di Cartesio: se il mondo viene diviso in parti, e se queste parti sono concepite come separate, in ogni parte separata niente entra e niente esce. Dunque tutto è fisso, costante, i numeri sono quelli e sono fissati per l’eternità, perché quell’oggetto è infinitamente isolato. Ovviamente, nessuno è così fesso da dire che esiste l’oggetto infinitamente isolato, ma è da questo pensiero che si parte per inserire, successivamente, il mutamento in modo controllato: si afferma, cioè, che un oggetto è infinitamente isolato tranne questa piccola forza che sta agendo in questo punto determinato, e si studia piano piano il modificarsi dei parametri. In fisica, è chiamato il ‘metodo perturbativo’, e corrisponde al concetto che l’oggetto è definito preventivamente come assolutamente isolato, e da lì si comincia a ‘perturbarlo’. La perturbazione, però, non può essere uno tsunami, deve essere modesta. La Terra, per esempio, non si muove di moto rettilineo uniforme, come accadrebbe se fosse isolata; ma se limito la mia osservazione a un periodo modesto, tre ore, il moto è rettilineo uniforme; devo aspettare e osservare per qualche giorno, prima di vedere che in realtà sta facendo una curva.
La fisica classica ha vissuto sullo studio dei fenomeni perturbativi per due secoli. Ma da un secolo a questa parte – e personalmente sono sempre arrabbiatissimo del fatto che questi sviluppi della scienza dell’ultimo secolo non siano conosciuti –la scienza è andata oltre i fenomeni.
È nata la fisica quantistica, è nato il principio di indeterminazione – che è la negazione della fisica come certezza – e ciò significa mettere al centro non l’oggetto ma le relazioni tra gli oggetti, i quali non possono essere definiti in modo assoluto senza con questo spegnere la possibilità di movimento.
Queste cose Bogdanov le percepiva. Però, essendo lui ancora interno al vecchio paradigma, le considerava non come un fatto oggettivo ma come la constatazione che non si può avere conoscenza di come è oggettivamente qualcosa. E questo faceva arrabbiare Lenin, che temeva il solipsismo: allora vuol dire che la rivoluzione non è un fatto oggettivo ma sono sogni degli intellettuali da caffè che si riuniscono a Parigi! E in questo, aveva ragione. I motivi politici con cui Lenin combatteva questo pensiero erano fondati, tuttavia non fu capace di comprendere appieno che cosa dicesse Bogdanov. Lo capì forse in seguito: nei Quaderni filosofici c’è infatti un’affermazione molto bella. Commentando Hegel, Lenin scrive: ci sono due tipi di movimento, in natura, quello dall’esterno e quello dall’interno. Il primo è quello che si ha quando si sottopone l’oggetto a una forza; questo, però, è il movimento meno essenziale. Il movimento essenziale è quello che nasce dall’esigenza interna del corpo che si muove, per cui si può produrre un movimento solo agendo dall’interno, e non dall’esterno.
Questo accadeva negli stessi anni in cui nasceva la fisica quantistica, che attribuisce ai corpi non solo il movimento determinato da forze esterne ma anche un movimento dall’interno, che è quello che dà luogo alla meccanica ondulatoria e che rende possibile le emozioni.
Da questo punto di vista, Lenin andò molto lontano; anche Bogdanov, soprattutto quando, a un certo punto, smise di civettare con Mach – d’altra parte, anche Einstein civettò con Mach, pur indebolendo oggettivamente la sua teoria: la relatività di Einstein non ha infatti nulla a che vedere con il fatto che tutto è relativo, ma calcola qual è l’oggettività vista da diverse persone.
Oggettività non vuol dire uniformità. Il fatto che io vedo un oggetto differentemente da come lo vede un altro non è soggettivismo: significa che la relazione che lega me a quell’oggetto è diversa dalla relazione che lega un’altra persona a quell’oggetto.
I nostri punti di vista, però, sono entrambi oggettivi; sono diversi perché stiamo guardando differenti aspetti dello stesso oggetto.
Esiste quindi un modo oggettivo di studiare il soggetto, una visione oggettiva del soggetto. Possiamo avere un soggettivismo oggettivo. Questo aspetto sfuggiva sia a Bogdanov che a Lenin, e tra l’altro è una questione fondamentale per una teoria della rivoluzione: le varie classi sociali vedono lo stesso fatto in modo diverso. Marx, genialmente, lo aveva compreso. Alla fine della sua vita non ebbe il tempo di scriverne, però parlava moltissimo di come si potesse costruire una teoria oggettiva della soggettività che uscisse dalle stupidaggini dell’ontologismo.
L’ontologismo, quindi, non ha nulla a che vedere con l’oggettività; è un modo miserabile di definire l’oggettività, di pretendere che l’oggetto – che ha infinite determinazioni – sia descrivibile soltanto da un piccolo numero di parametri.
Per quanto riguarda la ripetibilità della scienza come condizione indispensabile della sua democraticità, oggi la situazione è opposta. Quando si progetta un esperimento come quelli condotti al Cern di Ginevra, per esempio, che costa trenta miliardi di euro, come può essere riproducibile? Solo se si hanno a disposizione, o se qualcuno elargisce, altri trenta miliardi di euro! Purtroppo questa è la scienza moderna.
C’è poi un altro aspetto. Un mio collega inglese, Cyril Smith, ha concluso un articolo molto importante con questa frase: nessun esperimento di biologia può essere indipendente dallo stato fisico dell’operatore. E quindi dov’è la riproducibilità? Ma ciò non toglie che si tratti di un processo oggettivo, di soggettività oggettiva. La pretesa oggettiva di riproducibilità corrisponde alla pretesa che la realtà sia separabile. Se un fenomeno dipende da centocinquantamila parametri, è riproducibile solo a condizione che tutti i centocinquantamila parametri vengano riprodotti: se ne riproduco solo centomila, e non gli altri cinquantamila, l’esperimento dà un risultato diverso.
Essenzialmente, e qui concludo, bisogna sfuggire alla trappola dell’ontologismo, ossia alla pretesa che una qualunque parte della natura possa essere separata da tutto il resto dell’universo, e quindi sia definibile con un numero finito di parametri. Questo sì, può dare una conoscenza approssimativa e limitata a certi scopi, anche politici.
La stessa cosa vale per le operazioni mentali, di cui parla Accame: esse non possono mai essere definite nell’isolamento del soggetto, ma sono sempre definite nell’interazione. Personalmente sono assolutamente contrario a che si possa definire il metodo separatamente dal merito: non esiste un metodo conoscitivo definibile indipendentemente dalla cosa che deve essere conosciuta. Perché questo significa porre una separazione tra il soggetto e il mondo, mentre il soggetto conosce in quel modo proprio perché il mondo è fatto in quel modo; se il mondo fosse fatto in modo diverso la regola, il metodo, sarebbero diversi. In questo senso, la definizione di un metodo di conoscenza che prescinda da come è fatto il mondo, è assurda.
Ma questo non porta allo scetticismo. Così come nel caso di Bogdanov, non si poteva trasformare la polemica contro l’ontologismo in polemica contro l’oggettività, qui non si può trasformare il rifiuto della definizione del soggetto conoscente indipendentemente dalla cosa da conoscere, in scetticismo. Rifiutare il concetto che le regole da conoscere sono conosciute e definite una volta per tutte, non significa essere scettici.